Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Natura liquidatoria del piano, calcolo delle adesioni e crediti contestati


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Articolo

Crisi, continuità aziendale e bene comune: interessi, prerogative e responsabilità nel complesso ciclo dell’impresa sostenibile


Remo Tarolli

Data pubblicazione
18 luglio 2025

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Sommario: 1. Interessi in gioco e nozione di “bene comune”. - 2. “Fine aziendale” e continuità d’impresa nell’ottica del bene comune: insolvenza, colpa e responsabilità. - 3. La necessità di una cesura tra proprietà e gestione: tra novità e occasioni mancate - 4. Conclusioni.


1. Interessi in gioco e nozione di “bene comune”

Da qualche tempo a questa parte sembra aver fatto definitivamente breccia nel comune sentire la necessità di considerare l’imprenditore come un soggetto orientato non soltanto alla ricerca della massimizzazione del profitto ma anche al perseguimento di obiettivi più legati ad una dimensione collettiva. In questa chiave va certamente letta la spinta normativa, accompagnata ad incentivi e stimoli pubblici, verso modelli aziendali che combinano la componente lucrativa con la capacità di favorire un impatto positivo sulla società nel suo complesso; ne sono esempi paradigmatici, tra gli altri, la disciplina dettata in materia di “società benefit”[1]– realtà che indirizzano la propria mission verso finalità di guadagno ma anche di beneficio sociale – e quella in tema di bilancio di sostenibilità, attraverso cui l’impresa dà conto delle proprie performance in ambito “ESG”[2]. In questa logica, la governance deve essere in grado di coniugare lo scopo lucrativo, che rimane indispensabile nell’ottica dei soci che conferiscono il capitale di rischio (e che mirano ad una adeguata remunerazione del medesimo), con un obiettivo di più larga portata, che riguarda il contributo dell’impresa alla crescita e al progresso della comunità in cui opera[3]: che riguarda, in altre parole, il suo contributo al bene comune. Si fa quindi strada, nell’indirizzo del regolatore, la tendenza ad assecondare quei comportamenti che nell’analisi sociologica possono essere definiti “intelligenti” (in contrapposizione ai comportamenti predatori), in quanto finalizzati a perseguire contemporaneamente il proprio interesse individuale e l’aumento del benessere collettivo[4].

Questo contributo, dopo aver brevemente inquadrato (senza alcuna pretesa di organicità e tanto meno di completezza) il contesto entro cui si colloca il dibattito sul c.d. fine aziendale, intende allora indagare se e in che misura il riformato diritto concorsuale italiano abbia recepito – o meno – il passaggio in atto verso modelli di impresa, anche nei suoi momenti di crisi, più intelligenti e sostenibili[5].

 

2. “Fine aziendale” e continuità d’impresa nell’ottica del bene comune: insolvenza, colpa e responsabilità.

La necessità di guardare con nuove lenti agli effetti che l’attività d’impresa produce sulla collettività muove da un assunto da tempo presente nel dibattitto sul “fine aziendale”: quello per cui tale fine non dovrebbe ridursi alla somma degli interessi dei soci e nemmeno di quelli degli stakeholders (se con essi si identificano i soggetti portatori di specifici interessi in una determinata impresa[6]). E ciò in quanto, come la storia recente ci ha insegnato, l’impresa genera esternalità positive e negative – sull’economia, sull’ambiente, sulla salute e su tutto ciò che ha un valore tangibile per le persone – che possono investire una comunità molto più estesa di soggetti[7]. Il modo in cui l’impresa è gestita non è quindi un “affare” dei soli soci o di coloro che hanno rapporti diretti con l’impresa, poiché il conto, spesso salato, di una gestione dissennata (si pensi al danno all’ambiente, o a quello alla salute pubblica) viene pagato dall’intera collettività. Una gestione “intelligente”, nel senso sopra ricordato, deve quindi tendere a combinare gli interessi (più che legittimi) dei soci con quelli più ampi della comunità in cui opera. E per farlo, deve anzitutto provvedere affinché sia salvaguardata la continuità aziendale nel rispetto degli impegni assunti, perché l’incapacità di onorare tali impegni – e la conseguente crisi dell’impresa – può generare un pregiudizio non solo ai portatori di capitale e ai titolari di un’aspettativa diretta, ma ad una cerchia di soggetti molto più vasta.

Il perseguimento della continuità aziendale diventa così, se attuato su vasta scala, un fattore di benessere collettivo. Si tratta di un obiettivo che implica l’adozione di “scelte sociali”, indirizzate a conciliare l’utilità individuale – imprescindibile in qualsiasi sistema di mercato – con l’utilità generale[8]. La cronaca dell’ultimo periodo è ricca di esempi, positivi e negativi, che richiamano un tale tipo di scelte gestorie. E tra gli esempi negativi, non possono non essere menzionati quelli di realtà, anche molto significative, nelle quali la generazione di lauti dividendi a breve termine per gli azionisti è andata completamente a scapito di investimenti e produzione (secondo una logica di medio-lungo periodo più coerente con l’utilità collettiva), determinando un crollo di volumi e quote di mercato, oltre che la perdita di posti di lavoro[9].

Mi sembra pertanto difficile, nell’attuale contesto, non condividere l’approccio di quella dottrina economica che da tempo propone di considerare l’impresa come un istituto portatore di un fine distinto da quello dei singoli soci, in quanto investita di una autonoma responsabilità sociale (secondo il paradigma della Responsabilità Sociale d’Impresa)[10]. In questo scenario, che si evolve molto rapidamente, la “teoria dell’agenzia” – secondo la quale i soci sono i “principals” e gli organi di governogli “agents” a diretto servizio dei primi, nell’esclusivo interesse dei quali si trovano ad operare – non costituisce più un modello in grado di dare conto in modo convincente delle nuove complessità che interessano l’attività di impresa.  L’organo gestorio dell’impresa, in grado di incidere su differenti categorie di interessi diffusi, deve allora potersi emancipare, almeno in parte, dal controllo di azionisti mossi dalla (sola) finalità di rendimento residuale sul capitale investito, ricercando un punto di mediazione tra le legittime aspettative di costoro ed il bene comune. In questa chiave, il board non è (o meglio, non è soltanto) un agente disciplinato di chi conferisce il capitale, ma diventa il soggetto che rende possibile l’equilibrio tra profitto e responsabilità sociale dell’impresa, consistente anzitutto nella necessità di assicurare la durabilità di quest’ultima. Questa è la premessa giuseconomica che ha portato il legislatore ad incentivare la previsione per via statutaria di requisiti di indipendenza dell’organo amministrativo[11] nonché, per le realtà – si pensi alle società quotate o alle banche – che più di altre possono interferire con la tutela di beni comuni (quali il mercato del risparmio e l’esercizio del credito), a stabilire per via normativa che tali requisiti siano rigorosamente rispettati, sulla base di una disciplina di dettaglio[12]. Come è stato efficacemente osservato[13], affermare che l’impresa debba essere gestita non solo nell’interesse dei suoi soggetti economici (shareholders) ma, anche, in nome di interessi di portata più ampia non significa affatto disconoscere i fondamenti del sistema capitalistico, che vede nel profitto il motore della crescita e la ricompensa per chi ha investito capitale di rischio. Significa invece orientare la mission dell’impresa verso la “creazione di valore sostenibile” in funzione di un modello meno predatorio e più “intelligente”, favorendo una gestione capace di salvaguardare la durabilità e la continuità aziendale.

I riflessi di un tale nuovo modo di intendere il rapporto tra l’impresa e l’ecosistema (economico e non solo) in cui questa si colloca ha trovato nella legislazione più recente diversi sbocchi applicativi. Si pensi, su tutti, alle molte norme di incentivo rispetto alle funzioni di compliance aziendale, che mirano a sviluppare una nuova consapevolezza per la tutela di altrettanti beni della collettività: la formazione etica, il rispetto dell’ambiente, l’evoluzione verso la parità di genere e così via.

Se, allora, la continuità aziendale costituisce un “bene comune su cui tutti dovrebbero convergere[14], mi sembra chiaro come il rischio d’impresa, e segnatamente il rischio di vedere pregiudicata la continuità dell’impresa stessa, non riguardi più tanto e solo l’aspettativa dell’imprenditore di ottenere successo dalla propria attività economica; tale rischio si lega piuttosto all’eventualità che una gestione imprudente, che porti alla decozione dell’impresa, generi esternalità negative in danno della collettività. Ed è precisamente questa la ragione che ha portato il legislatore ad introdurre un dovere molto penetrante a carico dell’imprenditore, e cioè quello di approntare un “assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alla dimensione dell’impresa” (art. 2086, comma 2, c.c.) per cercare di intercettare in anticipo i segni premonitori della crisi ed evitare così l’insolvenza[15]. Il principio che sta alla base di tale scelta di policy normativa non potrebbe essere più chiaro: l’insolvenza, in sé considerata, non è una colpa dell’imprenditore (che deve ritenersi, con tutti gli accorgimenti del caso, “libero” di fare scelte sbagliate secondo un principio di tendenziale discrezionalità[16]); lo diventa però se non è impedita quando è ancora possibile farlo. L’obbligo di dotare la propria impresa di assetti adeguati rappresenta così il termometro della responsabilità dell’organo di gestione e di quello di controllo[17]. E la portata di una tale responsabilità va misurata guardando alla concreta estensione del rischio, che non si risolve in un “affare” tra debitore e creditori ma assume inevitabilmente una latitudine diversa. Come è stato correttamente osservato[18], il rischio d’impresa che gli assetti mirano a fronteggiare consiste nel rischio che l’impresa determini esternalità negative – e tra queste, proprio l’insolvenza – che non assorbe e che scarica sulla collettività, e cioè sulla società civile.

Le considerazioni che precedono ci portano inevitabilmente a riflettere sul grande tema della responsabilità dell’imprenditore-amministratore il quale, invece di salvaguardare la continuità aziendale adottando tutti i presìdi necessari a scongiurare l’insolvenza, conduca colpevolmente l’impresa al dissesto generando un danno diffuso alla collettività. Sul fronte delle conseguenze patrimoniali tale comportamento è sanzionabile, per ciò che attiene ai “danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori ed ai terzi”, adottando il metro stabilito dal novellato art. 2486 c.c., che prevede un’entità del risarcimento secondo il criterio dei netti patrimoniali o, in subordine, secondo la differenza aritmetica tra attivo e passivo. Al di là delle difficoltà, illustrate da una ricca elaborazione giurisprudenziale anche recente, che ancora accompagnano la concreta determinazione del danno risarcibile[19], la questione di fondo (almeno per ciò che concerne i limitati scopi di questa analisi) si lega alla necessità di individuare correttamente i soggetti legittimati attivi alla proposizione della relativa domanda giudiziale. Legittimati attivi all’azione sono infatti in forza degli artt. 2392 ss. c.c. la società per ciò che attiene alla perdita patrimoniale, i soci per la diminuzione della quota di liquidazione loro spettante, i creditori sociali nel caso in cui la violazione comporti l’insolvenza della società e il socio o l’eventuale terzo comunque danneggiato, in quest’ultimo caso (solo) allorché sia prefigurabile un’incidenza diretta del danno sul patrimonio di tale soggetto[20]. Nell’ipotesi in cui la condotta dell’organo gestorio, che colpevolmente abbia ignorato i segnali premonitori di una crisi poi sfociata in una vera e propria insolvenza, abbia pregiudicato un diritto collettivo, si pone invece il problema di identificare il soggetto concretamente leso, che possa invocare la tutela giurisdizionale. A tale problema si somma altresì quello di individuare in termini rigorosi il nesso causale tra la condotta dell’amministratore negligente e il danno arrecato alla collettività, nonché il metro corretto di valutazione di tale danno. Criticità, queste, che non trovano agevole soluzione nella disciplina, ancorché riformata, delle azioni collettive[21]. La class action mira infatti pur sempre ad una più efficace tutela di diritti individuali, che siano omogenei ad un gruppo coeso di soggetti[22].

Se pertanto la condotta colpevole dell’organo gestorio che conduca l’impresa al dissesto pone certamente il tema della lesione di un diritto collettivo, resta di fondo un problema di effettività della tutela di tale diritto. Nell’attuale “cassetta degli attrezzi” a disposizione del giurista non sembra infatti presente un valido strumento a tutela della continuità aziendale, allorché la stessa non sia intesa esclusivamente come presidio di interessi individuali ma come vero e proprio bene comune. È inevitabile quindi, in tale ottica, ragionare su mezzi diversi – più propriamente dissuasivi – che assolvano ad una maggiore funzione deterrente e consentano di garantire una sanzione efficace in presenza di comportamenti capaci di mettere a rischio non tanto e solo le ragioni di uno o più soggetti determinati ma di un ecosistema più vasto.

 

3. La necessità di una cesura tra proprietà e gestione: tra novità e occasioni mancate.

Le considerazioni appena svolte vanno calate all’interno di un contesto, come quello italiano, che si connota per la massiccia presenza di imprese in cui il fattore “proprietà” si mescola con il fattore “gestione”. Sicché il proprietario del capitale è anche, molto spesso, il soggetto da cui passano le decisioni che interessano i destini dell’impresa. Tale soggetto è poi lo stesso che nomina (e remunera) gli organi di controllo, che si trovano così non di rado a sostenere un fragile compromesso tra un rigoroso esercizio dei doveri di vigilanza ed interessi personali[23]. Questa commistione, che vede molto spesso sovrapporsi il ruolo del socio che conferisce il capitale con quello dell’amministratore che governa l’attività di impresa, costituisce un connotato tipico del modello di società familiare di gran lunga prevalente nel nostro sistema. Una tale interferenza, anche quando non si traduca nell’identità soggettiva socio-gestore, è fonte di gravi criticità allorché l’impresa sia colpita da una situazione di crisi che ne metta a rischio la continuità. In questo caso, ancor più che in una situazione ordinaria, gli amministratori dovrebbero infatti gestire l’impresa avendo come stella polare non tanto l’interesse del proprio azionista, quanto quella dei creditori e, più in generale, della collettività di soggetti interessati ai destini dell’impresa stessa. È chiaro allora che in una fase di crisi il soggetto-impresa deve poter uscire da un rapporto simbiotico con l’imprenditore o con gli amministratori (nel caso di società), per realizzare l’interesse collettivo alla propria conservazione – ove possibile – anche a dispetto delle volontà di questi. In altre parole, l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi deve, o dovrebbe, segnare un momento di discontinuità rispetto alla presenza attiva della proprietà e del management nella conduzione dell’impresa.

Per quanto riguarda la proprietà, e quindi il ruolo dei soci, l’ordinamento concorsuale riformato dal Codice della crisi e dell’insolvenza (di seguito “Codice” o “c.c.i.”) ha cominciato (finalmente) a dare un primo assaggio di un principio di fondo: la società è intangibile sul lato dei soci solo fino a che resta solvibile[24], e quindi solo finché garantisce la continuità aziendale e gli interessi collettivi che con essa si intrecciano. Così, la scelta di azionare uno degli strumenti di regolazione della crisi (così come la concreta determinazione dei contenuti della proposta) è rimessa “in via esclusiva”, a norma dell’art. 120 bis, comma 1°, c.c.i., alla volontà degli amministratori e non dei soci, che sono estromessi da tale processo decisionale e conservano solo (e ovviamente) il diritto di essere informati di tale scelta e periodicamente aggiornati sull’evoluzione della situazione[25]. Nell’ottica del legislatore, in questo modo, i poteri di intervento dei soci sono strettamente correlati alle responsabilità che a tali soci fanno capo, essendo essi due facce della stessa medaglia. In una prospettiva più ampia, del resto, la responsabilità limitata dei soci tipica delle s.r.l. e delle s.p.a. può giustificarsi solo allorché essa rimanga agganciata al rispetto delle regole sul capitale. Così, se i soci hanno una responsabilità limitata al capitale conferito e tale capitale è stato in tutto o in parte eroso dalla crisi (o non è comunque sufficiente a garantire il soddisfacimento dei diritti dei creditori, e ancor meno la realizzazione dell’interesse collettivo alla continuità dell’impresa), è logico che essi siano sostanzialmente “tagliati fuori” dalle scelte sui destini della società, che li vede proprietari solo sul piano formale[26]. Sul punto, è ampiamente nota – e sarà qui solo accennata – l’autorevole opinione di chi ritiene che il criterio agganciato al capitale sociale possa di sovente non essere per sé solo adeguato nella individuazione di una potenziale condizione di crisi, sollecitando sul tema un complessivo ripensamento critico[27]. E ciò in quanto tale condizione, il più delle volte, viene in rilievo (almeno inizialmente) nella sua dimensione finanziaria prima che patrimoniale, come testimoniano le previsioni dettate dal Codice in funzione dell’emersione anticipata della crisi[28]. Allo stesso modo, non sfugge il fatto che la funzione di garanzia del capitale sociale – grazie al principio del “netto” che impone lo scioglimento o la ricapitalizzazione (fatte salve le norme in deroga per le imprese in crisi[29]) allorché tale capitale scenda sotto una soglia minima – non sia certo decisiva nell’ottica dei creditori sociali, proprio perché l’insolvenza prospettica è di regola correlata a deficit di natura economico-finanziaria, prima che a carenze patrimoniali. In questa sede, nondimeno, il tema che viene in rilievo non è tanto quello di individuare, ordinandoli per “gerarchia”, i diversi indici di emersione del momento di inizio della crisi. Dato per assunto che tali indici non si esauriscono evidentemente nella erosione del capitale sociale al di sotto del limite legale, la questione in gioco è se – fermi gli ulteriori e aggiuntivi strumenti impiegati per intercettare la condizione di crisi – la tenuta del capitale sociale possa costituire un fattore minimo di legittimazione dei soci per l’esercizio delle prerogative “proprietarie” sulla società. Altrimenti detto: si tratta di capire se l’eventuale sottocapitalizzazione della società, lungi dal costituire l’unica prova dell’incapacità della società stessa di sostenere con regolarità le proprie obbligazioni programmate (nel senso che tale condizione potrebbe insorgere anche a fronte di una situazione patrimoniale solida, ma in presenza di uno stato strutturale di tensione finanziaria), sia comunque di per sé sufficiente per rivelare una condizione di crisi – magari ancora solo latente – con ogni conseguente effetto. A questo riguardo, mi sembra convincente quanto sostenuto a proposito del fatto che la perdita del capitale opera in concreto “quale sintomo del venir meno della continuità aziendale e della sostenibilità (in chiave dinamica) dell’indebitamento assunto dalla società e, in ultima analisi, dall’avvenuto raggiungimento (per non dire superamento) della soglia della crisi medesima[30]. Se così è, si pone in concreto una questione che riguarda il mantenimento da parte dei soci dei poteri connaturati alla sottoscrizione del capitale, allorché tale capitale sia stato – magari completamente – eroso nel corso della vita della società. A mio avviso, la capacità di incidere sulle scelte di fondo della società non può che trarre legittimazione concreta dalla reale esistenza del capitale di rischio: se invece i soci non sopportano più alcun rischio di perdere il capitale investito, scaricando di fatto il rischio d’impresa sui creditori[31], ogni loro potere di governare la ristrutturazione della società può essere giustamente sacrificato[32].

Nella medesima ottica di una parziale compressione delle prerogative “proprietarie”, Il Codice stabilisce che il piano per la soluzione della crisi possa prevedere “aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni” (art. 120 bis, comma 2, c.c.i.)[33].

I soci subiscono quindi in concreto le conseguenze di decisioni a cui non hanno preso parte, suggellate dall’intervento del Tribunale (mediante il provvedimento di omologazione[34]) in sostituzione dell’assemblea straordinaria. Intervento che si estende anche alla fase attuativa del progetto di ristrutturazione, nella quale il Tribunale demanda ogni necessario atto esecutivo agli amministratori, autorizzando se del caso questi ultimi a provvedere alle ulteriori modificazioni statutarie programmate nel piano (art. 120 quinquies, comma 1°, c.c.i.[35]). In questo modo, si crea un valido argine contro comportamenti opportunistici dei soci, che – spesso non avendo più nulla da perdere – possono essere indotti ad ostacolare le iniziative (anche quelle dirette alla ricerca di nuovi investitori) degli amministratori, adottate in autonomia rispetto al volere degli stessi soci. Gli amministratori potranno (e dovranno) allora ricercare sul mercato nuovo capitale di rischio in funzione del buon esito del risanamento, senza preoccuparsi di avere il consenso degli shareholder.

Se la scelta di politica normativa di rafforzare il grado di indipendenza del management dai soci è certamente apprezzabile, essa tuttavia non risolve il vero problema di fondo: la previsione di tale indipendenza è infatti fondamentalmente inutile laddove, come spesso accade, gli amministratori siano gli stessi soci (o soggetti ad essi contigui). E ciò a meno di non ritenere, con un vero e proprio atto di fede, che questi ultimi – dovendo intervenire con il “cappello” di amministratori per fronteggiare efficacemente la crisi – operino mettendo da parte ogni interesse egoistico. È necessario, allora, ragionare su una necessaria discontinuità che riguardi non soltanto, nelle ipotesi considerate, la proprietà dell’impresa ma che interessi, in via generale, la gestione dell’impresa stessa. È necessario cioè immaginare, in uno scenario di crisi, che l’impresa possa sviluppare efficaci anticorpi nei confronti di un management che non ha funzionato, prevedendo la possibilità (se non la necessità) di sostituire l’organo gestorio, in funzione dell’interesse comune al proprio risanamento.

Il diritto concorsuale riformato dal Codice non contempla tuttavia una disposizione generale idonea a tale scopo. La disciplina in tema di “Esecuzione” degli strumenti di regolazione della crisi (e segnatamente del concordato preventivo) infatti – oltre a prevedere la possibilità che il tribunale assegni al commissario poteri ad hoc in relazione all’attuazione della proposta (allorché l’impresa debitrice non dia corso alla medesima[36]) – stabilisce nell’ipotesi di inerzia degli amministratori due casi eccezionali di revoca di questi e contestuale nomina di un amministratore giudiziario munito dei necessari poteri: una che consegue alla denuncia del terzo che ha presentato la proposta concorrente poi omologata[37]; l’altra che muove dalla richiesta di qualsiasi interessato e che riguarda l’ipotesi in cui il provvedimento di omologazione disponga modificazioni statutarie incidenti sui diritti di partecipazione dei soci, ivi incluse riduzioni o aumenti di capitale (anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione)[38].

Al di là di tali specifiche eventualità – che rappresentano di certo un passo significativo in avanti ma non possono di per sé costituire un cambio generale di paradigma – manca un corpo di norme che inibisca la possibilità di scelte discrezionali (e magari non disinteressate) del management esistente, favorendo invece una maggiore capacità di incidere dei portatori di interesse; che favorisca, quindi, la sola valorizzazione del going concern, consentendo la massima realizzazione del bene della comunità in cui l’impresa si trova ad operare.

Il rischio di condotte opportunistiche, allorché sopraggiunga la crisi, è allora molto elevato. Come è stato efficacemente osservato[39], l’erosione del patrimonio netto pone un problema di azzardo morale, perché favorisce operazioni ad alto rischio (a volte, vere e proprie scommesse) da parte di chi ha ormai poco o nulla da perdere, finendo spesso per incrementare la perdita a carico dei creditori sociali e, più in generale, per aggravare le ripercussioni sulla collettività in cui l’impresa opera. Quand’anche poi gli amministratori, avvedutisi del rischio default, decidano di promuovere una proposta di concordato preventivo da sottoporre ai creditori, resterà elevato il rischio di soluzioni velleitarie pensate nell’ottica di mantenere saldamente in sella chi si sia dimostrato incompetente o, peggio, si sia reso responsabile di condotte illecite.

Con riguardo a tali aspetti le esperienze normative di fonte anglosassone – l’Administration di diritto inglese e il Chapter 11 di diritto statunitense – si dimostrano, a tutti gli effetti, modelli molto più orientati a favorire in presenza di uno stato di crisi gli interessi della collettività rispetto a quelli degli shareholder (o degli amministratori che di essi sono espressione)[40]. Allorché l’impresa sia colpita dalla crisi i sistemi di common law tendono infatti, in linea generale, a concentrare l’attenzione su ciò che è meglio per la comunità economica e sociale in cui l’impresa opera. E ciò, si noti, anche quando l’interesse generale vada in senso opposto rispetto alle velleità di continuità aziendale dell’imprenditore (che non può rappresentare, quindi, un valore fine a sé stesso), richiedendo di contro di eliminare velocemente dal mercato imprese rivelatesi inadeguate. Per realizzare tale obiettivo, come è evidente, le leve decisionali devono necessariamente passare, in tutto o in parte, dalle mani dell’imprenditore a quelle di chi sia incaricato di rappresentare gli interessi collettivi in gioco.

Da questo punto di vista, l’esperienza dell’Administration di diritto inglese – regolata dall’Insolvency Act del 1986, come successivamente emendato (segnatamente dall’Enterprise Act del 2002) – è probabilmente quella che più di altre appare ispirata a ragioni di sistema (a ragioni, cioè, che hanno a che fare con il primario interesse generale) sin dal proprio incipit. L’Administration prende infatti avvio in forza dell’iniziativa che può essere assunta, oltre che dagli amministratori e dai titolari di un qualifyng floating charge[41] (nel qual caso la procedura segue una “out-of-court route”), da qualunque creditore che invochi l’incapacità dell’impresa di far fronte ai propri debiti[42]. Ciò conduce, in tale ultima ipotesi, alla nomina dell’administrator in forza di un provvedimento giudiziale (il court order), prodromico ad un percorso di risanamento che favorisca la continuità aziendale ovvero che assicuri comunque la migliore tutela degli interessi dei creditori[43].

Dal raffronto con il modello recentemente riformato di diritto italiano emerge subito un dato di fondo. Nell’ordinamento domestico gli strumenti di regolazione della crisi alternativi alla liquidazione giudiziale[44] – siano essi strumenti di diritto concorsuale (tra cui spicca il concordato preventivo) o di natura stragiudiziale (come nel caso della composizione negoziata) – sono infatti sempre rimessi all’iniziativa del solo imprenditore[45], laddove al contrario l’administration di diritto inglese è caratterizzata da un ruolo proattivo dei creditori sin dalla fase di avvio della relativa procedura. Come è stato osservato, ciò connota l’administration come strumento di regolazione di interessi collettivi in misura sensibilmente maggiore rispetto al modello di diritto italiano[46]. Se la salvezza dell’azienda e del suo indotto non costituisce – o non costituisce solo – la somma di interessi individuali, non c’è dubbio infatti che la soluzione di diritto inglese sia quella maggiormente orientata alla tutela della continuità aziendale, intesa come bene comune che coinvolge una varietà indistinta di soggetti e di gruppi sociali. Il dato empirico dimostra infatti che la continuità aziendale può essere salvaguardata in modo efficace solo in presenza di presidi efficaci che consentano l’emersione anticipata della crisi. Se così è, anche gli strumenti giuridici di diritto italiano concepiti proprio in funzione dell’emersione anticipata della crisi, come la composizione negoziata, risultano in qualche modo azzoppati per il fatto di essere pur sempre rimessi all’iniziativa dell’imprenditore (e, per le società, all’iniziativa dell’organo gestorio), scontando l’inevitabile “prova di forza” con l’interesse personale di quest’ultimo. Allorché, come accade nell’ordinamento inglese, qualsiasi creditore che dimostri l’incapacità dell’imprenditore di adempiere alle proprie obbligazioni sia legittimato a provocare l’apertura del procedimento, è chiaro che l’imprenditore stesso sarà più facilmente indotto ad adottare misure preventive per scongiurare la crisi. In altre parole, l’ampia legittimazione a propiziare l’administration costituisce un reale strumento di allerta[47], costituendo essa – diversamente da quanto può ravvisarsi nell’ambito degli strumenti di regolazione della crisi di diritto italiano (nei quali l’emersione anticipata della crisi è un principio molto declamato ma non sempre attuato) – uno stimolo più che efficace a muoversi con solerzia[48]. In questo modo, nel diritto inglese si assiste ad una (più che condivisibile) dissociazione, ove necessario, tra imprenditore e azienda (che rappresenta il vero obiettivo della tutela), attraverso la valorizzazione di un percorso nel quale, come è stato autorevolmente sottolineato, “assume rilevanza centrale l’attività imprenditoriale a prescindere dal soggetto che di volta in volta la esercita[49].   

Questa diversa impostazione di fondo trova conferma anche nella fase attuativa dell’administration. Mentre il concordato preventivo, fedele alla sua impostazione debtor-oriented, vede l’organo gestorio dell’impresa rimanere saldamente in sella e governare il processo di regolazione della crisi (quella stessa crisi che, in molti casi, ha concorso a determinare), l’administration si caratterizza per la centralità della figura dell’administrator, soggetto cui vengono conferiti ampi poteri di gestione e di rappresentanza[50]. All’atto della nomina di costui non si assiste alla cessazione automatica dell’organo gestorio della società, ma la posizione di quest’ultimo viene ad essere ampiamente marginalizzata. L’administrator assume così il ruolo di “agent” prima spettante all’organo gestorio ma – e qui si assiste al vero cambio di prospettiva – non certo a servizio dei soci quanto piuttosto della comunità di coloro che sono portatori di interessi specifici e diffusi nei confronti società. Il potenziale conflitto che può generarsi tra administrator e organo gestorio, allorché venga meno lo specifico dovere di cooperare in vista del buon esito della procedura, è sempre risolto a scapito di quest’ultimo, anche attraverso la minaccia della disqualification (di cui si parlerà poco più avanti).

Nel corso dell’administration è prevista una moratoria generalizzata rispetto ad eventuali “insolvency proceedings” ovvero ad ogni “other legal process” (con l’eccezione, in quest’ultimo caso, delle azioni intraprese con l’assenso dell’administrator o il permesso della Corte)[51]; moratoria che negli strumenti di regolazione della crisi di diritto italiano passa necessariamente per la concessione, in forza di una valutazione del tribunale, delle misure protettive sul patrimonio sociale. Anche qui, la compressione dei diritti dei creditori rappresenta il logico contraltare, nell’ordinamento inglese, rispetto alla profonda discontinuità della gestione: spezzandosi il rapporto di agency tra proprietà e gestione, ed essendo l’administrator il rappresentante (e garante) di tutti i portatori di interessi, è normale che l’ordinamento assicuri un periodo di “decantazione” in funzione di uno degli obiettivi cui è preordinata la procedura. Qui non si ravvisa il rischio, che induce invece il giudice italiano ad un rigoroso bilanciamento di interessi nella concessione di misure protettive, che la limitazione dei diritti dei creditori possa costituire un espediente dell’imprenditore (alias, degli amministratori in carica) per realizzare il proprio tornaconto senza reali prospettive di risanamento, posto che l’administrator svolge una sostanziale funzione di garanzia in favore di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nella crisi. E proprio nel quadro di tale posizione di garanzia si delineano gli obiettivi assegnati all’administrator, che deve porsi lo scopo del mantenimento della continuità aziendale (“rescuing the company as a going concern[52]) solo laddove tale soluzione sia ragionevolmente perseguibile; solo laddove, quindi, la continuità appaia la strada più opportuna da percorrere nell’interesse generale, senza che possano prevalere logiche di comodo legate all’interesse contingente dell’imprenditore insolvente. Come è stato efficacemente osservato a proposito del concordato preventivo, il nostro ordinamento ammette invece di sovente la presentazione di vere e proprie “proposte indecenti[53], che dietro il disegno effimero di favorire la continuità aziendale rivelano come unico obiettivo quello di assicurare la sopravvivenza sul mercato di imprese decotte. In questo modo aggravando esponenzialmente il danno per la comunità dei portatori di interessi, invece di contenerlo. Non deve quindi stupire se nell’ordinamento inglese, certamente più votato alla realizzazione dell’interesse generale alla conservazione dell’impresa (più che a garantire l’interesse particolare dell’imprenditore a perpetuare la propria esistenza), si assista ad un sostanziale “passaggio di consegne” delle funzioni gestorie. È proprio per effetto di tale passaggio di consegne che è specifico compito dell’administrator (e non della vecchia gestione) formulare la proposta ai creditori, la quale può avere ad oggetto alternativamente un “voluntary arrangement” ovvero un “compromise or arrangement”, in quest’ultimo caso nel rispetto delle prescrizioni del Companies Act[54]. La centralità del ruolo dell’imprenditore (ovvero, per le società, dell’amministratore in carica), nel sistema italiano, rimane invece sostanzialmente intatta, con alcune eccezioni (più sopra ricordate) stabilite in tema di attuazione delle proposte di concordato concorrenti e in tema di esecuzione di operazioni societarie di carattere straordinario.

La maggiore attitudine del modello inglese rispetto alla realizzazione di interessi collettivi si coglie però anche, e soprattutto, nella disciplina delle forme di deterrenza rispetto a nuovi fenomeni di mala gestio da parte di amministratori che si siano rivelati inadeguati. Come è stato correttamente osservato[55], i rimedi strettamente risarcitori non si dimostrano di regola idonei a scoraggiare comportamenti opportunistici degli amministratori in prossimità della crisi. Il diritto inglese conosce invece, sul piano delle misure di carattere amministrativo, la disciplina della c.d. disqualification, a cui consegue una sanzione interdittiva variamente modulata e di durata sino a 15 anni. È interessante notare come la disqualification rappresenti un pilastro della corporate law inglese non necessariamente innestato in un ambito concorsuale[56], laddove le cause di ineleggibilità di diritto italiano sono per lo più determinate dalla eventuale condanna penale (segnatamente per i reati di bancarotta) in esito al default della società[57]. I caratteri della disqualification, che in questa sede possono essere solo accennati, ruotano intorno ad alcuni capisaldi generali, che rivelano la natura segnatamente pubblica degli interessi tutelati[58]. Il primo di tali caratteri riguarda le ragioni che possono condurre alla ineleggibilità temporanea. Ragioni che si legano non solo ad una serie di ipotesi di illecito (sono le ipotesi di “general misconduct”, variamente declinate in violazioni di diritto penale e/o di diritto societario[59]) ma anche, più in generale, ad una valutazione di inadeguatezza (“unfitness[60]) degli amministratori di società, su richiesta del Segretario di Stato ovvero, in presenza di insolvency proceedings, del curatore. Nello specifico, la Corte potrà valutare, dopo aver svolto ogni necessario accertamento in merito all’esperienza gestoria del soggetto destinatario dell’ordine, l’incapacità di costui a ricoprire la carica di amministratore in funzione della tutela del “public interest”. È inoltre prevista la possibilità per l’amministratore verso cui sia stato promosso un procedimento rivolto al disqualification order di ravvedersi mediante uno specifico impegno (il cd. disqualification undertaking) a non assumere nuove cariche per un determinato periodo; conseguendo in tal modo una mitigazione della durata della sanzione a fronte di una condotta collaborativa e responsabile.

La rilevanza della disqualification nell’ottica della tutela dell’interesse pubblico – dell’interesse, cioè, orientato alla salvaguardia di beni comuni come il mercato, la sicurezza e l’ambiente – si coglie, oltre che nella funzione dissuasiva di tale istituto, nella stessa connotazione della sanzione: più che colpire l’amministratore infedele o inadeguato sotto il profilo economico (con i problemi di effettività a tutti noti), la sanzione mira ad estromettere per un congruo periodo da posizioni apicali di società coloro che con la propria condotta negligente abbiano concorso a determinare la crisi e, in questo modo, abbiano generato un danno alla collettività. La differenza di paradigma rispetto al modello italiano è oltremodo evidente, perché la disqualification mira a prevenire (attraverso la deterrenza) piuttosto che a curare (con condanne risarcitorie spesso ineffettive), ma soprattutto perché essa crea validi anticorpi a favore della collettività verso forme di mala gestio ripetute, evitando il ripetersi di comportamenti in danno dell’interesse comune. In questo modo, il diritto della crisi nell’ordinamento inglese assume una coloritura pubblicistica, essendo orientato dal fondamentale principio a suo tempo enunciato dalla Commissione Cork per il quale l’insolvenza non può essere trattata “as an exclusively private matter between the debtor and his creditors; the community itself has always been recognised as having an important interest in them”. 

 

4. Conclusioni

La stretta relazione tra continuità aziendale ed interessi collettivi e le collegate questioni circa la “natura di problema sociale dell’insolvenza[61] costituiscono oggi temi di preminente importanza nella riflessione giuridica.

Al netto di alcuni (importanti, ma ancora) limitati tratti di disciplina introdotti dal Codice della Crisi, manca nell’ordinamento domestico una direzione di fondo che valorizzi la necessità di tutelare la continuità aziendale non tanto e solo nel solco dei rapporti tra l’impresa debitrice e i propri creditori ma come presidio di un vero e proprio bene comune.

Anche guardando all’esperienza di altri modelli normativi, le soluzioni in questo senso passano dalla necessaria discontinuità che riguardi tanto la “proprietà” quanto la “gestione” dell’impresa. Con riguardo alla prima, andrebbe condotta una seria riflessione sulla legittimità dell’“affidamento fiduciario[62] delle risorse (scarse) di un’impresa al titolare del capitale, allorché la riduzione (e a volte l’azzeramento) di tale capitale accresca il rischio di esternalità negative a danno degli stakeholders. Con riguardo alla seconda, sarebbe utile allo stesso modo immaginare meccanismi che consentano di estromettere dalla conduzione dell’impresa chi, per dolo o per semplice incapacità, si sia rivelato inadeguato al ruolo.

Ciò non significa legittimare una indiscriminata criminalizzazione degli organi gestori di società, la cui sindacabilità delle scelte non può certo essere messa in discussione; significa però responsabilizzare tali organi nell’ottica di tutela del mercato e degli interessi della collettività, creando le basi per un assetto più maturo delle relazioni tra l’impresa e l’ecosistema in cui essa opera. 



[1] Le società benefit hanno trovato riconoscimento nel nostro ordinamento con la l. 28 dicembre 2015, n. 208 (“legge di stabilità” 2016). Con tale dettato normativo, il legislatore ha esplicitato “lo scopo di promuovere la costituzione e favorire la diffusione di società, di seguito denominate «società benefit», che nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse” (art. 1, comma 376). Tale connotazione implica l’adeguamento ad una serie di prescrizioni, e comporta in particolare l’obbligo di redigere annualmente “una relazione concernente il perseguimento del beneficio comune, da allegare al bilancio societario e che include: a) la descrizione degli obiettivi specifici, delle modalità e delle azioni attuati dagli amministratori per il perseguimento delle finalità di beneficio comune e delle eventuali circostanze che lo hanno impedito o rallentato; b) la valutazione dell’impatto generato utilizzando lo standard di valutazione esterno con caratteristiche descritte nell’allegato 4 annesso alla presente legge e che comprende le aree di valutazione identificate nell’allegato 5 annesso alla presente legge; c) una sezione dedicata alla descrizione dei nuovi obiettivi che la società intende perseguire nell’esercizio successivo” (art. 1, comma 382).

[2] “ESG” sta per Environmental, Social e Governance, e compendia una somma di fattori che riguardano l’impatto dell’attività sull’ambiente, l’impattosociale e i criteri di governo societario, quest’ultimi legati segnatamente al tema della trasparenza delle decisioni aziendali, anche con riguardo alla retribuzione degli organi apicali dell’impresa (sul tema v., tra i molti, Montalenti, Impresa, sostenibilità e fattori ESG: profili generali, in Giur. it., 2024, 1190 ss., nonché Fimmanò, Articolo 41 della Costituzione e valori ESG: esiste davvero una responsabilità sociale delle imprese?, in Giur. comm., 2023, I, 777 ss.). Le basi normative di tale paradigma hanno origine nella legislazione unionale, a partire dal Regolamento (UE) 2019/2088 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari, sino alla Direttiva (UE) 2022/2464 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 dicembre 2022 in tema di rendicontazione societaria di sostenibilità (cd. CSRD). Quest’ultima direttiva prescrive ad un crescente numero di società di adottare uno strumento di rendicontazione specifico per le questioni ambientali, sociali e di governance, al fine di migliorare la trasparenza e l’informativa sulla sostenibilità, sottolineando così la rilevanza delle informazioni ESG nella considerazione dell’affidabilità e dei rischi di una determinata azienda. Come è stato osservato (Pacchi, Sostenibilità, fattori ESG e crisi d’impresa, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2023, 19-20), la valorizzazione dei criteri ESG comporta pertanto che le imprese vengano valutate non solo attraverso indicatori patrimoniali, economici e finanziari, dovendo tali indicatori essere integrati dalla misurazione delle performance relativamente all’impatto ambientale e sociale e alla governance che ispira la loro attività. Sulla relazione con i temi della crisi d’impresa v. anche Tarolli-Riondato, Legami tra fattori ESG e crisi d’impresa, in IUS – Crisi d’impresa, 2025. Con riguardo alle questioni appena descritte va segnalato inoltre, da ultimo, lo studio pubblicato dalla Banca d’Italiasu “Profili di sostenibilità e sopravvivenza delle imprese: evidenze delle probabilità di fallimento su diversi orizzonti temporali” del novembre 2024, che analizza la connessione tra le performance ESG dell’impresa e la relativa possibilità di insolvenza (Ferriani-Pericoli, ESG risks and corporate viability: insights from default probability term structure analysis, in Questioni di Economia e Finanza di Banca d’Italia n. 892 di novembre 2024).Per un approfondimento sui fattori ESG nel rapporto tra banca e impresa v. infine Schneider, Prevenzione della crisi d’impresa e rischi ESG: il ruolo della finanza sostenibile, in Riv. dir. banc., 2023, 327 ss.  

[3] Si tratta di un contributo coerente con un assetto più maturo del capitalismo, secondo il modello di “corporate purposedeclinato da Larry Fink nelle lettere annuali ai CEO delle società target degli investimenti di BlackRock, segnatamente del 2018 e del 2021. Lo scopo dell’impresa, in quest’ottica, deve contemplare un impegno tangibile a tutela dell’interesse collettivo, non riducendosi pertanto alla ricerca del profitto, ma comprendendo le diverse utilità a favore, oltre che degli azionisti, anche dei dipendenti, dei clienti e più in generale dell’ecosistema in cui tale impresa opera. Sul crescente ruolo sociale dell’impresa, nel contesto storico attuale, v. le considerazioni di Tombari, Corporate purpose e diritto societario: dalla “supremazia degli interessi dei soci” alla “libertà di scelta dello scopo sociale”?, in Riv. Soc., 2021, 3.

[4] Il tema è stato trattato, sul piano delle tendenze comportamentali, in un celebre e arguto volumetto di Cipolla, Allegro ma non troppo, Bologna, Il Mulino, 1988.

[5] Per un approfondimento sul rapporto tra principio di libertà di iniziativa economica e gestione sostenibile dell’impresa v. Ambrosini, L’impresa nella Costituzione, Bologna, Zanichelli, 2024 e, nel solco di quest’opera, Del Porto, Costituzione e imprese (in bonis e in crisi) a partire dal volume di Stefano Ambrosini. Brevi note a margine dell’art. 41 della Costituzione, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2025. Sul concetto di sostenibilità nella vita dell’impresa, e segnatamente nella sua fase di crisi, v. Maurutto, Una, nessuna ... centomila sostenibilità? Dal window dressing alla sostenibilità relazionale e solidale nella gestione della crisi d’impresa, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2024. Sul tema del rapporto tra sostenibilità e corporate governance v. anche Rimini, Sostenibilità e nuova governance delle imprese azionarie nel diritto interno e comunitario tra realtà, criticità e prospettive, in Giur. comm., 2024, I, 285 ss.

[6] È impossibile in questa sede (ed esorbiterebbe comunque dai confini di questa indagine) dare conto delle tante teorie sul finalismo aziendale che hanno contrassegnato il dibattito tra gli studiosi, principalmente angloamericani. È doveroso però richiamare quanto meno le teorie che hanno visto come “capostipiti” Friedman (The Social Responsibility of Business is to Increase Its Profits, in The New York Times Magazine, 13 settembre 1970) e Freeman (Strategic Management: A Stakeholder Approach, Cambridge University Press, Cambridge, 1984). Secondo la teoria di Friedman (shareholder theory), ogni azione dei directors dovrebbe essere orientata a generare utili per i soci, dai quali tali directors ricevono la loro investitura. Freeman sottolinea invece la necessità di bilanciare la creazione di valore per gli azionisti con la tutela degli interessi di tutti gli stakeholder aziendali.

[7] È questa la premessa su cui si fondano i cardini della legislazione concorsuale di diritto inglese (su cui si tornerà diffusamente in questo contributo). Il Report of the Review Committee on Insolvency Law (meglio noto come “Cork Report”) al riguardo sottolinea che “The chain reaction consequent upon any given failure can potentially be so disastrous to creditors, employees and the community that it must not be overlooked”.

[8] Tale tema evoca principi che qui possono essere solo accennati, tratti dalla teoria delle scelte sociali e dall’economia del benessere, che si rifanno al pensiero di Kenneth Arrow (Social Choice and Individual Values, John Wiley & Sons, 1951). Nell’elaborazione di Arrow, ideatore del teorema dell’impossibilità, il benessere generale diviene perseguibile a fronte di una parziale rinuncia all’utilità individuale, nell’ambito di un processo di decisione collettiva. Per una ricostruzione generale v. Suzumura, Introduction to social choice and welfare, Temi di discussione, n. 442 – marzo 2002, Banca d’Italia.

[9] Il pensiero va, tra i casi più recenti, alla vicenda Stellantis, con una gestione che si è rivelata vantaggiosa principalmente nell’ottica della remunerazione a breve termine degli shareholder (Auto, dalla cura Tavares utili boom ma vendite a picco, in IlSole 24 Ore, venerdì 6 dicembre 2024). 

[10] Ne dà ampiamente conto Di Carlo, Interesse primario dell’azienda come principio-guida e bene comune, 133 ss. Sul tema della Responsabilità Sociale d’Impresa si veda ancora Pacchi, op. cit., 6

[11] Art. 2387 c.c.

[12] V., con riguardo alle società quotate, quanto previsto all’art. 147 ter del T.U. della Finanza nonché, relativamente alle banche, la disciplina dettata per gli “esponenti aziendali” all’art. 26 del T.U. Bancario.

[13] Di Carlo, op. cit., 147.

[14] V. ancora Di Carlo, op. cit., 171.

[15] Sul tema degli assetti organizzativi finalizzati ad una corretta gestione dell’impresa, anche in funzione dell’emersione tempestiva della crisi, si vedano almeno Ambrosini, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure di allerta nel quadro normativo riformato, in IlCaso.it, 2019; Bastia, La continuità aziendale e la dimensione strategica degli assetti, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2024; Calandra Buonaura, Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi nella società per azioni, in Giur. comm., 2020, I, 439 ss.; Cian, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto, in Nuove leggi civ., 2019, 1160 ss.; Montalenti, Il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Giur. comm., 2020, I, 829 ss.; Onza, Gli “adeguati assetti” organizzativi: tra impresa, azienda e società (appunti per uno studio), in Riv. dir. comm., 2022, II, 1 ss.; Peta, Gli adeguati assetti societari nel binomio “crisi – risanamento” d’impresa, responsabilità per gravi irregolarità in situazione di “non crisi”. Spunti operativi per PMI, in Diritto della crisi, 2024; Salvioli, L’adeguatezza degli assetti contabili in relazione alle prescrizioni dell’art. 3, comma 3, c.c.i.i., in IUS – Crisi d’impresa, 2025; Spolidoro, Note critiche sulla “gestione dell’impresa” nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, 253 ss.

[16] Sul controverso rapporto tra doveri organizzativi e business judgement rule v. di recente Benazzo, Assetti organizzativi, diritto dell’impresa e diritto delle società: dal passato a un (possibile) futuro, in Diritto della crisi, 2024, ove ulteriori riferimenti.

[17] V. al riguardo, segnatamente sulle ripercussioni della mancata adozione degli assetti e di un’adeguata pianificazione nell’aggravamento della crisi, Ambrosini, La continuità aziendale (diretta e indiretta) fra diritto contabile e disciplina della crisi d’impresa. Profili ricostruttivi e sottotipi concordatari, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2024, 10 ss.

[18] Palma, Gli adeguati assetti, il rischio d’impresa e l’articolo 41 della Costituzione, in Norme e Tributi Plus, il Sole 24Ore, 13 luglio 2023.

[19] In tema, inter alia, v. di recente Cass. 5 gennaio 2022, n. 198, in Soc., 2022, 541, con nota di Moioli; per la giurisprudenza di merito v. Trib. Torino 29 marzo 2024, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2024. Sui profili specifici che interessano il risarcimento del danno nel contesto liquidatorio v. anche in dottrina Jeantet-Midolo-Pollio-Vallino, Valore di realizzo dei diritti risarcitori nell’alternativo scenario della liquidazione giudiziale: il non semplice confronto tra stima e migliore soddisfazione dei creditori e le evidenze non proprio empiriche, in Diritto della crisi, 2024.

[20] Sugli assetti adeguati dell’impresa e le connesse responsabilità risarcitorie in caso di crisi dell’impresa medesima v. tra gli altri, prima della riforma, Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, in Giur. comm., 2014, I, 304. Più di recente v. Ambrosini, Adeguatezza degli assetti aziendali, doveri degli amministratori e azioni di responsabilità alla luce del codice della crisi, in Callegari-Cerrato-Desana (a cura di), Governance e mercati. Studi in onore di Paolo Montalenti, Torino, 2022, 1703 ss.; Jorio, Note minime su assetti organizzativi, responsabilità e quantificazione del danno risarcibile, in Giur. comm., 2021, I, 812 ss.

[21] Al riguardo, la l. 12 aprile 2019 n. 31, recante disposizioni in materia di azione di classe, ha introdotto il titolo VIII bis (“Dei procedimenti collettivi”) nel libro IV del codice di procedura civile.

[22] Art. 840 bis, comma 1°, c.p.c.

[23] Sul tema Negro, Conversazione estemporanea sulla riforma dell’art. 2407 c.c., in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2025.

[24] V. Stanghellini, Continuità aziendale, garanzie rafforzate, in Norme e Tributi, il Sole 24Ore, 10 gennaio 2024.

[25] Discorre a tale proposito di “dissociazione tra la figura del debitore e di detentore di strumenti finanziari”, in presenza di una condizione di crisi o di insolvenza, il contributo di Cadei, Debitore, soci e creditori nel concordato preventivo in continuità, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2024, 8.

[26] In questi termini, da angolatura diversa (con riguardo al tema della circolazione dell’impresa), Limitone, L’assoluta inderogabilità della competizione nel concordato preventivo quale regola di ordine pubblico economico, in IlCaso.it, 2020, secondo il quale “Se il patrimonio è perduto, le quote sociali non valgono più nulla, sicché i soci poco hanno da governare ancora, e quindi perdono la possibilità di prendere decisioni vincolanti per i creditori”.

[27] In tema v. tra gli altri D’Alessandro, “L’inutil precauzione?” (ovvero: dell’insolvenza come esternalità e della funzione profilattica del capitale, in Di Cataldo-Meli-Pennisi (a cura di), Impresa e mercato. Studi dedicati a Mario Libertini, III, Milano, Giuffrè, 2015, 1334-1335, ove ulteriori riferimenti; nonché Miola, La tutela dei creditori ed il capitale sociale: realtà e prospettive, in Riv. soc., 2012, 237 ss. Si veda inoltre Portale, La parabola del capitale sociale nella s.r.l. (dall’“importancia cuasi-sacramental” al ruolo di “ferro vecchio”?), in Riv. soc., 2015, 815.  Più di recente v. Bottai, La nozione civilistica di insolvenza differisce da quella concorsuale? La rilevanza attuale del capitale sociale, nota a Cass. 16 giugno 2023, n. 17362, in Fall., 1, 2024, 85-86.

[28] Art. 3, comma 3, c.c.i.

[29] Cfr. art. 89 c.c.i.

[30] Benazzo, Crisi d’impresa, soluzioni concordate e capitale sociale, in Riv. soc., 2016, 261.

[31] Cfr. Strampelli, Capitale sociale e struttura finanziaria nella società in crisi, in Riv. soc., 2012, 660.

[32] Ciò dovrebbe valere pure per la s.r.l. semplificata e a capitale ridotto ancorché per tali sottotipi si obietti da più fronti che il capitale sociale non avrebbe alcuna funzione garantista nei confronti dei terzi creditori, bensì solo una funzione di tipo organizzativo-contabile; cosicché, segnatamente, per esse non troverebbero applicazione le norme in materia di riduzione del capitale per perdite proprie della s.r.l. ordinaria, ai sensi degli artt. 2482 bis e 2482 ter c.c. In contrario, si è osservato (condivisibilmente, ad avviso di chi scrive), che “in assenza di un’esplicita norma di esonero delle s.r.l.s. e delle s.r.l.c.r. dall’applicazione della disciplina della riduzione per perdite, non sembra si possa ritenere che la funzione del capitale in queste s.r.l. a capitalizzazione ridotta possa essere degradata a quella di mera quantificazione dei conferimenti iniziali, in quanto tale conclusione è incompatibile con la responsabilità limitata dei soci”. Pertanto, “[…] non pare ammissibile il permanere di detta responsabilità limitata in una situazione di deficit del capitale sociale causata dalle perdite subite, e ciò anche se la linea di galleggiamento sia posizionata, nel caso delle s.r.l.s. e delle s.r.l.c.r., ad un livello inferiore rispetto a quella delle s.r.l.o. Cosicché, se, nella s.r.l.o., il concetto di perdita rilevante (a seconda dei casi, oltre il terzo o sotto il minimo) matura partendo dal presupposto che la s.r.l. in questione abbia il proprio capitale sociale stabilito in un dato valore nominale e che il minimo di legge sia fissato in 10mila euro, nel caso della s.r.l.s. e della s.r.l.c.r. si dovrà semplicemente partire dal presupposto che si tratta di società con capitale compreso tra 1 e 9.999,99 euro e che il minimo di legge è, appunto, stabilito in un solo euro” (così Busani-Busi, La s.r.l. semplificata (s.r.l.s.) e a capitale ridotto (s.r.l.c.r.), in Soc., 2012, 1318 ss.).

[33] Allo stesso modo, onde evitare azioni ritorsive nei confronti di amministratori poco graditi ai soci, è previsto che la revoca dei primi è inefficace se non ricorre una giusta causa, che non può essere rappresentata dalla presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi ove ne ricorrano le condizioni (art. 120 bis, comma 4, c.c.i.).

[34] In generale, sul tema relativo al ruolo del Tribunale nell’ambito delle diverse fasi degli strumenti di regolazione della crisi (con riferimento particolare al concordato preventivo) v. Ambrosini, Il controllo giudiziale nella fase di apertura del concordato preventivo riformato con un cenno “al prima e al dopo”, in Procedure concorsuali e crisi d’impresa, 2025, 153 ss.; Censoni, Note minime sul controllo giudiziale nel concordato preventivo, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2024.

[35] V. in proposito Trib. Milano 30 maggio 2024 e Trib. Monza 23 dicembre 2024, entrambe edite su IlCaso.it.

[36] Art. 118, comma 4, c.c.i.

[37] Art. 118, comma 5, c.c.i.

[38] Art. 120 quinquies, comma 1°, c.c.i.

[39] Amatucci, Concordato preventivo e (dis)continuità del management tra Chapter 11, administration e disqualification, in Giur. comm., 2019, I, 839-840.

[40] Con riguardo all’ordinamento inglese, secondo la Commissione Cork, cui si deve il disegno complessivo dell’Insolvency Act del 1986, scopo fondamentale doveva essere quello di promuovere thehighest standards of business probity and competence”, nell’ottica del perseguimento dell’interesse collettivo. Ad avviso di Goode, Principles of Corporate Insolvency Law, London, Sweet & Maswell, 2011, 68, “corporate insolvency has a negative impact on customers and suppliers; by causing job losses, it tears the heart out of the employees and the local community; in cases involving large-scale companies, even the national economy may be threatened”.

[41]I titolari di qualifyng floating charges sono costituiti segnatamente da banche ed hanno, oltre ad un autonomo potere di impulso dell’administration, la possibilità di influenzare la procedura promossa da uno o più creditori sociali ovvero dalla società stessa.

[42] Sch. B1, paras 11-12, Insolvency Act 1986.

[43] L’administration si propone, in quest’ordine di priorità, uno dei seguenti obiettivi: “(a) rescuing the company as a going concern, or (b) achieving a better result for the company’s creditors as a whole than would be likely if the company were wound up (without first being in administration), or (c) realising property in order to make a distribution to one or more secured or preferential creditors(Sch. B1, para 3, Insolvency Act 1986).

[44] Per un quadro organico cfr. Jorio, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2025, 118. Sulla composizione negoziata si vedano almeno, tra i molti contributi, Costi-Castagnola-Sacchi-Jorio-Scognamiglio, La composizione negoziata della crisi, in Giur. comm., 2023, I, 349 ss.; Ambrosini, Ancora sulle “condizioni” dell’impresa – dalla precrisi all’insolvenza sanabile – e sulla sua gestione nella composizione negoziata (con una chiosa in merito al recente lapsus del legislatore), in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2025; Limitone, Degiurisdizionalizzazione della crisi d’impresa e composizione negoziata: una figlia naturale non (ancora) riconosciuta. Con notazioni a margine, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2022; da ultimo, Fabiani, Composizione negoziata della crisi: una “storia” di successo?, in Diritto della crisi, 2025. 

[45] Per la verità, l’art. 6, comma 1°, lett. b) della legge delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza aveva previsto la possibilità di attribuire la legittimazione anche a terzi per proporre il concordato “nei confronti del debitore che versi in stato di insolvenza”. Come noto, tuttavia, tale previsione non ha trovato attuazione nel successivo Codice. In argomento Ambrosini, L’emersione tempestiva della crisi e il concordato preventivo del terzo: dall’idea del “Progetto Rordorf” alle previsioni del legislatore europeo, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2021, 14 ss.

[46] V. sul tema Ferri Jr., Soluzioni concordate della crisi di impresa e autonomia privata, in Ricerche giuridiche, 2015, 307. Cfr. anche Altieri, Concordato preventivo e administration tra eteronomia e contrattualismo “asimmetrico” nella gestione dell’impresa in crisi, in Dir. fall., 2021, 127.

[47] In questi termini anche Amatucci, op. cit., 835.

[48] Sulla condotta “spesso riluttante” degli amministratori nel riconoscere con solerzia lo stato di difficoltà economica della società v. Pellegrinelli, Procedimento e controllo giurisdizionale nella soluzione negoziale della crisi d’impresa, Milano, Giuffrè, 2011,87.

[49] Ambrosini, il controllo giudiziale su domanda e piano concordatari e i compiti dell’attestatore, in Giur. comm., 2017, I, 394.

[50] Sch. B1, paras 59-75, Insolvency Act 1986.

[51] Sch. B1, paras 42-43, Insolvency Act 1986.

[52] Sch. B1, para 3, Insolvency Act 1986.

[53] Rossi, Le proposte “indecenti” nel concordato preventivo, in Giur. Comm., 2015, I, 331. 

[54] Sch. B1, para 49, Insolvency Act 1986.

[55] Brizzi, Procedure di allerta e doveri degli organi di gestione e controllo: tra nuovo diritto della crisi e diritto societario, in ODC, 2019, 381.

[56] Baister, An introduction to the insolvency law of England & Wales, in Cagnasso e Panzani (diretto da), Crisi di impresa e procedure concorsuali, Torino, 2025, Tomo 1, 176.

[57] Diversa è l’ipotesi delle cause di ineleggibilità che colpiscono il “fallito”, inibendogli la nomina ad amministratore (art. 2382 c.c.).

[58] Sul tema si rinvia, tra gli altri, a Benocci, Controllo giudiziario sulla gestione e forme collettive di esercizio dell’impresa, Milano, Giuffrè, 2019, 81 ss.

[59] Sch. 2-5A, Company Directors Disqualification Act 1986.

[60] Sch. 6, Company Directors Disqualification Act 1986.

[61] Pacchi, op.cit., 19-20.

[62] Ginevra, Il senso del mantenimento delle regole sul capitale sociale (con cenni alla s.r.l. senza capitale), in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, 173.