, 17 settembre 2024, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario 1.- Premessa: l’inquadramento della fusione delle società nello schema della successione per causa di morte. Come si confonde nella nostra giurisprudenza la vivacità festosa di un ‘matrimonio’ con l’atmosfera lugubre di un ‘funerale’. 2.- La regola di diritto giurisprudenziale dell’autonoma fallibilità della società incorporata entro un anno dalla cancellazione del registro delle imprese: un nonsense upon stilts. Accade che, confondendo il ‘matrimonio’ tra la società incorporata e la società incorporante con il ‘funerale’ dell’incorporata, si presuppone, senza dichiararlo, un diritto dei creditori sociali alla separazione del patrimonio della società ‘defunta’ da quello della società ’erede’ e s’immagina, senza dimostrarla, la vigenza di una norma sulla cancellazione dal registro delle imprese della società ‘defunta’ la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dalla legge.3.- Dal Code de commerce di Napoleone al Codice di commercio italiano del 1882: il fallimento del «commerciante che siasi ritirato dal commercio» e il diritto che «venga un momento in cui egli acquisti la certezza di non esser più disturbato». 4.- Interferenze tra diritto dell’impresa e diritto delle società: il problema dell’applicazione dell’art. 690 cod. comm. (del principio di certezza della condizione giuridica del commerciante che si è ritirato dagli affari) alle società commerciali nelle opinioni di Bonelli, Sraffa, Candian e Carnelutti. 5.- L’avvento della legge fallimentare e il successo nella giurisprudenza della teoria della completezza della liquidazione in senso sostanziale di Angelo Sraffa: la (dis)applicazione dell’art. 10 l. fall. nei confronti delle imprese organizzate in forma societaria. 6.- L’avversione della dottrina commercialistica nei riguardi della teoria della liquidazione in senso sostanziale e l’estensione del principio di certezza della condizione giuridica dell’imprenditore individuale (e dei soci illimitatamente responsabili) a favore (degli amministratori, dei managers e dei soci) delle società a rischio limitato: cessazione dell’attività d’impresa organizzata in forma societaria e cancellazione dal registro delle imprese. 7.- Varietà e variabilità degli effetti estintivi associati al sintagma «estinzione della società»: l’«estinzione della società in liquidazione» e la fine per esaurimento dell’operazione societaria secondo il diritto nazionale (artt. 2312 e 2495 cod. civ.). 8.- Il divario incolmabile tra la fine dell’operazione societaria governata dal diritto interno e l’«estinzione (cessazione) delle società» partecipanti al merger nel diritto societario europeo: la fusione come «scioglimento senza liquidazione» nella disciplina di armonizzazione e la tradizione giuridica continentale nella dottrina di Umberto Navarrini, Enrico Soprano e Giuseppe Ferri. 9.- Conclusioni: la tesi dell’autonoma fallibilità della società incorporata conduce all’apertura di una liquidazione concorsuale senza accertamento dell’insolvenza attuale del debitore in contrasto con il diritto nazionale della crisi e dell’insolvenza. La tesi criticata comporta altresì una violazione manifesta del diritto societario europeo risolvendosi nell’arbitrario disconoscimento degli effetti giuridici prodotti da un merger che si è validamente perfezionato con l’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese. Inadeguatezza e naїveté dell’inquadramento della fusione nello schema della successione a causa di morte.
1.- Accade talora – avvertiva Francesco Ferrara sr. nel suo glorioso Trattato di diritto civile italiano – che «un caso giuridico dimostra sperimentalmente che una teoria è errata o unilaterale, e quindi sgretola al contatto de’ fatti l’edificio faticosamente elevato dai teorici per via d’astrazioni»[1]. Succede d’altra parte assai spesso – ha notato da par suo Floriano d’Alessandro – che le difficoltà che s’incontrano nel risolvere un problema giuridico e il fatto che per risolverlo siano avanzate le soluzioni più diverse e inconciliabili dipendono dall’imperfetta o ambigua formulazione del problema che s’intende esaminare; dalla circostanza, cioè, che l’apparente identità della sua espressione linguistica «sia solo non più di un’illusione, in quanto appunto quell’unica espressione linguistica sia stata in effetti interpretata da ciascuno in modo diverso»[2]. Può darsi inoltre che qualche volta tali evenienze convergano combinandosi tra loro. Potrà aversi allora che un caso giuridico dimostri sperimentalmente che una teoria – o una sua particolare applicazione – è errata o unilaterale perché ad esser viziata dall’origine è la stessa definizione del problema che con quella teoria si vuole spiegare: è questo, come apparirà più chiaro al termine dell’indagine, il difetto vistoso che affligge quell’orientamento della Corte di Cassazione il quale, muovendo aprioristicamente da certe premesse teoriche riguardanti la “natura” della fusione delle società(i.e. il suo aspetto estintivo), riconosce la possibilità di dichiarare il fallimento (liquidazione giudiziale) di una società che sia stata incorporata in un’altra, malgrado la positiva conclusione del procedimento di incorporazione; là dove un esame un poco più accurato del procedimento di fusione e degli effetti giuridici che all’atto di fusione si ricollegano consentirà di dimostrare che l’opinione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, oltre a porsi in contrasto con il diritto interno dell’insolvenza e violare apertamente il diritto societario europeo, è viziata da un fraintendimento di fondo che risente delle primitive concezioni dottrinali[3] che nella seconda metà del XIX secolo[4] risolvevano la fusione delle società, intesa come causa di estinzione della persona giuridica, in una vicenda analoga alla successione per causa di morte[5].
Dalle vecchie costruzioni dottrinali elaborate nel vigore delle legislazioni che, in modo più o meno incerto e lacunoso, avevano per prime regolato in Europa le operazioni di merger e che concepivano «la sostanza della fusione come la successione di una persona giuridica nel patrimonio di una persona giuridica estinta», identificando nell’estinzione della società «il presupposto logico e necessario della successione nel patrimonio, così come la morte della persona fisica costituisce il presupposto logico e necessario della successione ereditaria»[6], nasce, infatti, la grave confusione ancor’oggi assai diffusa nella nostra giurisprudenza tra gli effetti estintivi prodotti inter alia (ex art. 1321 cod. civ.) dal contratto di fusione, con cui si realizza l’integrazione degli elementi personali e patrimoniali di una pluralità di organismi societari, e che risultano pertanto indispensabili ad attuare, con forza vincolante tra le parti, le decisioni di accorpamento delle strutture organizzative delle società partecipanti (i.e. l’accorpamento degli organi, delle competenze e dei relativi processi deliberativi, amministrativi, dichiarativi, di controllo, ecc.) e a rendere operativa, anche nei riguardi dei terzi, la rinuncia delle singole società coinvolte nell’aggregazione all’autonoma capacità giuridica di cui esse godevano prima della fusione, da un lato; e il fenomeno tutt’affatto diverso della ‘morte’ della società ovvero, fuori dal linguaggio figurato, della «estinzione della società in liquidazione» regolata negli artt. 2132 e 2495 cod. civ., dall’altro[7]. Vicenda, quest’ultima, che a differenza della fusione, governata dal diritto societario europeo, segna per il diritto nazionale la fine sotto ogni aspetto dell’operazione societaria per l’integrale l’esaurimento dei suoi effetti, determinando il venir meno del rapporto tra i soci, la distruzione del vincolo di destinazione del patrimonio sociale e la perdita del diritto di preferenza dei creditori sociali sui beni della società, la cessazione dell’attività economica comune, la fine della condizione di alterità tra il gruppo organizzato e le persone dei soci uti singuli, l’estinzione dei meccanismi di produzione e imputazione dell’azione di gruppo, etc..
Senonché la confusione continuamente operata dalla Corte di Cassazione tra la vivacità festosa di un ‘matrimonio’ (la fusione delle società) e l’atmosfera lugubre di un ‘funerale’ (l’estinzione dell’organismo societario al termine della liquidazione)[8], frutto di una fedeltà inconsapevole alle più ingenue visioni antropomorfiche dell’istituto elaborate nel XIX secolo, pregiudica alla base, come si vedrà, l’intera impostazione del problema riguardante la “natura” della fusione – vale a dire il problema dell’esatta individuazione degli effetti estintivi del merger e del rapporto con gli altri effetti giuridici prodotti dall’operazione di integrazione societaria – e perciò stesso anche le premesse teoriche su cui si fonda la tesi della cosiddetta fallibilità della società incorporata.
2.- E così a più di ottant’anni dall’abrogazione del codice di commercio il quale proclamava, nella Sezione V, del Titolo IX del Libro I, lo «scioglimento» delle società commerciali «per la fusione con altre società» (art. 189 n. 7 cod. comm. e anche gli artt. 194 e 196 là dove si discorreva di società che «per effetto della fusione cessano di esistere» e di «società estinte»), e a distanza di quasi un secolo dall’autorevole insegnamento di Cesare Vivante che sotto l’impero di quel codice poteva affermare perentoriamente che vi «è fusione quando una società si scioglie scomparendo in un’altra: senza scioglimento non vi è fusione»[9], capita ancor’oggi di leggere per la soluzione delle questioni più varie che la nostra giurisprudenza talora aderisca alla veneranda dottrina del diritto commerciale[10] secondo cui la fusione «estingue la società incorporata» (Cass., sez. un., 30 luglio 2021, n. 21970), talora accolga l’altra, più recente dottrina, che, a partire dagli anni ‘60 del novecento, aggiornando alla luce della nuova regolamentazione dell’istituto contenuta nel codice civile le fondamentali sistemazioni compiute sotto il codice di commercio da Umberto Navarrini, Enrico Soprano e Giuseppe Ferri[11], inquadra il fenomeno come «una vicenda meramente evolutiva-modificativa» delle società coinvolte nell’operazione di merger (Cass. sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637).
Dell’annosa disputa, nata sotto l’impero del codice di commercio e proseguita con l’avvento del codice civile, attorno alla “natura giuridica” della fusione[12], se questa, cioè, vada costruita come una modificazione degli atti costitutivi delle società che si fondono[13] oppure si configuri alla stregua di una vicenda estintivo-successoria delle società partecipanti[14], come sembrava ancora emergere dall’art. 2502, comma 4, del codice civile del 1942 e dall’art. 2504-bis, comma 1, introdotto dall'art. 13 d.lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, prima della sua riformulazione ad opera del d.lgs. n. 6 del 2003 – il quale ha eliminato ogni riferimento testuale alle «società estinte» –, non sarebbe forse il caso di occuparsi se si condivide l’ammonimento a non sopravvalutare l’importanza delle classificazioni dogmatiche[15] e si sia sufficientemente avvertiti che, in tema di fusioni, l’alternativa tra contrapposte opzioni ricostruttive, malgrado decenni di discussioni, non si è mai rivelata particolarmente produttiva, «nel senso che la soluzione di determinate questioni può risultare in concreto indipendente o non essere necessariamente condizionata dalla scelta “di vertice” fra teoria estintivo-costitutiva e teoria modificativa»[16].
Di quella disputa, si diceva, non sarebbe dunque necessario darsi pensiero se non fosse che muovendo dalla premessa teorica secondo cui la fusione per incorporazione provoca l’estinzione della società incorporata, abbracciata recentemente dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per ricavarne la condivisibile regula iuris che l’incorporata «non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore», perde, cioè, la capacità di convenire o essere convenuta in giudizio così come la capacità di impugnare o essere destinataria di impugnazioni (Cass., sez. un., 30 luglio 2021, cit.), la stessa Corte ha poi tratto l’ulteriore illazione, manifestamente arbitraria, che «la società incorporata, qualora insolvente, è assoggettabile a fallimento, ai sensi dell’art. 10 l. fall., entro un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese» (Cass., sez. I civ., 23 maggio 2024 n. 14414 e Cass. sez. I civ., 3 luglio 2024, n. 18261, Cass. sez. I civ., 2 marzo 2023 n. 6324, nonché la stessa Cass., sez. un., 30 luglio 2021, cit., e più indietro nel tempo in riferimento alla precedente formulazione dell’art. 10 l. fall. già Cass., sez. I civ., 1 febbraio 2007, n. 2210 e Cass., sez. I civ., 19 giugno 1996 n. 5679).
E se non fosse che l’utilizzo poco meditato da parte della nostra giurisprudenza di legittimità di argomenti ricavati deduttivamente da questa o quell’altra ricostruzione dottrinale dell’istituto – ricostruzioni a loro volta per lo più inadatte, per la prospettiva unilaterale con la quale sono adottate dalla stessa giurisprudenza, a tradurre in termini giuridicamente appropriati la complessità del fenomeno che vorrebbero inquadrare –, non presenta soltanto l’inconveniente, tutto sommato trascurabile, di favorire applicazioni della legge formalistiche o piuttosto stravaganti come quella che, muovendo dall’accostamento della fusione di società alla morte della persona fisica, talvolta giustifica l’interruzione del processo di cui sia parte l’incorporata; o come quell’altra che, al contrario, ponendo l’accento sugli effetti meramente modificativi della fusione, afferma la perdurante capacità delle società fuse di prender parte ai processi[17]; ma produce anche il serio pericolo di decisioni inefficienti e, in ultima analisi, dannose qual è appunto quella che, incurante di qualsiasi principio di razionalità economica, predica l’assoggettabilità al fallimento (liquidazione giudiziale) della società incorporata indipendentemente dal dissesto (e dalla dichiarazione di fallimento) dell’incorporante. Soluzione, quest’ultima, chiaramente assurda e contraria al sistema della legge poiché mette capo ad una pronuncia di liquidazione giudiziale senza il rigoroso accertamento dell’insolvenza attuale del «debitore», cioè dei gruppi sociali integrati nella struttura organizzativa unitaria dell’incorporante (ex art. 2504-bis, comma 1, cod. civ.), da svolgersi tenendo conto della situazione economica, patrimoniale e finanziaria risultante dalla combinazione dei patrimoni delle società che partecipano all’operazione; e che, come si vedrà meglio in seguito, si pone anche in contrasto con i vincoli che derivano dal diritto societario europeo (art. 2507 cod. civ.) giacché, secondo la disciplina armonizzata dell’istituto, per effetto della fusione, da un canto, si produce «il trasferimento [rilevante] tanto tra la società incorporata e la società incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell’intero patrimonio attivo e passivo della società incorporata alla società incorporante» nonché la partecipazione dei soci dell’incorporata al capitale dell’incorporante; per altro verso, come indispensabile corollario del passaggio dell’intero patrimonio dell’incorporata all’incorporante e dell’unificazione delle collettività sociali, accade che la «società incorporata si estingue» nel senso che sarà precisato più avanti (art. 105, par. 1, lett. a) e c), della direttiva UE 2017/1132 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2017).
Si tratta per di più – e qui sta il punto – di una soluzione che, senza procurare alcun apprezzabile beneficio ai creditori delle società coinvolte nella fusione, di fatto, con la minaccia degli effetti disgregativi che la liquidazione forzata è in grado di provocare ex post sul patrimonio dell’incorporante, ostacola senza ragione l’impiego di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento delle crisi e il recupero della continuità aziendale (ex art. 2086 cod. civ.), rendendo più costose le soluzioni stragiudiziali di risanamento delle imprese.
Vero è che quell’opinione giurisprudenziale, fondata sull’idea che l’art. 10 l. fall. «attraverso una fictio iuris (e in perfetta equiparazione al debitore persona fisica), sancisce la fallibilità anche degli imprenditori collettivi, e segnatamente delle società – quand’anche “estinte” a seguito di incorporazione, fusione o scissione totalitaria – entro il termine di un anno dalla loro cancellazione dal registro delle imprese» (così Cass., sez. I civ., 23 maggio 2024 n. 14414 cit. sulle orme di Cass., sez. un., 30 luglio 2021, n. 21970), appare già a prima vista, per usare una celebre formula di Jeremy Bentham, null’altro che un nonsense upon stilts[18], al pari di quella con cui si pretendesse di proclamare l’immortalità dell’incorporata nonostante la fusione in un’altra società – e così la sua esposizione sine die al rischio della liquidazione giudiziale – con l’argomento che la fusione opera esclusivamente una modificazione dell’organismo societario senza toccarne l’esistenza nel traffico giuridico o per il motivo che le società che si fondono sopravvivono al merger conservando ad aeternum la loro individualità giuridica[19].
Che quell’orientamento della giurisprudenza abbia tutta la consistenza di un nonsense lo dimostra, infatti, sin dall’inizio, lo scopo di tutela che la Corte di Cassazione dichiara di voler assegnare all’art. 10 l. fall.: si è detto a tale proposito, riprendendo le conclusioni formulate dall’ufficio della Procura generale, che «la presenza di un soggetto che, a seguito di successione o trasformazione, possa rispondere dei debiti non implica in sé il soddisfacimento dei creditori, [i quali] non possono perdere, per un’iniziativa del debitore, l’ampia tutela che è assicurata dal concorso fallimentare, nella convinzione che, diversamente ragionando, si giungerebbe “al riconoscimento alla società di un efficace strumento -la fusione- per sottrarsi, in caso di dissesto, al fallimento ed alle sue regole”». E si è aggiunto che l’art. 10 l. fall. mira perciò, tra l’altro, «a tutelare il ceto creditorio da eventuali comportamenti potenzialmente in grado di diminuire o affievolire la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2740 c.c.», osservando che «la fusione per incorporazione, pur dando continuità ai rapporti giuridici in essere, arreca un potenziale pregiudizio al ceto creditorio della società fusa, che si trova a concorrere sul patrimonio di quest’ultima unitamente ai creditori dell’incorporante» (così sempre Cass., sez. I civ., 23 maggio 2024 n. 14414 cit. e già Cass., sez. I civ., 19 giugno 1996 n. 5679).
Si è però da più parti osservato che l’impostazione così adottata dalla Corte solleva notevoli perplessità. E’ apparsa, infatti, anzitutto ingiustificata l’opinione, implicita in quell’orientamento, che con la sentenza che dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale possano conseguirsi effetti demolitori o revocatori di una fusione che ha già interamente prodotto, tra le parti e nei riguardi dei terzi, le conseguenze previste dalla legge[20]. Si è notato inoltre che l’apertura della liquidazione giudiziale della società incorporata dovrebbe determinare la ricostituzione della sua massa attiva e passiva in contrasto con il principio, sancito dall’art. 2504-quater cod. civ., secondo cui gli effetti della fusione diventano irretrattabili una volta che si siano regolarmente prodotti a far data dall’ultima iscrizione dell’atto conclusivo del procedimento; principio da cui dovrebbe derivare il corollario della irrevocabilità del trasferimento dell’universum jus a favore della società incorporante[21]. Si può aggiungere poi che risulta sfornita di basi positive nel sistema del diritto societario come nel diritto dell’insolvenza l’idea che possa riconoscersi in favore dei creditori della società incorporata un diritto alla separazione del patrimonio dell’incorporata dal patrimonio dell’incorporante, da esercitarsi dopo l’attuazione del merger, analogo al diritto di separazione accordato ai creditori del defunto (ex art. 512 cod. civ.); e, infatti, a differenza di quanto accade per i creditori del defunto e proprio per tutelare i creditori delle società partecipanti alla fusione – si badi tutti i creditori sociali e non solo quelli dell’incorporata – dal pericolo specifico che può derivare dalla confusione dei patrimoni[22] delle singole entità societarie coinvolte nell’operazione, la legge predispone l’apposito rimedio ex ante dell’opposizione (art. 2503 cod. civ.)[23],con cui si realizza una «una partecipazione, particolarmente conformata, dei creditori sociali al procedimento di fusione»[24]. L’attribuzione in favore dei creditori sociali di un rimedio preventivo, da esercitarsi entro un termine perentorio, diretto specificamente a scongiurare la confusione dei patrimoni delle società partecipanti al merger impedisce, infatti, di ipotizzare l’esistenza di un rimedio ulteriore suscettibile di essere invocato in via successiva, dopo la scadenza di quel termine, e rivolto al medesimo scopo. Tanto lo spirare del termine previsto per l’esercizio del diritto di opposizione quanto la decisione del tribunale che riconosca infondato il pericolo di pregiudizio temuto dai creditori, d’altro canto, comportano che la fusione «può essere attuata» dalle società partecipanti (artt. 2503 e 2445, ult. comma, cod. civ.), ponendo in essere gli effetti giuridici caratteristici dell’operazione, compresa la successione dell’incorporante nei debiti dell’incorporata (art. 2504-bis cod. civ.), con forza vincolante nei confronti dei terzi (art. 105, par. 1, lett. a), dir. 2017/1132). Attuata la fusione con la pubblicità del relativo atto nel registro delle imprese, ogni pretesa dei creditori deve pertanto essere necessariamente fatta valere nei confronti della società incorporante e divengono inammissibili le azioni di qualunque natura rivolte nei confronti dell’incorporata senza la previa rimozione degli effetti giuridici dell’operazione.
Si è inoltre da tempo spiegato che il convincimento secondo cui, sbarrando la strada al fallimento dell’incorporata, si consegnerebbe ai privati «un efficace strumento […] per sottrarsi, in caso di dissesto, al fallimento ed alle sue regole», è sicuramente errato e comporta, nonostante le apparenze, un’indebita compressione della tutela dei creditori sociali: infatti, là dove l’insolvenza dell’incorporata finisca per propagarsi alla società incorporante (cioè ai gruppi sociali unificati con la fusione), quest’ultima sarà assoggettata al fallimento e alle sue regole, comprese i) le disposizioni penali, applicabili senz’altro, oltre il termine di un anno dall’iscrizione dell’atto di fusione, anche nei confronti degli amministratori e dei sindaci dell’incorporata che siano cessati in conseguenza della fusione per i fatti di bancarotta commessi nella gestione del patrimonio dell’incorporata (Cass. sez. V pen., 13 novembre 2018, n.1984); e comprese altresì ii) le norme sull’esercizio delle azioni risarcitorie, esperibili senz’altro anch’esse, oltre il termine di un anno, nei confronti degli organi cessati delle società coinvolte nel merger, nonché quelle riguardanti iii) le azioni revocatorie e recuperatorie che si trovavano nel patrimonio dell’incorporata al momento della fusione, poi confluite nel patrimonio dell’incorporante per effetto dell’operazione di aggregazione; mentre, nell’evenienza in cui l’incorporante non sia insolvente, non è ravvisabile alcuna ragione di tutela supplementare dei creditori dell’incorporata le cui pretese troveranno garanzia nel patrimonio della incorporante al pari delle pretese dei creditori originari di quest’ultima[25].
Al di là di queste ovvie e quasi banali considerazioni, deve osservarsi, peraltro, che laddove la protezione dei creditori dell’incorporata dal concorso con i creditori dell’incorporante rientrasse davvero tra le finalità della disposizione contenuta nell’art. 10 l. fall. (ovvero in quella dell’art. 11 l. fall. e ora degli artt. 33 e 34 CCII), si dovrebbe parimenti ammettere a termini invertiti – per non incorrere in un’ingiustificabile disparità di trattamento tra creditori dell’una e dell’altra società – la possibilità di dichiarare il fallimento separato dell’incorporante, indipendentemente dalla situazione economica, patrimoniale e finanziaria risultante dalla fusione, allo scopo di tutelare i creditori dell’incorporante dal potenziale pregiudizio determinato dal concorso dei creditori dell’incorporata. Senonché tale possibilità si trova sicuramente fuori dal perimetro dell’art. 10 l. fall. (come dell’art. 11 l. fall., ora artt. 33 e 34 CCII), atteso che la società incorporante per definizione non s’estingue. I suoi creditori dovranno dunque provarne (e il tribunale dovrà accertare) l’insolvenza secondo le regole ordinarie alla stregua della situazione che risulta dalla fusione e, in caso di liquidazione forzata, dovranno normalmente concorrere con i creditori dell’incorporata senza poter invocare la separazione dei patrimoni esistenti ante-fusione, a meno che non ricorrano gli estremi per (e sempre che si ritenga ammissibile) la revocabilità dell’operazione di merger.
Per sfuggire alle conseguenze paradossali che derivano dalla bizzarra costruzione giuridica della Corte di Cassazione sarà sufficiente allora congegnare l’operazione di salvataggio in modo che la insolvent company assuma la veste di società incorporante, anziché quella di incorporata, assegnando la veste di incorporata alla società che promuove l’iniziativa del risanamento, giacché – e in ciò si trova una plastica evidenza del divario che corre tra la fusione delle società e la morte dell’imprenditore individuale regolata dall’art. 11 l.fall. – nulla impone che, per realizzare il salvataggio di una società attraverso la sua fusione con un’altra, il ruolo di incorporante sia assunto dalla entità che promuove il risanamento.
Che l’indirizzo giurisprudenziale che si sta esaminando sia completamente inattendibile lo attesta però in termini non equivoci il rilievo decisivo che «presupposto dell’applicazione dell’art. 10 l. fall. altro non è - secondo quanto emerge pianamente dalla lettura del suo testo - che la cancellazione dell'imprenditore dal registro delle imprese» (così Cass., sez. I civ., 23 maggio 2024 n. 14414 cit. sulle orme di Cass., sez. I civ., 21 febbraio 2020, n. 4737 in tema di fallimento della società totalmente scissa).
Al riguardo è certo, tuttavia, che nella disciplina che governa il procedimento di fusione, da un lato, non vi è alcuna traccia di una norma che prescriva la cancellazione delle società partecipanti al merger, sulla falsariga delle disposizioni dettate per la liquidazione delle società (artt. 2312 e 2495 cod. civ.); dall’altro, risulta positivamente disposta, in luogo della cancellazione, l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione (art. 2504 cod. civ.). Ciò che – come si vedrà – dovrebbe consigliare estrema cautela in chi vada teorizzando che la fusione determina tout court la “morte” delle società partecipanti alla fusione e, soprattutto, dovrebbe indurre chi sostiene quella tesi a precisare quale significato, eventualmente diverso da quello che emerge dalla disciplina generale delineata dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ., attribuisce al sintagma «estinzione della società» quando indica nella vicenda estintiva uno degli effetti essenziali della fusione[26].
Ebbene, dalla lettura del 2 comma dell’art. 2504-bis cod. civ., per dirla con la nostra Corte di Cassazione, emerge «pianamente»: i) che gli effetti giuridici dell’operazione di fusione si producono in virtù dell’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese; ii) che tutti indistintamente gli effetti dell’operazione si annodano a quella iscrizione; iii) che si ricollegano quindi alla pubblicità del contratto di fusione non soltanto i suoi effetti “costitutivi” e “modificativi” ma anche quelli che, per ora, possiamo designare genericamente come effetti “estintivi”; iv) che non residua in conclusione alcuno spazio per un’iscrizione ulteriore – la «cancellazione» della società incorporata–dotata di effetti giuridici autonomi e distinti rispetto a quelli prodotti dall’iscrizione dell’atto con cui si formalizza il merger[27]. A ciò si aggiunge, sotto il profilo sistematico, che la «cancellazione» dal registro delle imprese delle società partecipanti alla fusione non rientra nel numero chiuso delle «iscrizioni previste dalla legge» (ex artt. 2188 e 2193 cod. civ.)[28] e che dovrebbe essere precluso all’interprete annettere analogicamente effetti estintivi a iscrizioni atipiche se si riconosce l’autorità del principio tradizionale in base al quale «[e]ccezionalmente, e solo in quanto la legge espressamente lo dichiari […], l’iscrizione ha efficacia costitutiva» (così la relazione al codice civile n. 903 e v. anche Cass. sez. un. 22 febbraio 2010, n. 4060) [29].
Osservato che, secondo quanto emerge “pianamente” dalla lettera della legge, la cancellazione dal registro delle imprese costituisce, nei termini che saranno in seguito meglio precisati, un antecedente imprescindibile per l’applicazione del regime normativo disposto dall’art. 10 l. fall. e ora dell’art. 33 CCII (come affermato da Cass., sez. I civ., 23 maggio 2024 n. 14414 cit. e da Cass., sez. I civ., 21 febbraio 2020, n. 4737) e appurato che, altrettanto “pianamente”, tale indispensabile presupposto, dato frettolosamente per scontato nelle decisioni della giurisprudenza di legittimità, risulta in realtà del tutto estraneo alla disciplina del procedimento di fusione, ogni discorso sul cosiddetto fallimento (liquidazione giudiziale) della società incorporata dovrebbe considerarsi definitivamente chiuso e non resterebbe che relegare l’orientamento della Corte di Cassazione in questa materia tra i casi d’inversione metodologica da tempo denunciati dalla dottrina commercialistica[30].
Senonché, da un lato, l’affermazione ripetuta senza alcun tipo di motivazione nella giurisprudenza della Corte, anche nella sua composizione più autorevole, di un dato – la cancellazione dal registro delle imprese delle società fuse – la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dalla legge[31]; dall’altro, la vistosa fragilità degli argomenti che quell’indirizzo giurisprudenziale ha invocato a sostegno del fallimento dell’incorporata, e, tra questi, soprattutto, l’improprio accostamento che traspare costantemente nei ragionamenti della Corte tra la fattispecie (e gli effetti) dell’estinzione della società in liquidazione, per un verso, e la fattispecie (e gli effetti) della fusione[32], per altro verso, consigliano di svolgere qualche breve considerazione sul fondamento dell’art. 10 l. fall. e oggi dell’art. 33 CCII, nonché sulle ragioni di ordine storico e sistematico che ne impediscono senz’altro l’estensione alle operazioni di fusione.
3.- Codificato l’istituto del fallimento sul modello della legislazione francese come regime normativo caratteristico di una certa classe di persone formata esclusivamente da «coloro che esercita[va]no atti di commercio per professione abituale, e [dal]le società commerciali» (art. 8 cod. comm. ’82 e artt. 1 e 106 cod. comm. ‘65), si presentò ben presto anche nel nostro ambiente giuridico il problema della perdita della qualità, di commerciante appunto, che di quel regime costituiva il presupposto soggettivo. Problema, quello se e in che limiti potesse dichiararsi il fallimentodel commerciante che aveva cessato di esercitare la sua professione, che, all’indomani dell’entrata in vigore del code de commerce francese, si era egualmente agitato nella dottrina e nella giurisprudenza d’oltralpe della prima metà dell’ottocento e che, in mancanza di una regolamentazione espressa, fu inizialmente risolto in quell’esperienza nazionale[33] e poi da noi sotto il codice di commercio del 1865 alla stregua della disciplina dettata per il fallimento del commerciante defunto[34]: si disse che così come la morte del commerciante non impediva la dichiarazione di fallimento perché è un fatto accidentale che «non può render migliore la condizione degli eredi del debitore né peggiore quella dei suoi creditori», così il commerciante che avesse abbandonato volontariamente il commercio non poteva «difendersi col pretesto di aver cangiato professione, essendo un giuoco che tutti potrebbero fare. Basta dunque che i debiti siano commerciali e contratti quando si eserciva la professione di commerciante, abbenché prima della cessazione dei pagamenti siasi cangiato mestiere»[35]. Si osservò, peraltro, a quel tempo che, nel silenzio della legge, la giurisprudenza francese aveva bensì desunto “dalla analogia del caso della morte la possibilità d’una dichiarazione di fallimento a carico del commerciante ritirato”, ma aveva poi “arrestato l’applicazione analogica a questo punto, non credendosi autorizzata ad applicare anche il limite d’un anno prefisso (per l’istanza di fallimento) nel caso della morte”[36], con la conseguenza, non di poco conto, che il commerciante ritiratosi dalla professione restava esposto alla dichiarazione di fallimento fino alla completa estinzione dei debiti contratti quando esercitava il suo commercio.
La necessità di regolare espressamente «oltre al caso di morte del commerciante, pur quello in cui la cessazione dei pagamenti per debiti commerciali potesse manifestarsi in un commerciante che si è ritirato dal commercio»[37] emerse chiaramente durante i lavori preparatori del nuovo codice. In quell’occasione si disse – riprendendo ancora una volta l’argomento formulato originariamente dalla dottrina e della giurisprudenza francesi con riferimento all’ipotesi del commerciante defunto – che la disposizione «in forza della quale il fallimento non può dichiararsi fuorché a carico del commerciante, condurrebbe all’esclusione del caso in cui quegli che cessa i pagamenti abbia, con esterne manifestazioni o con atti, che non lasciano luogo a dubbio, abbandonato completamente la sua professione commerciale»[38]. «Se ciò fosse», si disse, «la via a sottrarsi alle gravi conseguenze del fallimento sarebbe facilmente accessibile al commerciante di mala fede, od a quello che, scorgendosi prossimo ad una crisi commerciale, vuole però evitarne l’onta ed il danno»[39]. Di qui l’esigenza di affermare, come era già avvenuto per l’evenienza della morte del commerciante, che «il volontario ritiro dal commercio non può recar pregiudizio ai diritti dei creditori, né migliorare la condizione del debitore, e quindi [che] il fallimento deve poter essere dichiarato anche a carico dell’ex-commerciante»[40].
Le stesse ragioni di opportunità che presiedevano alla regolamentazione del fallimento del commerciante defunto – contemperare la tutela dei creditori dell’impresa con l’esigenza di evitare che la situazione di incertezza del debitore o dei suoi eredi derivante dall’esposizione al fallimento si protraesse in un orizzonte temporale indefinito – suggerirono, però, «di restringere l’esercizio di questo diritto [dei creditori ad ottenere il fallimento del commerciante cessato] entro un certo limite di tempo» che fu poi stabilito dall’art. 690 cod. comm. in cinque anni dal ritiro «purché la cessazione dei pagamenti abbia avuto luogo durante l’esercizio del commercio, od anche nell’anno successivo, per debiti dipendenti dall’esercizio medesimo».
Una volta approvato il nuovo codice di commercio, il contenuto precettivo dell’art. 690[41], a quanto sembra, non diede luogo a particolari questioni nella trattatistica e nella giurisprudenza dell’epoca. Si disse che, se per essere dichiarato fallito occorreva normalmente rivestire la condizione di commerciante e cioè compiere atti di commercio per professione abituale, «non è punto necessario, tuttavia, che il fallito sia ancora nell’attuale esercizio del proprio commercio o viva ancora al tempo in cui tale stato è riconosciuto dall’autorità giudiziaria […] perché se gli effetti di questo esercizio, pur essendosi determinati durante la vita mercantile di lui, non si faranno tuttavia manifesti che più tardi, sarebbe ingiusto ed immorale che egli, riuscendo con abili artifici a tenere in silenzio i creditori, potesse così sottrarsi agli effetti del fallimento, cessando dal proprio commercio prima che quello fosse dichiarato. Tuttavia, per non lasciare troppo a lungo tempo sospesa la sorte di chi non è più commerciante, la legge vuole: 1° che la dichiarazione di fallimento sia chiesta non più tardi di cinque anni dal giorno in cui il commerciante cessò da tale esercizio, allo scopo di turbare il meno possibile lo stato di possesso che deriva dagli affari compiuti […]; 2° che la cessazione dei pagamenti siasi verificata durante quell’esercizio, od entro un anno dalla cessazione del commercio ma per debiti relativi all’esercizio di quello e derivante da causa commerciale […]»[42]. Solo si notò che «bene spesso, sarà […] difficile determinare con precisione e sicurezza il giorno in cui un commerciante cessò dall’esercitare la propria industria, per quindi far decorrere da esso i due termini […]» e che «[m]olto qui, necessariamente bisognerà lasciare al savio criterio con cui il magistrato apprezzerà tutte le circostanze che possono gettar lume sul fatto»[43]; incertezza in qualche modo inevitabile, si disse, per il fatto che nel corso dei lavori preparatori del codice dell’82 «fu scartata l’idea di esigere un ritiro pubblicamente annunziato», come avveniva nelle legislazioni adottate da quei paesi che davano «pubblicità legale alla qualità di commerciale mercé iscrizione in pubblico registro» e per le quali «il cessare della qualità coincide colla cancellazione del nome dal registro» e che, appunto, dalla data della cancellazione facevano decorrere il termine utile fissato dalla legge per la dichiarazione del fallimento[44]. Si osservò, d’altro canto,che, pur con l’apprezzabile obiettivo di apprestare una misura di difesa per i creditori, il fallimento del commerciante cessato «non è meno in contrasto col principio fondamentale che solo il commerciante può esser dichiarato in fallimento […]» e che perciò doveva ravvisarsi in quella norma «una disposizione d’eccezione motivata da ragioni di equità e opportunità»[45]. «Per giustificarla razionalmente nel sistema della legge», scriveva il Bonelli, «bisogna collegarla col concetto della liquidazione. La legge presume che il patrimonio del commerciante che si ritira si conservi (almeno per un certo periodo di tempo) in uno stato di liquidazione durante il quale esso nonostante il mutato indirizzo dell’attività personale […], mantiene il suo carattere commerciale e la proprietà, che questo importa, di esser suscettibile di fallimento, come strascico dell’antica gestione commerciale»[46]. «Normalmente», annotava l’illustre scrittore, «la legge non conosce la liquidazione come istituto giuridico, fuori che nella sua applicazione alle società; non conosce cioè la liquidazione dei patrimoni individuali. Questo articolo costituisce una eccezione a questa regola, in quanto esso ammette che un patrimonio individuale possa continuare per un certo tempo a presentarsi con carattere commerciale anche senza l’esercizio del commercio, o possa almeno esser dichiarato e messo in fallimento in conseguenza di operazioni fatte durante la sua attività commerciale […]. Ciò significa che [la legge] prende in considerazione lo stato di liquidazione di quel patrimonio […] all’effetto di tener ferma la tutela collettiva dei creditori; e solo si preoccupa di fissare un limite legale a questo stato […] varcato il quale esso, se anche effettivamente non cessato, non ha più forza di sottrarre il patrimonio al trattamento ordinario delle norme di diritto comune»[47].
L’opinione del Bonelli ebbe larga fortuna e fu recepita senza contrasti dai suoi contemporanei. E così dal Ramella che osservò che il patrimonio del commerciante cessato «porta l’impronta del carattere commerciale […] e soltanto è apposto dalla legge un limite a tale stato, scorso il quale il patrimonio sottostà alle norme dell’esecuzione ordinaria»[48]; dal Navarrini il quale, dopo aver ribadito che con l’art. 690 cod. comm. si introduceva un’eccezione al principio che possono fallire soltanto i commercianti, osservò che così si faceva fallire «chi può non essere più commerciante, ma soltanto quando in istato di fallimento si fosse trovato il suo patrimonio, all’epoca in cui tale patrimonio era indirizzato al commercio, o per quel periodo in cui si può supporre che, benché non indirizzato più al commercio, presumibilmente si procedeva alla sua liquidazione – ma sempre per obbligazioni incontrate durante l’esercizio del commercio»[49]; e ancora dal Brunetti secondo il quale il fallimento del commerciante ritiratosi dal commercio «è ispirato al concetto che, come per le società disciolte havvi una fase di liquidazione, così debba essere anche per il commerciante [persona fisica] messosi a riposo. Si presume una liquidazione durante la quale il patrimonio conserva il suo carattere commerciale e dev’essere quindi suscettivo di fallimento per debiti attinenti alla precedente gestione»[50]. Dello stesso tenore il commento del Pipia il quale osservò che nell’art. 690 «la legge presuppone, dopo il ritiro o la morte del commerciante, come uno stato di liquidazione di fatto, durante il quale periodo possono, a tutela dei diritti dei creditori sorti anteriormente al verificarsi di tali eventi, manifestarsi le stesse conseguenze giuridiche, come se l’esercizio del commercio avesse continuato a svolgersi inalterato»[51]. Si tratta, notava questo scrittore, di «una continuazione fittizia e ideologica della qualità di commerciante che, in via d’eccezione, viene supposta, per mantener compatta la massa patrimoniale e unito il consorzio dei creditori, allo scopo di evitare i più gravi inconvenienti che sarebbero per derivare dalla libertà di azione che venisse loro permessa»[52]. Si deve però al Candian la più energica affermazione dell’opinione corrente: «Si comprende», egli scrisse, «come non possa essere ostacolo a una dichiarazione di fallimento il fatto che il commerciante siasi ritirato dal commercio. Sarebbe un incentivo alla malafede e alla frode il consentire che accadesse altrimenti: dacché un commerciante, cui urgesse, nel dissesto del patrimonio, la imminenza della catastrofe, potrebbe agevolmente sottrare i suoi averi e se stesso alla esecuzione fallimentare e alle conseguenti sanzioni civili e penali, ritirandosi dalla vita commerciale. E’ logico adunque che, anche cessata l’attività specifica dello stato di commerciante, il patrimonio di lui rimanga identicamente esposto, per un certo periodo di tempo, ai diritti dei creditori, e che questi possano affermavisi in tutta l’integrità delle sanzioni che il codice di commercio dispone. Si ha in sostanza un periodo durante il quale si protrae la disciplina giuridica del patrimonio come patrimonio di un commerciante; un periodo durante il quale esso presenta qualche analogia col patrimonio di un ente in liquidazione»[53].
4.- Se il fondamento e il contenuto precettivo dell’art. 690 cod. comm., a quanto pare, non diedero luogo a contrasti significativi, assai discusso fu invece, nella dottrina e nella giurisprudenza, il perimetro soggettivo di quella disposizione: molto controversa, in particolare, fu a tale proposito la questione se la disciplina dettata dall’art. 690 per l’ipotesi del «commerciante che siasi ritirato dal commercio» riguardasse esclusivamente il commerciante singolo, come era stato storicamente per il riferimento alla persona fisica del commerciante defunto contenuto nell’art. 437 del code de commerce e nell’art. 543 cod. comm. ‘65, oppure dovesse trovare applicazione e in che limiti anche alle «società commerciali» che pure erano senz’altro considerate «commercianti» ed anzi lo erano istituzionalmente, per il loro oggetto statutario, alla stregua della definizione contenuta nell’art. 8 cod. comm., insieme alle persone fisiche e alle altre persone giuridiche «che esercita[va]no atti di commercio per professione abituale»[54]. Se per un verso il «principio che le società commerciali sono fornite di individualità giuridica» aveva «portato come conseguenza la possibilità che di esse [fosse] dichiarato il fallimento», per altro verso, la «particolare fisionomia che acquista il fallimento quanto da esso è colpita una società commerciale» rendeva, infatti, «necessaria una serie di disposizioni speciali», dovendosi «applicare a questa, ormai nettamente affermatasi come ente distinto dalle persone che ne fanno parte», un istituto che si era venuto formando, dopo una lunga elaborazione storica, al di fuori e indipendentemente dalla figura delle società commerciali; e che doveva ora adattarsi «di fronte all’ente società, a nuovi e vari atteggiamenti, quali richiedeva la giuridica conformazione di questa»[55]. In particolare, si osservò che il codice di commercio non disciplinava il fallimento delle società commerciali in modo autonomo rispetto al fallimento del commerciante persona fisica, onde si potesse dire che le norme dedicate a quest’ultimo non erano dettate anche per quelle; ma che vi era invece un nucleo di norme generali sul fallimento di tutti i commercianti, cui faceva seguito un gruppo di norme speciali sul fallimento di quella particolare categoria di commercianti che erano le società commerciali, con la conseguenza che le norme generali avrebbero dovuto trovare applicazione anche alle società, fatte salve le singole deroghe di volta in volta disposte dalle norme speciali[56].
Di qui appunto il problema se il regime dettato per il «commerciante» che aveva abbandonato il commercio avesse effettivamente o meno una portata generale (anziché limitata alla fattispecie del commerciante singolo come era senz’altro la disciplina disposta per il commerciante defunto) e, quindi, se fossero applicabili anche alle società i termini per la dichiarazione di fallimento previsti dall’art. 690 cod. comm.; problema la cui soluzione dipendeva, tra l’altro, anche dalle interferenze che venivano a crearsi tra quella disposizione e la disciplina della liquidazione delle società e, quindi, dalla possibilità di intravedere nelle norme sulla liquidazione del patrimonio sociale una deroga alla disposizione dell’art. 690. Se era sostanzialmente indiscusso, infatti, per espressa previsione della legge, che «lo stato di liquidazione […] non [era] d’ostacolo alla dichiarazione di fallimento» (artt. 207 e 853 cod. comm.) e che non poteva «considerarsi menomamente come un fatto di ritiro dal commercio il mero fatto di mettersi in liquidazione» perché «la società commerciale in liquidazione continua ad essere una società commerciale, cioè un commerciante» e può «sempre esser dichiarata in fallimento, al pari d’una società normale»[57], i dubbi affioravano quando «esaurito che sia il processo liquidatorio, approvato il conto ed effettuata la divisione [tra i soci] dell’avanzo attivo […] qualche creditore rimanga insoddisfatto»[58]. E le difficoltà erano accentuate dalla circostanza che durante i lavori preparatori del codice di commercio era emersa la proposta di inserire una norma che «per le società il termine di un anno prescritto pel commerciante cessato cominciasse a decorrere quando fossero ultimate le operazioni della liquidazione», ma prevalse in senso contrario l’idea che, «chiuse le operazioni della liquidazione, non è più possibile il fallimento, perché l’ente sociale è sparito, e non vi è più né attivo né passivo» e che nel caso di creditori lasciati insoddisfatti avrebbero risposto personalmente i liquidatori sociali, fermo restando che la società, «non avendo più esistenza giuridica, non potrà essere dichiarata fallita»[59].
Il problema del fallimento delle società commerciali dopo avvenuta la ripartizione dell’attivo coinvolse, tra la fine dell’ottocento e gli anni ’20 del 900, alcuni dei più autorevoli studiosi del tempo e vide contrapposti, anche nella giurisprudenza, tre diversi schieramenti: i) secondo una prima tesi la società continuava ad esistere per tutta la durata del procedimento di liquidazione e non oltre la chiusura delle relative operazioni, cosicché esaurita la liquidazione, il patrimonio sociale doveva considerarsi estinto e la persona giuridica finita, con la conseguenza che al termine di quel procedimento venivano a mancare i presupposti indispensabili – il patrimonio e il soggetto giuridico – per la dichiarazione di fallimento[60]; ii) secondo una diversa opinione la società e il patrimonio responsabile invece continuavano ad esistere anche dopo ultimate le operazioni di liquidazione là dove qualche creditore fosse rimasto insoddisfatto, con la conseguenza che il fallimento avrebbe potuto essere dichiarato senza limiti di tempo[61]; iii) secondo una tesi intermedia che rimase minoritaria (e fu però recepita, dopo quasi un secolo dalla sua formulazione, dal nostro diritto dell’insolvenza) la società continuava invece ad esistere fino al completamento delle operazioni liquidatorie e quando la liquidazione fosse chiusa poteva ricorrersi alla disposizione dell’art. 690 cod. comm.; si poteva considerare, perciò, la società estinta al termine della liquidazione alla stregua del commerciante ritirato dal commercio e dichiararne il fallimento alle stesse condizioni e negli stessi limiti di tempo applicabili al commerciante singolo[62].
Il Bonelli, tra i più autorevoli fautori del primo schieramento insieme al Candian, ritenne che «il concetto del ritiro dal commercio è radicalmente incompatibile nelle società commerciali, poiché esso implica l’abbandono d’un patrimonio commerciale, la cui personificazione costituisce appunto l’elemento subiettivo dell’ente società, e che è ad ogni modo da questo logicamente inseparabile», là dove nel «commerciante individuo c’è da considerare che cessando dall’esser commerciante […] egli ha dato alla sua attività e alla perdurante potenzialità patrimoniale un altro indirizzo, e che ad ogni modo l’essere esposto al fallimento dopo tale mutamento può nuocere ai suoi interessi attuali, colpire in ritardo la sua personalità, e bisogna bene che venga un momento in cui egli acquisti la certezza di non esser più disturbato»[63]. Aggiunse, inoltre, il Bonelli che «non si [poteva] più ammettere il fallimento quando tutto l’attivo è stato ripartito, poiché allora la liquidazione è finita, e per conseguenza la società non ha più veruna esistenza» e aggiunse che la liquidazione compiuta con l’attribuzione ai soci della quota di liquidazione «è, sì, la morte del patrimonio sociale; ma questa morte differisce da quella dell’individuo fisico, proprio perché questa lascia dietro di sé un patrimonio da liquidare (se altri non l’assorbe nel suo), mentre quella non lascia più alcun substrato di personalità giuridica; nulla più esiste che possa esser dichiarato in fallimento, poiché in sostanza il fallimento non è che una forma di liquidazione. Ed è ciò che impedisce di invocare per la società qualunque applicazione analogica dell’articolo 690».
Altri rispose che in principio l’unica equiparazione possibile agli effetti dell’art. 690 cod. comm. «si è quella della società liquidata al commerciante che si sia ritirato dal commercio; infatti, liquidandosi una società che altro fa se non ritirarsi dal commercio? Se per render più efficace il discorso si dice comunemente che una società liquidata è una società morta, come è possibile insistere nel paragone quando con esso si pone una distinzione fra società morta e società che siasi ritirata dal commercio? Se si immagina facilmente una differenza fra un commerciante morto ed un commerciante che siasi ritirato dal commercio, come si potrà immaginare una simile distinzione trattandosi di una società, la quale muore appunto ed unicamente ritirandosi dal commercio? Questo ultimo è il fatto reale; il morire della società non è che una espressione figurata con la quale si indica quel fatto. Di necessità adunque, quando debbasi applicare […] il disposto dell’art. 690 ad una società commerciale liquidata, questa dovrà considerarsi come ritiratasi dal commercio e quindi non potrà dichiararsi in fallimento mai, scorsi che siano cinque anni dalla chiusura della liquidazione»[64].
D’altro canto, insegnò Angelo Sraffa che «la società [poteva] considerarsi esistente fino al momento in cui siano definiti i rapporti della società con i suoi creditori, sino a questo momento durando la liquidazione»[65] e che «se anche i soci sono addivenuti alla divisione del patrimonio sociale la società esiste sempre e […] può dichiararsene il fallimento, di fronte alla nostra legge»[66]. «La personalità giuridica della società», si osservò, «perdura anche durante la liquidazione; questo principio non è altro che il riconoscimento d’un fatto, del fatto cioè che fino al momento in cui i debiti sociali non siano pagati la società continua a vivere perché si addivenga alla definizione dei suoi rapporti con i terzi: questo principio non deve considerarsi qualcosa di fondato sull’arbitrio – cioè la esistenza della società durante la liquidazione non ha da considerarsi una esistenza formale, ma un’esistenza reale, tale a malgrado che i soci e gli amministratori della società reputino questa finita e intendano che tale si consideri dai terzi. Orbene, se questo è vero, se la società esiste durante la liquidazione perché non può cessare di esistere finché non ha regolato i suoi rapporti con i terzi e perché cessando il diritto di preferenza che sopra i suoi beni hanno i creditori sociali sparirebbe, ne viene che è al fatto se i rapporti con i terzi furono definiti, se le obbligazioni sociali furono soddisfatte che devesi avere riguardo per stabilire se una società esiste ancora, e quindi se può dichiararsene il fallimento»[67]. Quanto ai rapporti con la disciplina della liquidazione delle società lo Sraffa osservò che se «la volontà dei soci [poteva] mettere in liquidazione una società […] perché la liquidazione non pregiudica i diritti dei terzi»[68] era inconcepibile che «il volere dei soci [potesse] distruggere l’esistenza della società […] perché l’esistenza della società è un fatto che interessa specialmente i terzi, [e] perché distruggendo la società come ente giuridico, i soci toglierebbero ai terzi, creditori della società, dei diritti acquisiti»[69]. Si notò inoltre che «il fatto dei soci, la divisione cioè fra loro dell’attivo sociale, che produrrebbe la fine della società sarebbe un fatto illegittimo e, quasi necessariamente, in mala fede, preordinato cioè allo scopo di togliere ai creditori sociali quel diritto di preferenza sui beni sociali che loro accorda la legge […]»[70]. In conclusione, si disse, «escluso il concetto che sia una finzione la esistenza della società durante la liquidazione, e cotesta esistenza ammessa e riconosciuta, perché rispondente ad una realtà effettiva, il bisogno di soddisfare il passivo sociale, ne viene che una società continua ad esistere come entità giuridica e perciò può essere dichiara fallita fino a che il suo passivo non estinto»[71]. A coloro che sostenevano «che, come per la creazione della società è necessario un patrimonio […], la sua esistenza deve spegnersi quando questa unità patrimoniale – abbia o non abbia servito al soddisfacimento delle obbligazioni assunte dalla società – sia cessata, sia sciolta, sia oramai irrevocabilmente frammentata negli elementi primi che valsero a costituirla», si opponeva che «la questione sta appunto nel vedere se sia proprio irrevocabile quella divisione prima del pagamento dei creditori; e se possa proprio corrispondere alla mente della legge che i soci possano liberamente far sparire dal mondo la società da loro creata […]»[72]; e si aggiungeva che non vi è «nulla di strano e di antigiuridico né di antitetico al concetto di patrimonio, inteso in senso giuridico, nel ritenere che la scomparsa dei beni materiali [della società], quando esistano ancora rapporti giuridici sorti intorno all’ente sociale, ed esista ancora, soprattutto, la possibilità della riformazione di nuovi beni (con azioni varie ma convergenti allo stesso risultato: azione contro i liquidatori […], azioni revocatorie, etc.), [non abbia l’effetto ineluttabile di provocare] immediatamente ed irrevocabilmente la scomparsa della persona giuridica»[73]. Ne risultava, secondo quest’orientamento, che era inutile per le società commerciali far capo alla disposizione dell’art. 690 cod. comm. e che il perimetro di applicazione di quella norma doveva arrestarsi alla figura del commerciante singolo: per un verso, infatti, la società in liquidazione conservava la qualità di commerciante per tutta la durata della liquidazione, mantenendo inalterati il proprio patrimonio e la propria responsabilità, e, per altro verso, la liquidazione non poteva considerarsi chiusa fino all’integrale estinzione delle obbligazioni sociali[74], restando così esposta la società al fallimento, appunto, fino alla completa definizione dei rapporti con i creditori sociali.
5.- Con l’avvento del codice civile, il concetto materiale (o sostanziale) di liquidazione propugnato dallo Sraffa, pur vivacemente avversato dalla dottrina commercialistica, ebbe la sorte di prevalere nella nostra giurisprudenza al punto da diventare diritto vivente[75].
L’idea della sopravvivenza della società, dopo la chiusura formale del procedimento di liquidazione, fino alla integrale estinzione dei debiti sociali prevalse malgrado i redattori del codice civile, per porre fine alle incertezze risalenti al codice di commercio in ordine al momento estintivo delle società – incertezze dovute alla mancanza di una formalità pubblicitaria a cui potesse attribuirsi l’effetto della perdita della qualifica di commerciante – avessero «ritenuto indispensabile regolare la cancellazione della società dal registro delle imprese, traendo dalla pubblicità, che in tal modo viene data alla chiusura della liquidazione, la conseguenza che, dopo di essa, i creditori insoddisfatti possono far valere i loro crediti soltanto nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse, e nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da colpa di essi (art. 2456)» (così la relazione al codice civile n. 997).
All’uniformità del diritto giurisprudenziale, si contrappose, dopo l’avvento del codice civile, il quadro ancora frastagliato delle opinioni dottrinali.
Sul rapporto tra il regime dell’imprenditore che aveva cessato l'esercizio dell’impresa – ora contenuto nell’art. 10 l. fall. che aveva sostituito nel frattempo l’art. 690 cod. comm. – e la disciplina del procedimento di liquidazione delle società, continuarono, infatti, a confrontarsi sostanzialmente le medesime tesi che erano emerse nel vigore del codice di commercio. Da un lato, e si trattava di una posizione ormai minoritaria, vi fu nella dottrina chi ripropose, la tesi dello Sraffa. Scriveva il Provinciali: le «società in liquidazione possono esser dichiarate fallite sin che dura la liquidazione, anche oltre l’anno dalla cessazione del commercio; per esse quest’ultimo termine decorre dalla chiusura della liquidazione, che segna l’estinguersi della società. Ma per conseguire tale effetto, la chiusura della liquidazione, secondo una giurisprudenza ormai pacifica, deve corrispondere alla realtà: cioè deve essersi effettivamente liquidato; id est: pagati tutti i creditori, ché, altrimenti, nonostante la chiusura della liquidazione (apparente), fin che vi siano creditori insoddisfatti, il fallimento può esser dichiarato senza limite di tempo. Sarebbe troppo comodo che bastasse chiudere comunque la liquidazione per mandare i creditori ad agire in confronto dei soci. Per aversi gli effetti propri derivanti dalla chiusura della liquidazione, questa deve essere effettiva: devesi cioè aver effettivamente liquidato, in modo che la situazione apparente dal bilancio di chiusura corrisponda realmente alla compiuta definizione dei rapporti pendenti all’atto dello scioglimento: diversamente ad onta della chiusura formale e apparente, la liquidazione come stato del patrimonio sociale rimane sostanzialmente aperta, con i suoi rapporti e problemi insoluti; donde la possibilità fino a che si perpetua tale stato di cose, del fallimento, con una liquidazione (esecutiva) che si sostituisce all’altra (volontaria)»[76].
Altri aderirono, aggiornandola per tener conto dell’istituzione del registro delle imprese, all’opinione del Bonelli e del Candian secondo cui, chiusa la liquidazione, sarebbero venute meno la personalità giuridica della società con il suo patrimonio, e con quelli anche l’oggetto della liquidazione fallimentare: scrisse il De Semo che una volta operata la cancellazione della società dal registro delle imprese i creditori sociali rimasti insoddisfatti potevano far valere i loro crediti soltanto nei confronti dei soci e dei liquidatori sociali (artt. 2312, 2324, 2456, 2464, 2471 e 2497 cod. civ.), giacché la cancellazione assumeva nel nuovo codice civile «effetto nettamente estintivo, coerentemente del resto al sistema che le società […] non acquistano la personalità giuridica […] se non mediante l’iscrizione»[77]. Alla stessa posizione si associò l’Azzolina che riprese dalla relazione al codice civile l’idea che, una volta ultimata la liquidazione, ai creditori spettava soltantol’azione nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse, e, in caso di colpa, nei confronti dei liquidatori, dovendosi escludere invece ogni altra azione verso la società ormai estinta[78]. E così anche Ferrara jr., il quale, alla fine degli anni ‘50, dopo aver osservato che le società e gli altri enti aventi per oggetto statutario esclusivo o principale l’esercizio di un’impresa commerciale dovevano considerarsi istituzionalmente imprenditori commerciali per tutta la loro esistenza cosicché il loro scioglimento o la messa in liquidazione erano irrilevanti, giudicò applicabile alle società l’art. 10 «nella sola ipotesi in cui intervenga una modifica statutaria che sopprima dallo scopo esclusivo o principale dell’ente l’esercizio di un’impresa commerciale e questa venga in fatto cessata»[79]. «D’altro canto», osservò il Ferrara jr ricordando il pensiero del Bonelli, «a questi enti non sembra possibile applicare l’art. 11 l.fall. che concerne l’imprenditore defunto […] perché mentre la morte della persona fisica lascia intatto il suo patrimonio che si trasferisce ad altro od altri soggetti, l’estinzione di questi enti suppone la dissoluzione del patrimonio, per essere stati i beni distribuiti ai creditori ed il residuo ai membri»[80]. Una volta avvenuta l’estinzione a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, scriveva Ferrara jr., «il fallimento non è più possibile, non solo perché manca un soggetto od un gruppo, ma soprattutto perché manca un patrimonio»[81]. Per i debiti eventualmente rimasti insoddisfatti si profilava allora a tutela dei creditori, ancora una volta, soltanto la responsabilità, limitata o illimitata, a seconda dei casi, dei soci e l’azione nei confronti dei liquidatori sociali.
Alcuni, infine, ripresero, adattandola al nuovo sistema, la tesi avanzata dal Carnelutti, sostenendo che il regime dell’art. 10 l. fall. era senz’altro applicabile, oltre che all’imprenditore individuale, anche alle società. E così il Satta, dopo aver respinto come concettualistica la posizione di quegli autori che negavano l’assoggettabilità al fallimento delle società estinte una volta chiusa la liquidazione, scrisse che la tutela apprestata dagli artt. 2312 e 2456 cod. civ. per i creditori sociali pretermessi dalla liquidazione doveva considerarsi insufficiente, aggiungendo che «dal momento che la liquidazione è compiuta […] l’impresa individuale e la collettiva possono considerarsi cessanti, e da quel momento decorre il termine di cui all’art. 10». «Non vi è infatti ragione», diceva il Maestro, «se i creditori non sono stati soddisfatti o se i liquidatori non hanno tenuto conto di attività che solo col fallimento potranno essere riportate nel patrimonio del debitore (azioni di revoca ecc.), perché l’imprenditore non debba, successivamente alla liquidazione ed entro l’anno dalla medesima, fallire»[82].
Caduta nell’oblio la tesi del Bonelli e del Candian, negli anni ’90 del secolo scorso l’opinione assolutamente dominante nella dottrina era ormai nel senso dell’applicabilità del termine stabilito dall’art. 10 l. fall. anche alle imprese esercitate in forma societaria[83]: le stesse ragioni che conducono a ritenere che l’acquisto della qualità di imprenditore da parte della società coincide con la sua costituzione – si scrive – inducono a concludere che la società resti in vita per tutto il tempo in cui si protrae il procedimento di liquidazione e che potrà essere dichiarato il fallimento a carico della società che sia stata liquidata e cancellata dal registro delle imprese solo entro l’anno dalla cancellazione a norma dell’art. 10 l. fall.[84]. La tesi che l’estinzione della società avviene soltanto con la definizione di tutti i rapporti che ad essa fanno capo e che l’esistenza di uno o più debiti non soddisfatti preclude l’estinzione si pone, secondo la dottrina, «in contrasto con la legge la quale ammette l’estinzione […] ad onta della esistenza di debiti sociali (artt. 2312 c.c., 2456 c.c. cfr. anche art. 31 c.c.)»[85]. E’ certo, si dice, «che la presenza di sopravvenienze passive non impedisce il decorso dell’anno dalla cessazione dell’attività, oltre il quale viene meno l’esposizione al fallimento della società e dei soci»[86]. Si afferma, prima che la riforma del diritto societario intervenga a confermarlo definitivamente, l’argomento, già ripetuto all’indomani dell’entrata in vigore del codice civile, che «l’estinzione avviene dopo compiuta la liquidazione, a seguito della cancellazione della società dal registro delle imprese (cancellazione dunque costitutiva dell’effetto estintivo), e [che] la liquidazione deve considerarsi avvenuta col riparto di tutte le attività sociali, salvo le eventuali responsabilità a carico dei liquidatori o dei soci»[87]. E si conclude, per fondare dal punto di vista degli interessi in gioco l’applicazione del termine annuale per la dichiarazione di fallimento, che non vi sono ragioni «perché i creditori sociali dovrebbero avere una tutela inferiore a quella di cui godono i creditori dell’imprenditore individuale, come del resto [non vi è] ragione per cui, in mancanza di una disposizione di legge, dovrebbero godere di una tutela più ampia»[88].
Le riflessioni della dottrina prepararono sul terreno culturale e ideologico i noti interventi della Corte costituzionale[89] sull’art. 10 l. fall. e poco dopo le riforme del diritto societario e della legge fallimentare approvate nella prima parte del secolo corrente. Arrivò dapprima, sull’onda delle idee assolutamente dominanti nella dottrina commercialistica, la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 10 l. fall. «nella parte in cui non prevede[va] che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della stessa società dal registro delle imprese»[90]. Di lì iniziò la lunga stagione delle riforme che portarono inizialmente alla riformulazione dell’art. 10 l. fall. e poi alla sua riscrittura, con l’emanazione del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ad opera dell’art. 33 CCII.
6.- Al temine di questa lunga digressione sugli antecedenti dell’art. 10 l. fall. e dell’art. 33 CCII e sulle interferenze che, nell’evoluzione dell’istituto fallimentare, vennero creandosi – come riflesso dell’evoluzione del rapporto società-impresa[91] – tra la fattispecie del «commerciante ritiratosi dal commercio» e quella dell’estinzione delle società, possono fermarsi alcuni punti.
i) Così l’art. 690 cod. comm. – e prima ancora gli artt. 437 del Code de commerce e 543 cod. comm. ’65 – come l’art. 10 l. fall. e oggi l’art. 33 CCII, esprimono storicamente il disegno del legislatore di armonizzare due principi in costante tensione tra loro: da un lato, la libertà dell’imprenditore d’imprimere un diverso indirizzo «alla sua attività» e alla sua «perdurante potenzialità patrimoniale», tenendo conto che «l’essere esposto al fallimento dopo tale mutamento può nuocere ai suoi interessi attuali, colpire in ritardo la sua personalità», onde può essere opportuno «che venga un momento in cui egli acquisti la certezza di non esser più disturbato»[92]; dall’altro, il principio cardine di ogni ordinamento che «il regime della responsabilità connesso alla produzione di un’azione (per ciò) giuridica, si realizza non solo senza, ma anche contro la volontà del produttore [dell’azione], sia esso individuo o gruppo»[93].
ii) Come attestato dalla giurisprudenza francese della prima metà dell’ottocento – la quale, nel silenzio del Code de commerce, ammetteva il fallimento del commerciante che si era ritirato dagli affari sulla base dell’analogia con il caso del commerciante defunto, ma si rifiutava di applicare il termine di un anno stabilito per l’apertura della procedura fallimentare a carico del defunto perché quel termine era ritenuto espressione di una norma singolare –, la soggezione al fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’attività non rappresenta «una disposizione d’eccezione motivata da ragioni di equità e opportunità» al «principio fondamentale che solo il commerciante può esser dichiarato in fallimento […]»[94]; è piuttosto il termine finale di quella soggezione, al contrario, un’eccezione, pur sempre fondata su legittime scelte di opportunità, al principio che il debitore non può sottrarsi alla responsabilità patrimoniale nei confronti dei suoi creditori (art. 2740 cod. civ.); e in particolare costituisce un’eccezione al principio che l’imprenditore commerciale non può sottrarsi, finché non sono estinti i debiti contratti nell’esercizio dell’impresa, a quella forma speciale di attuazione della responsabilità patrimoniale che si realizza attraverso il fallimento. L’imprenditore non può, in altri termini, ritirandosi dalla vita commerciale, «sottrare i suoi averi e sé stesso all’esecuzione fallimentare e alle conseguenti sanzioni civili e penali»[95], disposte (non nel suo interesse disponibile ma) nell’interesse della collettività dei creditori.
iii) Squarciato il velo della personalità giuridica delle società, la tensione – e la corrispondente necessità di trovare un equilibrio – tra la libertà dell’imprenditore di dare un diverso indirizzo alla propria attività, da un lato, e il principio d’indisponibilità del regime della responsabilità connesso alla produzione dell’azione, non riguarda soltanto il commerciante singolo e poi, per estensione, le persone fisiche che rivestono la qualità di soci a responsabilità illimitata di società di persone, gli uni e gli altri personalmente esposti al rischio della liquidazione concorsuale del loro intero patrimonio; dal punto di vista delle possibili scelte di politica legislativa, si pone altresì, in termini più attenuati ma non troppo dissimili, anche per gli amministratori, i managers e i soci a rischio limitato delle società di capitali, potenzialmente assoggettabili alle sanzioni civili e penali conseguenti all’apertura del fallimento. Anche per questi ultimi, può infatti, ripetersi che «l’essere espost[i] al fallimento dopo tale mutamento [di attività] può nuocere ai [loro] interessi attuali, colpire in ritardo la [loro] personalità»; anche per l’amministratore, per il manager e per il socio a rischio limitato di società di capitali, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può dunque ritenere meritevole «che venga un momento in cui egli acquisti la certezza di non esser più disturbato»[96].
Le diverse tesi avanzate nel vigore del codice di commercio – e riproposte dopo l’emanazione del codice civile con gli adattamenti resi necessari dalla istituzione del registro delle imprese e dalle novità introdotte nella disciplina della liquidazione delle società – in riferimento alla questione se l’art. 690 cod. comm. dovesse trovare applicazione anche a quella particolare categoria di commercianti che, per l’art. 8 cod. comm., erano le «società commerciali», furono dunque una manifestazione eloquente delle tensioni che, nel particolare settore del diritto dell’insolvenza, storicamente si registrarono nel coordinamento tra il principio che assicurava all’imprenditore (e dietro il velo del soggetto giuridico-società: agli amministratori, ai managers e ai soci) piena libertà di uscita dal mercato[97] e il principio d’indisponibilità del regime della responsabilità connesso all’esercizio dell’attività d’impresa.
Ricostruita la ratio dell’art. 690 cod. comm. e delle sue successive evoluzioni nella composizione del conflitto tra la libertà di imprimere un diverso indirizzo alla propria attività, riconosciuta al «commerciante» e poi, con l’avvento del codice civile, all’«imprenditore commerciale», sia esso imprenditore individuale o collettivo, da un lato; e la regola di indisponibilità del regime della responsabilità, dall’altro; e individuato storicamente il criterio di soluzione di quel conflitto nella previsione di un termine dalla cessazione dell’attività, decorso il quale, resta definitivamente preclusa la tutela concorsuale dei creditori, rimane da chiarire come si realizza, ai particolari fini del diritto dell’insolvenza, l’uscita dal mercato dell’imprenditore commerciale.
Posto che «rientra sicuramente nella discrezionalità del legislatore individuare diversamente, per l’impresa individuale e per quella collettiva, il dies a quo del termine entro il quale il fallimento dev’essere dichiarato dopo la cessazione dell’impresa, così come prevedere eventualmente, in riferimento alle due fattispecie, termini diversi»[98], si danno idealmente una pluralità di possibili alternative[99]. Tra queste alternative due sono le principali: identificare la fine dell’impresa commerciale, come avveniva sotto il codice di commercio[100] e poi in sostanziale continuità con quel codice nell’art. 10 l. fall. nella sua formulazione originaria, secondo il principio di effettività, ricollegando, così, il termine finale per la dichiarazione del fallimento al fatto della effettiva cessazione dell’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, cioè alla cessazione del comportamento conforme al modello legale prefigurato dall’art. 2082 cod. civ., secondo lo stesso principio che tradizionalmente consente di accertare, con l’inizio dell’impresa, l’acquisto della qualità di imprenditore individuale[101]; oppure, ed era la soluzione accreditata sin dal XIX secolo nelle legislazioni dei paesi che davano «pubblicità legale alla qualità di commerciante mercé iscrizione in pubblico registro», identificare la fine dell’impresa «colla cancellazione del nome dal registro» e far decorrere dalla data della cancellazione il termine fissato dalla legge per la dichiarazione del fallimento[102].
Il nostro diritto dell’insolvenza, come noto, nelle sue versioni aggiornate ha in un certo modo combinato le due soluzioni. Non rientra negli obiettivi di questo lavoro esaminare i numerosi problemi sollevati dalla formulazione più recente dell’art. 10 l. fall. e oggi dal testo dell’art. 33 CCII[103]; basterà qui annotare due dati essenziali per condurre avanti il nostro discorso.
Anzitutto nel tentativo di dare attuazione al «generale principio di certezza delle situazione giuridiche» enunciato dalla giurisprudenza costituzionale[104], il legislatore ha tendenzialmente «accomuna[to] gli imprenditori individuali e collettivi [che siano iscritti nel registro delle imprese] nella determinazione del termine annuale per la dichiarazione di fallimento: termine che, in entrambi i casi, decorre dalla cancellazione dal registro delle imprese […]» (così la relazione al d.lgs. n. 5 del 2006).
A tale proposito occorre, tuttavia, tener conto che la scelta di unificare in nome del «generale principio di certezza delle situazione giuridiche» il regime di decorrenza del termine entro il quale può essere aperta la liquidazione giudiziale dell’imprenditore cessato, identificando il relativo dies a quo con il momento della cancellazione dell’imprenditore dal registro delle imprese, non deve far dimenticare che «applicare alle società lo statuto dell’impresa commerciale è altro che applicarlo all’individuo»[105].
Per gli individui, infatti, tanto l’acquisto quanto la perdita della qualifica di imprenditore, secondo un’opinione comune risalente al codice di commercio[106], come si è detto, sono governati, dal «principio di effettività»[107]; principio basato sul rilievo che l’accertamento dell’esercizio effettivo dell’attività economica o della sua effettiva cessazione si rende indispensabile in considerazione della pluralità di attività e di scopi che gli individui possono perseguire nel corso della loro vita[108]: identificare l’inizio e la fine dell’impresa significa quindi per gli individui singoli accertare rispettivamente la realizzazione o la cessazione di un comportamento contrassegnato dalle note distintive (produttività, economicità, organizzazione, professionalità) delineate dall’art. 2082 cod. civ. [109].
Per la figura soggettiva dell’imprenditore individuale – si afferma – la cancellazione dal registro delle imprese ha dunque un valore esclusivamente presuntivo in ordine al fatto della cessazione dell’attività[110] e si spiega così che dal legislatore sia «fatta salva in caso di impresa individuale […] la possibilità di dimostrare che la effettiva cessazione dell’attività non corrisponde alla data della cancellazione dal registro delle imprese, facendo così decorrere il termine annuale dalla data di effettiva cessazione dell’attività commerciale […]» (così ancora la relazione al d.lgs. n. 5 del 2006).
La situazione è invece piuttosto diversa per quanto riguarda le società: malgrado significative voci contrarie[111], è, infatti, opinione prevalente nella nostra più autorevole letteratura giuridica[112] che l’aveva ricevuta dall’art. 8 del codice di commercio[113] ed è opinione da tempo accolta univocamente anche dalla nostra giurisprudenza[114], che l’esercizio effettivo dell’attività economica necessario per l’acquisto della qualità di imprenditore individuale non è necessario per le persone giuridiche e per le altre formazioni dotate di soggettività giuridica che si costituiscono con lo scopo fin dall’origine determinato e individuabile di esercitare un’impresa commerciale[115]: «mentre l’uomo ha nella vita molteplici scopi, che può realizzare in molti modi e in tutte le possibili forme di attività», si diceva sotto l’impero del codice di commercio, «la persona giuridica nasce per uno scopo determinato e la sua attività è segnata e limitata da questo scopo. Lo scopo, in altri termini, è la legge fondamentale e immutabile della vita della persona giuridica. Si comprende quindi come la persona giuridica sia commerciante, per il solo fatto che si è costituita allo scopo di esercitare il commercio»[116]. Per le società un «criterio meramente formale (la costituzione in società) governa l’attribuzione, all’ente o al gruppo unificato che dalla società scaturisce, della veste giuridica di imprenditore (collettivo)»[117]; «nel semplice fatto della costituzione d’una società commerciale il legislatore vede sempre un’organizzazione di durata, e cioè un’impresa; o, quanto meno, applica sempre tutte le regole dettate per le imprese commerciali (dall’obbligo di registrazione a quello della tenuta delle scritture contabili fino all’assoggettamento alle procedure concorsuali)»[118]. Le società di tipo commerciale, si dice, sono istituzionalmente imprenditori commerciali in virtù del loro oggetto statutario in quanto mentre per l’individuo l’esercizio di un’impresa commerciale è una semplice eventualità, per le società che hanno per oggetto un’attività commerciale quell’attività costituisce «la loro ragion d’essere» ed esse «fin dalla nascita sono imprenditori commerciali e tali rimangono per tutta la loro esistenza»[119].
Ne deriva, secondo quest’ordine di idee, che come “l’inizio” dell’impresa esercitata in forma societaria coincide con la stessa costituzione della società senza che sia necessario l’accertamento in concreto di un’attività dotata dei requisiti previsti dall’art. 2082 cod. civ. e per le società di tipo commerciale (capi III ss., Titolo V, Libro V cod. civ.) coincide con l’iscrizione nel registro delle imprese di un atto costitutivo che indichi per oggetto l’esercizio di un’attività commerciale, così parallelamente la cessazione dell’impresa organizzata in forma societaria coincide con la fine dell’esistenza della società cioè con la sua estinzione[120] che pone termine al programma d’attività stabilito nell’atto costitutivo e, più in generale, al complesso degli effetti giuridici che si annodano al contratto sociale (art. 2247 cod. civ.); estinzione che nel sistema della legge, per quanto riguarda le società iscritte, si determina con il completamento del procedimento di liquidazione, appunto. al momento della cancellazione dal registro delle imprese (ex artt. 2312 e 2495 cod. civ.) [121].
Di qui, il valore tendenzialmente assoluto e irreversibile, non meramente presuntivo, che il legislatore mostra di voler assegnare appunto alla cancellazione della società dal registro delle imprese con l’art. 33 CCII (e già l’art. 10 l. fall.)[122] e l’indicazione che per le società il termine annuale per l’apertura della liquidazione giudiziale decorre dalla data della cancellazione senza che sia accordata ai terzi la facoltà di fornire la prova di un diverso dies a quo: una volta che alla cancellazione dal registro delle imprese si riconduce, per volontà della legge, sia la distruzione del vincolo sociale sia la fine della soggettività giuridica della società appare tutto sommato coerente far coincidere con quell’evento anche la cessazione dell’impresa che fu dapprima iniziata con la creazione di quel vincolo e con l’istituzione dell’ente sociale.
La necessità di adattamento della disciplina dell’impresa alla figura soggettiva dell’imprenditore collettivo e alle diverse modalità con le quali avvengono l’acquisto e la perdita della qualità di imprenditore in capo alle società si presenta peraltro anche sotto un altro aspetto.
Per quanto riguarda le società che hanno per «oggetto» l’esercizio di una attività commerciale (art. 2249, comma 1, cod. civ.), va infatti osservato che la cessazione dell’attività non si verifica esclusivamente con l’estinzione della società a seguito della sua cancellazione dal registro delle imprese, ma può costituire anche l’esito – o uno degli esiti nel più ampio contesto di operazioni di trasformazione, fusione e scissione societaria – di una modificazione dell’«oggetto» sociale, cioè del tipo di attività economica che con il contratto sociale i soci mettono in programma di svolgere. E’ infatti senz’altro consentito alle società costituite in forma commerciale di modificare l’originario atto costitutivo volgendosi all’esercizio di una «attività diversa» (art. 2249, comma 2, cod. civ.) e così di determinare, dopo la costituzione, il ritiro dalla vita commerciale, senza che ciò implichi necessariamente la cessazione di ogni attività economica e lo scioglimento del contratto sociale. Con la modifica dell’oggetto indicato nell’atto costitutivo i soci danno quindi un diverso indirizzo alla loro attività comune e imprimono una diversa destinazione al patrimonio sociale ponendo le condizioni per la cessazione dell’impresa inizialmente stabilita con il contratto di società. La formula restrittiva dell’art. 33, comma 2, CCII secondo cui «la cessazione dell'attività coincide con la cancellazione dal registro delle imprese» deve dunque essere integrata con quella più ampia del primo comma che abilita l’apertura della liquidazione giudiziale «entro un anno dalla cessazione dell'attività del debitore», per tale dovendosi intendere anche la cessazione dell’impresa commerciale che sia conseguenza di una modificazione dell’oggetto sociale iscritta nel registro delle imprese e della sua sostituzione con un’attività non commerciale. E, infatti, al pari della iscrizione della cancellazione l’iscrizione nel registro delle imprese della deliberazione modificativa della clausola dell’atto costitutivo relativa all’oggetto sociale (art. 2300 e 2436 cod. civ.) fissa in modo rilevante per i terzi e con piena garanzia del principio di certezza delle situazioni giuridiche il mutato orientamento dell’attività. La società che abbia modificato il proprio oggetto, sopprimendo l’esercizio di un’impresa commerciale, e sempre che «questa venga in fatto cessata»[123], potrà perciò essere dichiarata fallita – deve ritenersi – entro un anno dalla iscrizione della delibera di modificazione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese[124].
7.- Ciò detto e chiarito, anche sulla base dei suoi antecedenti storici, che l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 33 CCII presuppone il ritiro dell’imprenditore dalla vita commerciale e cioè la fine dell’impresa commerciale (allo stesso modo del precedente art. 10 l. fall. significativamente intitolato appunto “fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’esercizio dell’impresa”); e chiarito altresì che, nell’evenienza di un’impresa esercitata in forma societaria, la fine dell’impresa può conseguire alternativamente i) all’estinzione della società provocata dalla cancellazione dal registro delle imprese richiesta dai liquidatori al termine delle operazioni di liquidazione, (ex artt. 2312 e 2495 cod. civ.) oppure ii) alla modificazione del suo oggetto sociale, si tratta di esaminare più da vicino se attraverso la fusione si realizzi, in un modo o nell’altro, la «cessazione dell’attività» delle società che si fondono.
In disparte l’ipotesi della modificazione dell’oggetto sociale attuata in occasione della fusione, in ordine alla quale non dovrebbero sussistere particolari incertezze[125], per procedere nella direzione appena indicata appare indispensabile confrontare in termini analitici gli effetti (anche) «estintivi» che, come si è anticipato, senz’altro si riconnettono (ex art. 1321 cod. civ.) al contratto di fusione con quelli che, una volta terminato il procedimento di liquidazione e a seguito della cancellazione del registro delle imprese, si producono con l’«estinzione della società» nel significato che traspare dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ.. E, infatti, considerato che la vicenda estintiva governata da queste disposizioni normative è l’unica a cui possa riferirsi con sicurezza, nella disciplina generale del fenomeno societario, l’espressione «estinzione della società» e che, d’altro canto, non v’è dubbio che proprio quella vicenda estintiva – sulla scorta della giurisprudenza costituzionale – il legislatore ha tenuto presente nella formulazione (dell’art. 10 l. fall. e poi) dell’art. 33 CCII, intanto può legittimamente accostarsi la fusione al fatto dell’estinzione della società in liquidazione rilevante ai sensi dell’art. 33 CCII – e potrà quindi propriamente dirsi che la fusione determina la estinzione della società incorporate o delle società partecipanti alla fusione sicché dalla data dell’estinzione conseguente all’iscrizione dell’atto di fusione decorra l’anno per l’apertura della liquidazione giudiziale – in quanto gli effetti estintivi della fusione siano i medesimi o comunque siano nel loro nucleo essenziale equivalenti a quelli che si producono in conseguenza della situazione prevista dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ..
A tal proposito, malgrado la fattispecie e gli effetti dell’estinzione delle società in liquidazione, come è stato autorevolmente notato anche di recente, siano in parte tuttora controversi[126], può affermarsi con un buon grado di approssimazione che la conseguenza della cancellazione della società dal registro delle imprese consiste nel completo esaurimento degli effetti dell’operazione societaria ossia nell’integrale venir meno, al termine dell’operazione, delle situazioni giuridiche[127] create con la costituzione della società. Poiché d’altro canto il termine «società» è usato nel linguaggio legislativo in una pluralità di accezioni per designare di volta in volta «il negozio posto in essere […] per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di dividerne gli utili (art. 2247 cod. civ.), il correlativo rapporto e l’organizzazione che si costituisce onde realizzare lo scopo sociale e rendere i soci partecipi degli utili e delle perdite»[128], l’espressione «estinzione della società» nel contesto degli artt. 2312 e 2495 cod. civ. si presta ad indicare riassuntivamente una pluralità di effetti estintivi diretti a incidere sul complesso di situazioni giuridiche che si annodano alla costituzione della società. In particolare, il sintagma «estinzione della società» designa, nel diritto nazionale, quella vicenda che determina nel contempo l’eliminazione del contratto sociale, la cessazione di ogni rapporto tra i soci e tra i soci e la società, il dissolvimento dell’organizzazione e del patrimonio sociale; la scomparsa, infine, dell’ente sociale, inteso come persona giuridica o soggetto di diritto o, se si vuole, come gruppo unificato dei soci[129]: estinzione della società, si è detto in questa prospettiva, significa «il venir meno del rapporto che lega gli azionisti cioè del vincolo al loro investimento, [del vincolo] alla loro volontà subordinata […] alla volontà sociale; significa venir meno dell’organizzazione della società, della sua personalità giuridica»[130]; vuol dire cessazione «[de]i poteri di rappresentanza e di gestione dei suoi organi»[131]; «disintegrazione del gruppo sociale come collettività organizzata» che vien meno con la «sua capacità giuridica sostanziale e processuale, con i suoi apparati amministrativi e con la sua autonomia patrimoniale»[132].
Con l’estinzione della società in liquidazione dunque vengono meno anzitutto gli effetti del negozio costitutivo: i soci sono liberati dall’obbligo di eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale (artt. 2253 e 2342 ss. cod. civ.) e viene meno il potere dei liquidatori di chiedere a ciascun socio i versamenti ancora dovuti sulle rispettive quote (artt. 2280 e 2491 cod. civ.); cessa l’obbligo dei soci di svolgere l’attività economica comune stabilita nell’atto costitutivo e di conseguenza vien meno il divieto di esercitare un’attività concorrente con quella della società (art. 2301 cod. civ.); correlativamente vien meno in modo irreversibile lo scopo comune di conseguire un utile da dividere tra i partecipanti all’iniziativa (2247 cod. civ.); in una parola si estinguono il contratto di società e le partecipazioni sociali intese come complesso di diritti, obblighi, poteri e facoltà che il contratto attribuisce a ciascun socio.
Con l’estinzione della società in liquidazione viene meno poi anche l’organizzazione sociale: nelle società di persone si estinguono i diritti di amministrazione e di controllo dei soci (artt. 2257 e 2261 cod. civ.) e cessano gli obblighi dei liquidatori sociali (artt. 2260, 2278, 2302 cod. civ.); cessano la rappresentanza (art. 2298 cod. civ.) e la ragione sociale (artt. 2292 e 2314 cod. civ.); nelle società di capitali, si dissolve l’organizzazione corporativa basata sulla ripartizione di competenze tra l’assemblea generale, l’organo di gestione e, ove presente, del collegio sindacale; vengono meno gli obblighi che ineriscono alle cariche sociali (artt. 2392, 2407 e 2489 cod. civ.); cessano i poteri di rappresentanza (artt. 2384 e 2475-bis cod. civ.) e vien meno la denominazione sociale (art. 2326 cod. civ.).
Con l’estinzione determinata dalla cancellazione dal registro delle imprese, infine, scompare «la società come persona giuridica, cioè come soggetto capace di diritti ed obblighi, titolare di un […] patrimonio»[133]; viene meno «l’autonomia del patrimonio sociale rispetto ai patrimoni personali dei singoli soci»[134] e cessa quindi il diritto di preferenza riconosciuto ai creditori della società rispetto ai creditori particolari del socio[135]. Scomparso il soggetto di diritto, in caso di sopravvenienze, i soci sono considerati successori a titolo universale della società e si forma una situazione di contitolarità sui beni già dell’ente con la conseguente responsabilità dei soci, limitata o illimitata a seconda dei casi, per i debiti sociali[136]. Estinta la soggettività del gruppo, i creditori sociali rimasti insoddisfatti non possono, quindi, più rivolgersi alla società in persona dei liquidatori e devono far valere i loro diritti nei confronti dei soci: fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, nelle società a rischio limitato, o per intero nei confronti dei soci illimitatamente responsabili nei tipi sociali che prevedono la responsabilità illimitata di tutti o alcuni soci; potranno inoltre agire nei confronti dei liquidatori personalmente se il mancato pagamento è imputabile a colpa o dolo di questi ultimi (artt. 2312 e 2495 cod. civ.)[137].
8.- Sin dall’inizio di questo lavoro si è affermato con tono perentorio che il negozio di fusione si caratterizza anche per la produzione di effetti che possono designarsi come “estintivi” (ex art. 1321 cod. civ.) delle situazioni giuridiche derivanti dalla costituzione della società; occorre adesso precisare quell’affermazione.
Che il negozio di fusione sia dotato anche di efficacia estintiva è un dato certo poiché, nonostante le esitazioni talora emerse nella giurisprudenza italiana, la presenza di effetti di tipo estintivo costituisce un connotato comune dell’istituto nella tradizione giuridica continentale risalente alle legislazioni dell’ottocento[138]; ed è un dato confermato espressamente dal diritto societario europeo sin dagli anni ’70 del secolo scorso là dove la relativa disciplina di armonizzazione, a partire dalla Terza Direttiva[139], invariabilmente indica, nel novero degli effetti essenziali della fusione (artt. 105 e 109 dir. UE 2017/1132), che le società incorporate nel merger by acquisition e le società partecipanti nel merger by the formation of a new company, si «estinguono» (cosi nelle traduzioni italiana e tedesca) o «cessano di esistere» (così, tra l’altro, nelle traduzioni inglese, francese, spagnola).
Si tratta peraltro di un punto di vista che gli esponenti più illustri della nostra letteratura giuridica, già sotto l’impero del codice di commercio[140], non hanno mai messo in discussione. Ricordava, infatti, Giuseppe Ferri nel 1936che a questo riguardo «tutti gli autori sono d’accordo: la fusione importa l’estinzione di alcune o tutte le società che vi partecipano e la modificazione della società incorporante o la costituzione di una nuova società che si sostituisce alle preesistenti, importa la partecipazione dei soci delle società estinte alla società che risulta dalla fusione o alla società incorporante ed una successione nel patrimonio delle società che si fondono»[141]. Ed è un’opinione che, a ben vedere, nonostante l’artificiosa contrapposizione alimentata da una lettura superficiale delle diverse teorie che si contendono il campo, dopo l’avvento del codice civile, fu senz’altro condivisa, con accenti diversi, anche dai più accreditati fautori della dottrina modificativa-evolutiva[142]. Solo si puntualizza da parte di questi ultimi, per ridimensionare la rilevanza dell’effetto estintivo nell’inquadramento complessivo della vicenda, che quello che dalla dottrina tradizionale della fusione «è scambiato per estinzione delle società e ricreazione di un’altra società, diversa dalle precedenti, è invece un unico mutamento, ossia quello della perdita dell’individualità delle singole società, perdita di individualità che è conseguenza necessaria e voluta della fusione»[143] (E. Simonetto); mentre da altri si precisa che l’estinzione delle società incorporate (o delle società partecipanti nella fusione per unione) è un effetto che pur ineludibile, in quanto «la programmata unificazione [degli organismi societari] presuppone logicamente l’eliminazione della preesistente pluralità dei distinti centri d’imputazione dei rapporti aziendali, che risulteranno riferiti, allorché si attuerà la fusione, ad un unico soggetto […]», opera soltanto «sul piano formale dei soggetti di diritto», giacché la fusione «comporta l’inutilità dei plurimi centri d’imputazione e, quindi, la disattivazione dei meccanismi funzionali di taluna (o di tutte) le società partecipanti alla fusione»[144] (C. Santagata).
Se l’efficacia estintiva della fusione appare un elemento costante della tradizione legislativa continentale sin dal XIX secolo ed è sempre stata riconosciuta senza esitazioni nella letteratura giuridica europea[145], più incerta risulta la questione della esatta portata dell’effetto estintivo del negozio di fusione e della sua collocazione in relazione agli altri effetti giuridici del negozio.
L’esistenza di una disciplina di armonizzazione delle operazioni di merger e i vincoli che derivano dall’obbligo di puntuale attuazione del diritto dell’Unione europea impongono peraltro di ricercare anzitutto in quella disciplina e non nel diritto nazionale, come avviene usualmente nei discorsi della dottrina e della giurisprudenza italiane[146], le basi per la soluzione del problema, con l’ovvia avvertenza che il sintagma «estinzione della società» impiegato nel diritto armonizzato (o meglio nella traduzione italiana di quella normativa) non può essere inteso aprioristicamente nel significato che gli viene comunemente riconosciuto nell’ordinamento interno (ad es. nel significato desumibile dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ. o da altre disposizioni legislative nazionali), giacché si tratta di un’espressione linguistica che, per definizione, essendo adoperata in una fonte normativa extra-statuale, è destinata a valere in una pluralità di ordinamenti e che perciò non presenta alcun diretto collegamento con il diritto di questo o quell’altro Stato membro dell’Unione.
Ciò posto, è agevole rilevare che proprio dalla disciplina complessiva degli effetti della fusione qual è prefigurata dal diritto societario europeo possono trarsi argomenti di importanza decisiva per l’indagine che andiamo conducendo.
Un’indicazione decisiva può essere desunta in particolare dalla definizione con cui nella disciplina di armonizzazione si descrive la fusione come «l’operazione con la quale una o più società, tramite uno scioglimento senza liquidazione [nelle diverse traduzioni: im Wege der Auflösung ohne Abwicklung, par suite de dissolution sans liquidation, como consecuencia de una disolución sin liquidación, whereby one or more companies are wound up without going into liquidation], trasferiscono ad un'altra l’intero patrimonio attivo e passivo mediante l'attribuzione agli azionisti della società o delle società incorporate di azioni della società incorporante» (artt. 89 e 90 dir. 2017/1132); definizione che illustra il modo di prodursi degli effetti della fusione, successivamente enunciati dall’art. 105 dir. 2017/1132, sostituendo, come subito si avverte confrontando le diverse disposizioni rilevanti, il termine «estinzione» con l’espressione «scioglimento senza liquidazione».
La particolare rilevanza esplicativa del sintagma «scioglimento senza liquidazione» deriva da ciò che esso, lungi dal costituire un «residuo logico di una concezione scarsamente evoluta, propria di quegli ordinamenti (Francia, Belgio, Olando e Lussemburgo) che non prevedevano come istituto tipico la fusione»[147], risente al contrario del modo più maturo – rispetto alle concezioni antropomorfiche della fine del XIX secolo che inquadravano l’istituto nella successione mortis causa di una persona giuridica nel patrimonio di un’altra che si estingueva – di concepire la fusione nella dottrina europea della prima metà del novecento, a cui occorre pertanto risalire per intendere il significato originario di quell’espressione[148].
E così, manifestando le tendenze più avanzate di quella cultura giuridica, nel 1924 Umberto Navarrini scriveva che nella fusione «si ha il passaggio dell’universum jus da una società nell’altra o la creazione di una società nuova col patrimonio delle singole. Per il codice, infatti, […] non si può parlare di fusione se non quando delle società che si fondono ne rimanga una sola[…]; o sorga da esse tutte una nuova società […]. Dal punto di vista giuridico, dunque, e questo è il punto di vista principale, la fusione porta con sé necessariamente lo scioglimento […]. Scioglimento, si noti, ma non liquidazione; la liquidazione toglierebbe, di regola, l’utilità della fusione, che si alimenta di patrimoni vivi ed operanti, non di patrimoni liquidati. Le società che spariscono colla fusione rinunciano a dirigere esse il loro patrimonio alla speculazione commerciale, ma non gli tolgono tale destinazione; la liquidazione contrasterebbe a codesta legittima intenzione. Si tratta, insomma, del compenetramento dell’organismo giuridico ed economico di più società in uno solo, che continua ad esistere, o in uno nuovo che tutte le abbraccia e le comprende; organismo giuridico ed economico che verrebbe, colla liquidazione, ad essere distrutto»[149].
A chiarire ulteriormente quell’intuizione intervenne un decennio più tardi Enrico Soprano il quale, muovendo dal commento della previsione dell’art. 189 n. 7 cod. comm., con cui si stabiliva lo «scioglimento» delle società commerciali «per la fusione con altre società», scriveva:«può tuttavia domandarsi se la fusione sia proprio da considerare come causa di scioglimento [al pari delle altre cause di scioglimento delle società previste dal codice di commercio] o se piuttosto si determini un altro modo di estinzione della società, e in tal caso, quale esso sia e quali siano i suoi effetti […]; è necessario [infatti] intendersi sul significato del termine scioglimento»[150]. «Se per esso si intende la liberazione dei soci dal vincolo [sociale] assunto, sia pure differita all’esaurimento della liquidazione», diceva il Soprano, «si deve nettamente escludere che la fusione importi lo scioglimento per alcune delle società partecipanti all’operazione. L’effetto della liberazione infatti mancherà del tutto; e i soci, anziché riprendere ciascuno la sua via, si vedranno legati ad un più ampio centro di interessi. I vincoli che la creazione della società aveva annodati fra loro, anziché sciogliersi, si riallacceranno ad una più vasta trama e dei due o più sistemi sociali ne risulterà uno solo»[151]. Da questa considerazione, secondo l’autorevole scrittore, derivavano rispetto alla figura dell’estinzione delle società una notevole quantità di differenze: «1° che il contratto sociale, lungi dal risolversi, continuerà ad esistere, ed anzi si estenderà ad una più larga cerchia di soci, unificando le comunioni sociali degli enti fusi e riannodando i vincoli contrattuali dei soci alla più vasta comunione sociale che ne deriverà; 2° che in conseguenza, nessuno dei soci potrà chiedere il rimborso della sua quota […] tranne nei casi e nei modi in cui sia ammissibile il diritto di recesso; 3° che la liquidazione dell’attivo sociale sarebbe un non senso, mancando il fine di disintegrazione del patrimonio sociale e di distribuzione dell’attivo netto fra i soci; 4° che i creditori i cui crediti non siano ancor scaduti, non potranno chiedere di essere soddisfatti prima della fusione; 5° che non si determina nemmeno a favore dei terzi il sorgere di diritti la cui nascita deve seguire alla messa in liquidazione della società […]; 6° che, non dovendo sciogliersi il vincolo sociale ma riannodarsi ad un nuovo sistema sociale, non occorrerà arrestare le operazioni sociali, ma occorrerà normalmente […] tenere invece vivo l’avviamento dell’azienda sociale per compiere la fusione fra organismi in piena vitalità non in istato di disintegrazione e disfacimento; 7° che persisterà il divieto dell’illiceità di concorrenza per i soci in nome collettivo ed accomandatari […] e permarranno in genere tutti quegli obblighi positivi o negativi che i soci per contratto o per legge si sono assunti nel periodo di funzionamento della società; 8° che i creditori pregiudicati nei loro legittimi interessi potranno impedirne l’attuazione mercé l’esercizio del loro diritto di opposizione»[152]. «Esclusa la liberazione dei soci dal vincolo sociale», scriveva il Soprano, «lo scioglimento può intendersi come estinzione dell’ente che va a fondersi»[153]. «Ma», aggiungeva, «anche su questo punto bisogna intendersi. L’estinzione dell’ente sociale come disintegrazione del suo patrimonio e distribuzione del ricavato netto tra i soci è in contrasto con le finalità della fusione […]. Distrutto l’organismo sociale nulla più vi sarebbe da fondere. Ma allora in che senso dovrà intendersi che la società incorporata e le società fuse cessano di esistere? Sarà allora da ritenere che è la soggettività giuridica della società incorporata o fusa che si spegne? […]»[154]. «Gli effetti del venir meno dell’ordinamento delle società cessanti», diceva Enrico Soprano a conclusione del suo discorso, «potranno vedersi attraverso la perdita della ditta, della sede, della specie, dell’oggetto sociale, dei suoi organi essenziali, ecc., mentre il patrimonio si compenetra e trasferisce nell’altro ente che ne diverrà titolare di fronte ai terzi, debitori e creditori. Cesserà il mandato agli organi sociali (amministratori, sindaci, liquidatori); la ditta non potrà più formare oggetto di tutela legale; i diritti degli azionisti nella società venuta meno cesseranno per dar luogo ai nuovi diritti nella società risultante […]»[155].
La più raffinata sistemazione concettuale degli effetti della fusione si deve però all’opera di Giuseppe Ferri. E’ all’illustre Maestro che si deve l’affermazione più chiara nell’ambito della nostra esperienza giuridica – costruzione poi recepita anche dal diritto societario europeo (art. 105, par. 1, lett. c), dir. UE 2017/1132) – che lo scioglimento delle società partecipanti alla fusione, diversamente da quanto accade nella successione mortis causa, dove la morte naturale dell’individuo costituisce l’antecedente logico necessario (=fattispecie) della successione ereditaria[156], non può considerarsi un presupposto della fusione e tantomeno si configura come presupposto della trasmissione del patrimonio delle società partecipanti, ma costituisce un effetto giuridico del negozio di fusione posto sullo stesso piano degli altri effetti dell’operazione[157]; nonché l’idea che la fusione «non è operazione di liquidazione, ma una modifica statutaria [in quanto] non mira alla realizzazione dei rapporti sociali, ma alla trasformazione di tali rapporti»[158], con la precisazione che la «modificazione del vincolo sociale tipica della fusione consiste in ciò che i soci di una società entrano a far parte di una società diversa» e che «il vincolo sociale continua ma continua in un organismo sociale diverso» senza dissoluzione delle singole collettività organizzate[159]. Sempre al Ferri si deve poi l’intuizione che la «trasmissione del patrimonio [delle società partecipanti], da un lato, apprestando il contenuto patrimoniale alla partecipazione [del gruppo dei soci] ad altra società […], rende operativa la compenetrazione dei gruppi sociali; d’altra parte, […] svuotando la società trasmittente del suo contenuto patrimoniale, opera l’estinzione di questa»[160] «come distinto soggetto di diritto»[161].
Alla stregua dell’illustre tradizione dottrinale della prima metà del novecento, nata dal confronto tra le esperienze dei principali paesi di cultura giuridica continentale, il valore esplicativo dell’espressione «scioglimento senza liquidazione» contenuta nel moderno diritto societario europeo può dunque essere colto in ciò che la fusione delle società – al contrario della vicenda estintiva governata dal diritto nazionale la quale s’incentra sulla liquidazione e sulla divisione tra i soci del patrimonio sociale – non importa la definizione (=estinzione) dei rapporti sociali: la fusione in altri termini non è diretta e non presuppone in alcun modo né la definizione dei rapporti che le società partecipanti avevano posto in essere coi terzi, né la definizione dei rapporti che il contratto sociale aveva indotto tra i soci, cosicché – deve inferirsene – gli uni e gli altri sono destinati a proseguire nella struttura organizzativa risultante dall’operazione di integrazione[162].
La fusione non è diretta alla definizione (=estinzione) dei rapporti con i terzi poiché, come avvertiva il Navarrini, è da sempre apparso in contraddizione con la funzione economica della fusione (=l’integrazione in un organismo giuridico unitario di una pluralità di imprese giuridicamente indipendenti in vista del rafforzamento delle rispettive basi patrimoniali e della crescita del loro potere di mercato) lo svolgimento delle operazioni necessarie a raggiungere la conclusione degli affari pendenti, alla conversione in denaro del patrimonio sociale e al pagamento dei creditori sociali. La fusione non determina, inoltre, la definizione (=estinzione) dei rapporti di partecipazione dei soci per il motivo che non è concepibile, senza pregiudicare il diritto di preferenza dei creditori sul patrimonio sociale, che, per il tramite dell’operazione di merger, i soci siano liberati dall’obbligo di eseguire i conferimenti o siano abilitati a sopprimere il vincolo di destinazione impresso al patrimonio della società dividendosi i beni sociali. Accettata la premessa che dopo la fusione i soci delle società fuse restano obbligati ad eseguire i conferimenti promessi e a mantenere ferma la destinazione dei beni sociali all’esercizio dell’impresa, ne segue d’altro canto che va individuato il titolo su cui si basano gli obblighi dei soci. Escluso il potere del gruppo organizzato di imporre l’obbligo di nuovi conferimenti per la partecipazione alla società incorporante o risultante dalla fusione, tale titolo – come indicavano Enrico Soprano e Giuseppe Ferri negli anni ’30 del novecento – non può che rintracciarsi nella permanenza del vincolo creato al riguardo con l’atto costitutivo delle società partecipanti[163].
Tradotta in termini più espliciti la formula «scioglimento senza liquidazione» deve allora essere letta nel senso che con la fusione non si estingue ma resta pienamente vincolante, sia pure modificato con gli adattamenti resi necessari dall’integrazione con gli altri gruppi sociali coinvolti nel merger, l’atto costitutivo della società, cioè il programma avente per oggetto l’esercizio in comune di un’attività di impresa per dividerne gli utili; che con la fusione non cessano di esistere ma proseguono, modificati per soddisfare le esigenze collegate all’allargamento della compagine dei soci, i rapporti creati con il contratto sociale e che nel negozio costitutivo hanno il loro titolo; non vengono meno, ma continuano a sussistere, adattati per consentire l’adesione ad una collettività allargata, i diritti e gli obblighi delle parti, cioè le situazioni giuridiche amministrative e patrimoniali che costituiscono il contenuto delle partecipazioni sociali; non si estingue ma permane, nel più ampio contesto dell’organizzazione risultante dalla combinazione societaria, la posizione di alterità in cui è posto il gruppo organizzato rispetto ai singoli soci; non vengono meno ma permangono l’autonomia patrimoniale che era propria delle società partecipanti (i.e. la reciproca separazione del patrimonio del gruppo da quello dei soci uti singuli nonché il diritto di preferenza dei creditori sociali rispetto ai creditori personali dei soci) e la destinazione dei loro beni allo svolgimento dell’attività economica comune.
Appurato che «scioglimento senza liquidazione» delle società partecipanti alla fusione non vuol dire affatto nella tradizione giuridica continentale dissoluzione dell’atto costitutivo delle società e fine dei rapporti sociali, concorre poi a illuminare in termini positivi il fondamento e l’estensione degli effetti estintivi della fusione la considerazione degli ulteriori effetti giuridici – e delle reciproche relazioni – che il diritto societario europeo ricollega ipso jure all’operazione di merger; effetti che si compendiano a) nel trasferimento dell’intero patrimonio attivo e passivo della società incorporata alla società incorporante (o dalle società partecipanti alla società risultante dalla fusione); e b) nell’unificazione delle compagini sociali delle singole società coinvolte («gli azionisti della società incorporata divengono azionisti della società incorporante»).
Riflesso logico inevitabile del passaggio a favore dell’incorporante (o alla società risultante dalla fusione) dell’universum jus, cioè del complesso dei rapporti e delle situazioni giuridiche che facevano capo alle società partecipanti, e della contestuale unificazione delle compagini sociali è, infatti, a ben vedere, la perdita per i singoli gruppi sociali dell’autonoma capacità giuridica di cui disponevano prima dell’integrazione. Per un verso, infatti, la trasmissione dell’intero patrimonio dall’incorporata all’incorporante o dalle società partecipanti alla società nuova (o, se si preferisce, l’assorbimento del patrimonio delle società che si fondono) comporta, come scriveva Umberto Navarrini, la rinuncia dei soci delle società partecipanti al merger a dirigere per il futuro in modo indipendente il patrimonio sociale alla speculazione commerciale[164]; sottende, cioè, la rinuncia di ciascun gruppo sociale, in vista dell’integrazione del substrato personale e patrimoniale delle società partecipanti, a porre in essere autonomamente atti giuridici e a provocare la costituzione di effetti giuridici imputabili al patrimonio del gruppo; implica, detto in altri termini, la rinuncia a rivelare nel mondo giuridico e fare in esso valere gli interessi autonomi della singola collettività sociale[165]. Per altro verso, l’integrazione dei gruppi sociali e l’accorpamento delle strutture organizzative delle società partecipanti (i.e. degli uffici e dei relativi processi deliberativi, amministrativi, dichiarativi, di controllo, ecc.) rende inutile un’autonoma organizzazione di gruppo deputata alla produzione di nuovi atti giuridici sia a rilievo interno (fra i soci) sia a rilievo esterno (nei confronti dei terzi)[166]: determina perciò l’estinzione degli organi delle società partecipanti che rivestono la forma di società di capitali, e più in generale la cessazione dei meccanismi di produzione e imputazione metaindividuale di atti ed effetti giuridici che sono caratteristici di tutti i tipi di società[167].
Nella perdita di un’autonoma capacità, sostanziale e processuale, delle singole società partecipanti e, di riflesso, nell’estinzione dei meccanismi di produzione e imputazione di atti ed effetti giuridici dei singoli gruppi organizzati, può identificarsi in conclusione l’effetto estintivo proprio della fusione[168], come confermato dall’art. 105, par. 3, dir. 2017/1132, il quale, disponendo per l’eventualità che gli Stati membri richiedano «formalità particolari ai fini dell’opponibilità ai terzi del trasferimento di taluni beni, diritti e obblighi apportati dalla società incorporata», per un verso, indica che competente a provvedere a tali formalità è la stessa società incorporante; dall’altro, autorizza gli Stati membri a permettere «alla società incorporata di continuare a procedere a tali formalità durante un periodo limitato che non può essere fissato, salvo casi eccezionali, a più di sei mesi dopo la data in cui la fusione ha efficacia». E allo stesso modo va interpretata la norma di diritto nazionale che, al termine del procedimento di fusione, pone in capo alla società che risulta dalla fusione o alla società incorporante, che li assume, tutti i diritti, gli obblighi e i rapporti, anche processuali, delle società partecipanti (art. 2504-bis, comma 1, cod. civ.), perciò stesso svuotandone la capacità giuridica. Mentre ha valore puramente descrittivo, una volta chiarito che l’aspetto estintivo della fusione non ha alcuna incidenza sull’alterità soggettiva tra il gruppo organizzato e i soci uti singoli né sull’autonomia patrimoniale del gruppo e sulla destinazione dei beni all’esercizio dell’impresa, dire che la fusione estingue la società come soggetto di diritto[169], oppure ne estingue la soggettività giuridica[170]: così come ha valore soltanto descrittivo l’affermazione che la fusione comporta la perdita dell’individualità delle singole società[171], o quella secondo cui la fusione determina la cessazione della veste giuridica originaria dei gruppi sociali che assumono una veste giuridica diversa[172]; o, ancora, l’idea che dopo la fusione non esiste più la personalità giuridica della società fusa nella sua individualità, ma esiste come parte integrante della persona giuridica con cui si fonde[173].
Ora, quale che sia il modo preferito per descrivere la vicenda, se si raffronta il complesso degli effetti estintivi che si ricollegano alla cancellazione della società dal registro delle imprese al termine delle operazioni di liquidazione (artt. 2312 e 2495 cod. civ.) – se si guarda cioè alla situazione finale che nel nostro sistema si qualifica con sicurezza come «estinzione della società» – con la situazione finale prodotta dall’iscrizione dell’atto di fusione balza subito evidente agli occhi questa conclusione: il divario tra le due situazioni appare incolmabile e il loro accostamento, operato comunemente dalla nostra giurisprudenza di legittimità, suscita l’impressione di un’operazione intellettuale completamente arbitraria.
La fusione, infatti, diversamente dall’estinzione della società in liquidazione, non è diretta all’eliminazione del contratto sociale, non determina la cessazione dei rapporti tra i soci e tra i soci e il gruppo organizzato; non importa lo scioglimento del vincolo di destinazione del patrimonio sociale.
Può affermarsi che effetti parzialmente comuni all’estinzione delle società e alla fusione sono il dissolvimento dell’organizzazione di gruppo e la fine della soggettività giuridica: è però bene precisare, per evitare fraintendimenti al riguardo, che la fusione comporta il venir meno dell’organizzazione autonoma delle società partecipanti per via dell’accorpamento degli organi, delle competenze e dei relativi processi decisionali e dichiarativi, ma non implica affatto la fine dell’organizzazione di gruppo[174]: i soci delle società partecipanti restano infatti vincolati ai meccanismi di produzione dell’attività comune propri dell’entità risultante dal merger (ad es. restano assoggettati al principio di maggioranza, al metodo collegiale, alla diverse modalità di partecipazione alla gestione dell’impresa che caratterizzano i singoli tipi di società, ecc.); così come deve precisarsi che la fusione pone fine all’autonoma soggettività giuridica dei singoli gruppi sociali, intesa comecapacità del singolo gruppo di esprimere e far valere nel traffico giuridico i propri interessi in modo autonomo dalle altre società coinvolte nel merger[175]; non determina però la fine di ogni capacità del gruppo sociale né la fine della condizione di alterità del gruppo organizzato rispetto ai soci uti singuli.
Se tutto ciò è vero risulta allora dimostrato che la fusione, diversamente dall’estinzione delle società in liquidazione regolata dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ., non implica affatto il ritiro dalla vita commerciale delle società partecipanti poiché nell’integrazione giuridica delle collettività organizzate e dei patrimoni delle singole società partecipanti al merger resta fermo lo scopo dell’esercizio in comune dell’attività economica con i conferimenti promessi dai soci nei rispettivi atti di costituzione e prosegue senza mai interrompersi, con la continuazione di tutti i rapporti giuridici interni ed esterni delle società partecipanti (art. 2504-bis cod. civ.), l’attività d’impresa che del complesso di quei rapporti è formata[176]: con la fusione i soci non attuano un mutamento d’indirizzo delle loro attività, non realizzano un’operazione di disinvestimento né attribuiscono al patrimonio sociale una destinazione diversa dall’esercizio di un’impresa commerciale. Ne deriva che ogni accostamento tra la fusione e il fatto dell’estinzione della società risulta illegittimo e che la fusione non vale a configurare i presupposti per l’applicazione dell’art. 33 CCII in quanto gli «effetti estintivi» della fusione non presentano alcuna equivalenza con quelli che si producono in conseguenza della situazione finale prevista dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ..
Ne consegue altresì che in modo pienamente coerente con l’impostazione del diritto societario europeo il legislatore nazionale ha eliminato ogni riferimento al concetto di “estinzione della società” nell’ambito del procedimento di fusione, scongiurando così ogni possibile confusione concettuale e terminologica tra l’evento che, per il diritto interno, segna la fine dell’operazione societaria per l’integrale esaurimento dei suoi effetti – l’estinzione della società determinata dalla cancellazione dal registro delle imprese qual è regolata per il diritto nazionale dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ. – e il fenomeno completamente diverso della fusione; e che in maniera altrettanto coerente il legislatore nazionale ha evitato di prescrivere la cancellazione delle società partecipanti dal registro delle imprese, considerando la pubblicità dell’atto di fusione nell’ufficio del registro delle imprese dei luoghi ove è posta la sede delle società partecipanti, della società incorporante o della società che risulta dalla fusione, adempimento necessario e sufficiente alla produzione di tutti gli effetti del merger e all’informazione dei terzi che entrano in contatto con i gruppi sociali unificati.
Va da sé, infine, che gli Stati membri non sono abilitati a regolare discrezionalmente le conseguenze giuridiche della cessazione (della capacità giuridica) delle società partecipanti negando o ignorando a proprio piacimento gli effetti essenziali prodotti dalla fusione secondo il diritto societario europeo. Risulta pertanto in manifesto contrasto con la disciplina di armonizzazione l’indirizzo della Corte di Cassazione che assoggetta al fallimento (liquidazione giudiziale) la società incorporata dopo l’attuazione della pubblicità della fusione: tale indirizzo, infatti, da un lato, presupponendo la permanenza della qualità di «debitore» in capo alla società incorporata nonostante la pubblicità dell’incorporazione, finisce per disconoscere che attraverso la fusione si realizza, con rilevanza anche nei riguardi dei terzi, il trasferimento in favore dell’incorporante dell’intero patrimonio attivo e passivo dell’incorporata, la quale, dunque, cessa senz’altro di essere autonomamente obbligata all’adempimento nei confronti dei creditori; e, dall’altro, presupponendo l’attuale capacità sostanziale e processuale della incorporata, finisce per disconoscere che con l’integrazione dei patrimoni e dei gruppi sociali dell’incorporata e dell’incorporante, l’incorporata cessa di essere autonoma destinataria di imputazioni di atti ed effetti giuridici sostanziali e processuali.
9.- Accade talvolta – come si ricordava all’inizio di questo lavoro citando le parole di F. Ferrara sr. –che un caso giuridico dimostri sperimentalmente che una certa prospettiva teorica è errata o unilaterale, sgretolando l’edificio concettuale costruito per via d’astrazioni.
Al termine dell’indagine può senz’altro confermarsi che la regula iuris del fallimento (liquidazione giudiziale) della società incorporata costruita dalla nostra giurisprudenza appartiene alla categoria dei nonsense upon stilts: essa, infatti, risulta completamente sfornita di basi nel diritto interno dell’insolvenza e viola scopertamente il diritto societario europeo.
L’opinione che la «società incorporata, qualora insolvente, è assoggettabile a fallimento, ai sensi dell’art. 10 l. fall., entro un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese» si pone anzitutto in grave contraddizione con il diritto nazionale in quanto autorizza l’apertura della liquidazione giudiziale senza l’accertamento dell’insolvenza attuale del «debitore», cioè, dopo l’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese, della società incorporante (i.e. dei gruppi sociali unificati per effetto della fusione), ormai succeduta nell’universum jus dell’incorporata, da valutarsi tenendo conto della situazione economica, patrimoniale e finanziaria risultante dalla integrazione delle società coinvolte nel merger.
Gli antecedenti storici dell’art. 10 l. fall. e oggi dell’art. 33 CCII dimostrano inoltre in modo inequivocabile che presupposto dell’applicazione di quelle norme è la cessazione dell’attività d’impresa (=il ritiro dell’imprenditore dalla vita commerciale); evento che, per quanto riguarda le imprese organizzate in forma societaria, può realizzarsi alternativamente con la modificazione dell’oggetto sociale indicato nell’atto costitutivo – anche all’esito di operazioni di trasformazione, fusione o scissione – e con l’estinzione della società provocata dalla cancellazione della società dal registro delle imprese al termine del procedimento di liquidazione: così come le società di tipo commerciale acquistano la qualità di imprenditore per il fatto dell’iscrizione nel registro delle imprese di un atto costitutivo con cui si programma l’esercizio di un’attività commerciale così esse perdono la qualifica di imprenditore al momento della cancellazione o come conseguenza dell’iscrizione di una modifica statutaria che importi il venir meno dell’oggetto commerciale.
La vicenda della fusione – salvo che sia disposta la contestuale modificazione dell’oggetto sociale delle società partecipanti con il programma di svolgere un’attività non commerciale come consentito dall’art. 2249 cod. civ. – non appare tuttavia riconducibile al concetto di diritto interno della «estinzione della società» nel significato desumibile dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ.. Da un lato, infatti, diversamente dalla fattispecie dell’estinzione della società in liquidazione – che produce la ‘morte’ dell’organismo societario e la sua uscita dal mercato – la fusione si configura, per il diritto societario europeo, alla stregua di uno «scioglimento senza liquidazione»: con la fusione si realizza, invero, una strategia di integrazione delle società partecipanti al merger che non postula la dissoluzione del patrimonio destinato all’esercizio dell’impresa e il ritiro dalla vita commerciale della società (cioè del gruppo sociale). La fusione presuppone al contrario la piena vitalità del vincolo di destinazione dei conferimenti all’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili; l’integrazione di due o più società – come si è cercato di dimostrare – comporta esclusivamente la perdita dell’autonoma capacità giuridica (e di riflesso la cessazione degli organi sociali) delle società che si fondono: come scriveva Ernesto Simonetto sessant’anni or sono «fondersi è [dunque] assai meno di estinguersi»[177]. Dall’altro lato, coerentemente con l’inquadramento della fusione tra le vicende evolutive (e non dissolutive) delle forme di esercizio dell’impresa è incontrastabilmente esclusa dalla legge la cancellazione dal registro delle imprese delle società partecipanti alla fusione, cioè la formalità pubblicitaria che pone irreversibilmente fine all’esistenza della società che ha esaurito la fase della liquidazione: ponendo fine anzitutto alla esistenza del contratto sociale e del rapporto sociale e, quindi, anche alla serie di effetti rappresentati dall’organizzazione di gruppo, dalla soggettività di gruppo e dall’autonomia patrimoniale di gruppo.
La regola di matrice giurisprudenziale che la società incorporata, qualora insolvente, è assoggettabile al fallimento, ai sensi dell’art. 10 l. fall. e oggi alla liquidazione giudiziale ai sensi dell’art. 33 CCII, entro un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, si pone poi apertamente in contrasto anche con il diritto societario europeo (art. 105 dir. 2017/1132) poiché finisce per negare, senza alcun fondamento normativo, gli effetti essenziali di una fusione che si è validamente perfezionata secondo la disciplina di armonizzazione dell’Unione: per un verso, infatti, l’applicazione di quella regola sottintende il disconoscimento del passaggio dell’universum jus dall’incorporata all’incorporata e presuppone illegittimamente che l’incorporata conservi nei confronti dei propri creditori la qualità di «debitore» tenuto all’adempimento; per altro verso, la soggezione al fallimento dell’incorporata equivale ad affermare l’esistenza di un’autonoma capacità giuridica della società dopo l’incorporazione, là dove la fusione comporta senz’altro, secondo la disciplina europea, la perdita di autonomia delle società partecipanti. (v. art. 105, par. 3, dir. 2017/1032).
La prova dell’inconsistenza della regula iuris sulla liquidazione giudiziale della società incorporata finisce peraltro per sgretolare dalle fondamenta l’intera costruzione giuridica della fusione edificata «per via d’astrazioni» dalla nostra giurisprudenza: alla base di quella costruzione sta, infatti, più o meno consapevolmente, l’idea di fondo – comune alle più antiche concezioni elaborate nel XIX secolo allorché furono adottate in Europa le prime leggi dedicate al nostro istituto – che la fusione si risolva in una vicenda corrispondente alla successione mortis causa[178]. Si continua così da decenni a scambiare per ‘funerale’ quello che invece è un ‘matrimonio’ tra le società partecipanti, un atto della loro vita attiva[179], travisando completamente la realtà del fenomeno[180], identificabile nella prosecuzione di tutti i rapporti giuridici anteriori alla fusione, inclusi i rapporti di partecipazione dei soci all’attività economica comune (ex art. 2504-bis cod. civ.). Senonché, come si è da tempo chiarito il porre al centro del fenomeno la vicenda estintiva determina «una completa inversione dei principi legislativi e signific[a] precludersi ogni possibilità di cogliere il concetto esatto di fusione»[181]. Il disegno degli effetti della fusione contenuto nell’art. 105 dir. 2017/1132, attesta che la cosiddetta “estinzione” (cessazione) delle società che si fondono, infatti, non costituisce, diversamente da quel che accade rispetto alla morte della persona fisica nella successione ereditaria, il presupposto del passaggio dell’universum jus, ma rappresenta un effetto giuridico (o, meglio, un complesso di effetti giuridici) del contratto di fusione, rispondente all’intento pratico delle società partecipanti di integrare le rispettive organizzazioni; effetto che si pone accanto alla successione universale nei rapporti giuridici delle società partecipanti e all’unificazione delle compagini sociali: la ‘cessazione’ della società incorporata in altre parole non è causa della successione dell’incorporante nel patrimonio della incorporata; non può dirsi che l’avvenimento della cessazione della incorporata produce la successione dell’incorporante; o che in conseguenza della cessazione dell’incorporata si ha la successione; tanto meno può sostenersi che la cessazione dell’incorporata funziona rispetto all’effetto del succedere come il suo fondamento e la sua ragion d’essere[182]. Inoltre, l’effetto della successione universale dell’incorporante nel patrimonio dell’incorporata non risponde, come accade nella successione ereditaria, alla «necessità di provvedere alla sistemazione della posizione giuridica di un soggetto […] defunto»[183] ma ha la funzione di apprestare il contenuto patrimoniale (apporto) della partecipazione alla società incorporante del gruppo sociale dell’incorporata[184]: essenza dell’operazione di fusione è infatti la successione della società incorporante nell’intero patrimonio di una o più società incorporate con «attribuzione agli azionisti della società o delle società incorporate di azioni della società incorporante» (artt. 89 e 90 dir. 2017/1132) [185].
Se la ‘estinzione’ (i.e. la cessazione della autonoma capacità giuridica) della società incorporata, come si è da tempo dimostrato, diversamente dalla morte della persona fisica nella successione ereditaria, non è causa della successione della incorporante nell’universum jus, non ne costituisce, cioè, il presupposto né la ragion d’essere, risulta allora una vera e propria contraddizione in termini parlare, come fa ancora la nostra giurisprudenza[186], della successione che si realizza nella fusione delle società alla stregua di una vicenda corrispondente alla successione per causa di morte[187]: si confonde così, a ben guardare, la speciale figura della successione fondata sull’avvenimento della morte dell’individuo con il concetto di successione in genere[188], con cui si indica il subentrare di un soggetto giuridico in luogo di un altro soggetto in uno o più rapporti giuridici particolari o anche nella universalità dei suoi rapporti giuridici[189]; non ci si avvede però, così facendo, che, a differenza di quanto accade per la universalità della successione da fusione regolata espressamente dalla legge (ex art. 2504-bis, comma 1, cod. civ.), la universalità della successione per causa di morte, il passaggio, cioè, di tutti i rapporti, attivi e passivi, del defunto in capo all’erede e la conseguente compenetrazione del patrimonio del defunto e di quello dell’erede, con l’unificazione della titolarità dei rapporti in testa a quest’ultimo (c.d. confusione dei patrimoni) e la continuazione dei rapporti giuridici del defunto, salvo estinzione di quelli che sono intrasmissibili, non è descritta direttamente dalla legge ma si trae per astrazione dal concetto dottrinale di successione nei diritti e negli obblighi e solo indirettamente dalla disciplina legislativa dell’eredità[190]. Non si avverte poi che, in presenza di una specifica disciplina legislativa della successione universale da fusione (ex art. 2504-bis), solo con molta cautela possono ricavarsi analogicamente argomenti dalla speciale disciplina della successione universale per causa di morte e che in ogni caso occorre distinguere tra regole della successione ereditaria che possono essere considerate espressive dei principi del fenomeno successorio in genere, suscettibili di impiego analogico, e regole che hanno per presupposto la ‘morte’ dell’individuo, a loro volta senz’altro inapplicabili alla successione da fusione per mancanza di quell’antecedente[191].
Si finisce per trascurare che il contratto di fusione tra società non è un negozio mortis causa: la sua funzione non sta nell’attuare la disposizione dei beni e dei rapporti delle società partecipanti al momento della ‘morte’ e per la ‘morte’ delle società; la successione universale disposta dal contratto di fusione non è una successione che, fondandosi sull’estinzione ed avvenendo all’estinzione e per l’estinzione della società, può considerarsi un succedere mortis causa[192]. La fusione, come si è troppe volte ripetuto, non importa la dissoluzione del vincolo sociale, ma presuppone la prosecuzione del rapporto e la continuazione dell’attività economica dei gruppi sociali partecipanti entro una struttura organizzativa unitaria; essa opera perciò, come è stato chiarito da tempo, una successione universale tra vivi[193] con conseguente inapplicabilità delle norme che presuppongono la morte della persona fisica o la morte dell’imprenditore individuale (ad es. artt. 979, comma 1, 1330, 1674 e 1722 cod. civ., 300 c.p.c.) [194].
[1] F. Ferrara sr., Trattato di diritto civile italiano, Roma,1920, 249.
[2] F. d’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, in Studi in memoria di Tullio Ascarelli, Milano, 1968, successivamente ripubblicato in Persone giuridiche e analisi del linguaggio, Padova, 1989, 36-37 da cui si cita.
[3] Un’eco di quelle tendenze si trova in N. Coviello, Manuale di diritto civile italiano, Milano, 1915, 235-237, il quale a proposito della sorte del patrimonio della persona giuridica estinta individuava iure successionis nello Stato, per analogia con la morte della persona fisica priva di altri successibili, l’ultimo successore degli enti di diritto privato, in mancanza di ‘eredi’ designati dalla legge o di diverse indicazioni nell’atto costitutivo o nell’atto di fondazione. Del problema della capacità di testare delle persone giuridiche e dell’applicazione delle norme in materia di «successione mortis causa» nell’ipotesi di estinzione della persona giuridica discutevano ancora M. Allara, Il testamento, Padova, 1936, 73 ss. e L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte. Parte generale, Napoli, 1955, 278 ss. ove altri riferimenti.
[4] Un’esposizione accurata delle diverse ricostruzioni dell’istituto formulate dalla dottrina italiana ed europea tra la fine dell’ottocento e gli anni ’30 del novecento si trova in G. Ferri, La fusione delle società commerciali, Roma, 1936, 12 ss. e 32. Per il rilievo che la natura della fusione «era vista sotto un angolo visuale tutto particolare e individuata in base ai principi generali in quanto la legge si occupava scarsamente della disciplina della fusione stessa» e si doveva perciò procedere «per accostamento analogico» «alla successione a titolo universale [per causa di morte] in quanto vi era l’estinzione di un soggetto […] mentre tutti i rapporti attivi e passivi confluivano in un diverso patrimonio prefissato come patrimonio successore», E. Simonetto, Delle società. Trasformazione e fusione delle società. Società costituite all’estero od operanti all’estero, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1965, 99-100.
[5]L’assimilazione della fusione alla successione per causa di morte è stata di recente rivitalizzata da Cass., sez. un., 30 luglio 2021, n. 21970 p. 34-35 dove si legge appunto che la fusione «realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa». Nello stesso senso tra le tante, Cass. sez. I civ., 18 maggio 2023, n. 13685, Cass. sez. I civ., 12 novembre 2019, n. 29256, Cass. sez. I civ., 11 novembre 2015, n. 22998, Cass. sez. I civ., 19 maggio 2011, n. 11059, Cass. sez. I civ., 20 settembre 2010, n. 19847, Cass. sez. I civ., 16 febbraio 2007, n. 3695, Cass. sez. I civ., 19 ottobre 2006, n. 22489, Cass. sez. I civ., 25 gennaio 2006, n. 1413, Cass. sez. I civ., 6 maggio 2005, n. 9432, Cass. sez. II civ., 25 novembre 2004 n. 22236, Cass. sez. I civ., 15 giugno 2004 n. 11269, Cass. sez. III civ., 16 gennaio 2004 n. 554, Cass. sez. I civ., 11 aprile 2003 n. 5716, Cass. sez. I civ., 2 aprile 2002 n. 4679, Cass. sez. I civ., 22 giugno 1999 n. 6298, Cass. sez. I civ., 22 settembre 1997 n. 9349.
[6] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 12 ss.
[7] L’equivoco accostamento tra gli effetti estintivi del negozio di fusione e l’estinzione della società in liquidazione si manifesta ripetutamente in Cass., sez. un., 30 luglio 2021, cit. e nelle sentenze della Corte che saranno indicate in seguito.
[8] Per l’affermazione che la fusione è atto di vita e di vitalità e non atto a causa di morte E. Simonetto, Delle società. Trasformazione e fusione delle società. Società costituite all’estero od operanti all’estero, cit.,105; v. anche nella manualistica più autorevole G. Cottino, Diritto commerciale, v. 1, t. 2, Padova, 1994, 753, per il rilievo che la fusione è fenomeno «di concentrazione, di crescita, di vita; e non di morte» che passa «per il momento formale dell’estinzione (ma non, significativamente, della liquidazione) solo perché non può sopravvivere come entità giuridica a sé stante […] una società la cui azienda ed il cui patrimonio si sono compenetrati con quelli di un’altra, sicché di due o più organismi finanziari, produttivi o di scambio se ne è fatto uno solo».
[9] C. Vivante, Le società commerciali, inTrattato di diritto commerciale, Milano, 1928, vol. II, 474, il quale nell’illustrare gli effetti della fusione scriveva (p. 480): «Divenuta operativa la fusione, la società che si fonde cessa di esistere, perde la sua personalità giuridica, il suo nome, il suo patrimonio, i suoi amministratori; la nuova società ne piglia il posto come un successore a titolo universale. La proprietà e il possesso di tutti i beni che già appartennero alla società estinta passano nell’altra: mortuus facit vivum possessorem […]: il trasferimento del patrimonio (universitas juris) produce il trasferimento di tutti i crediti che lo compongono e delle loro garanzie mobiliari e immobiliari. Insieme all’attivo passano nella società superstite i debiti che ne sono l’inseparabile compagnia […]. La società superstite diviene debitrice in proprio come continuatrice della società estinta, e quindi risponde dei debiti con tutto il suo, anche oltre il valore dell’azienda trasferita nel suo patrimonio».
[10] Nel vigore del codice di commercio del 1882 vi fu sostanziale accordo tra gli scrittori sull’efficacia estintiva della fusione, mentre assai incerto fu l’inquadramento complessivo dell’istituto nel quale l’effetto estintivo si collocava: oltre a C. Vivante, Le società commerciali, cit.; A. Marghieri, Delle società e delle associazioni commerciali, in Il codice di commercio commentato, a cura di Ascoli, Bolaffio, Caluci, Cuzzeri, Marghieri, Mortara, Supino, Tartufari, Vivante,Verona, 1904, vol. III, 405 ss.; U. Navarrini, Delle società e delle associazioni commerciali, in Commentario al codice di commercio, a cura di Bensa, Bonelli, Brunetti, D’Amelio, Navarrini, Sraffa e altri,Milano, 1924, vol. II, 737 ss.; T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, Roma, 1933, 264-266; E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, Torino, 1934, 898 ss.; G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit..
[11] Si allude a U. Navarrini, Delle società e delle associazioni commerciali, cit., E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit. e a G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit.. E sulla traccia di questi scrittori immediatamente dopo l’entrata in vigore del codice civile, anche V. Salandra, Manuale di diritto commerciale, Bologna, 1949, Vol. 1, 402.
[12] Per una rassegna delle posizioni della dottrina nel vigore del codice civile, G.F. Campobasso, Diritto commerciale, Le società, Torino,2001,vol. 2, 574 ss., F. Ferrara jr.-F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1996, 893 ss., G. Cottino, Diritto commerciale, cit., 752-754 e F. Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1995, 760; in forma più estesa, N. Gasperoni, Trasformazione e fusione di società, Enc. dir., 1992, 1048 ss. e dopo la riforma del diritto societario, M. Perrino sub art. 2501, in Società di capitali, Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, vol. 3, Napoli, 2004, 1933-1936; C. Santagata, Le fusioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 2004, vol. 7, t. 1, 41 ss..
[13] Per la qualificazione della fusione come vicenda modificativa delle società partecipanti alla fusione, con accenti diversi, soprattutto C. Santagata, La fusione tra società, Napoli, 1964, id. C. Santagata., La fattispecie della fusione, in Fusioni e scissioni di società, a cura di A. Patroni-Griffi,Roma, 1995, 1 ss..e più di recente id. Le fusioni, in Trattato delle società per azioni, cit., E. Simonetto, Delle società. Trasformazione e fusione delle società. Società costituite all’estero od operanti all’estero, cit., 99 ss.e sulle orme di quegli autoriF. Galgano, Delle persone giuridiche,sempre in Commentario del codice civile, cit., 1967, 352 ss. e id. Diritto civile e commerciale, L’impresa e le società, Padova,vol. 3, t. 2, 1990, 479 ss; G. Tantini, Trasformazione e fusione delle società, Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, Padova, 1985, 282 ss.. Nella manualistica, F. Ferrara jr.-F. Corsi, Gli imprenditori e le società, cit., G. Cottino, Diritto commerciale, cit., F. Di Sabato, Manuale delle società, cit.
[14] Per la dottrina tradizionale, A. De Gregorio, Corso di dritto commerciale. Imprenditori e società, Roma, 1949, 672, A. Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1957, 377. Nella dottrina più recente, G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, a cura di C. Angelici e G.B. Ferri,Torino, 2023, 563 ss. e G.F. Campobasso, Diritto commerciale, Le società, cit., con ampie indicazioni; per riferimenti della letteratura più recente, D. Vattermoli, La fusione, in Diritto delle operazioni straordinarie, a cura di A. Nigro,Bologna,2022, 110-114.
[15] G. Ferri jr., In tema di fallimento di società totalmente scissa, Riv. dir. comm., 2020, 1 ss.
[16] Così G. Scognamiglio, Le scissioni, Trattato delle società per azioni, cit., 2004, vol. 7, t. 2, 125. Recentemente anche M.S. Spolidoro, Fallimento della società scissa nella scissione totale (con uno sguardo alla fusione), Le società, 2020, 680e D. Vattermoli, La fusione, cit., 111. Nella manualistica, P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Appunti di diritto commerciale, Milano, 2023, 687. Per il rilievo che, in tema di trasformazione, la classificazione dell’istituto come vicenda modificativa o, invece, come vicenda estintiva del soggetto trasformato con creazione di nuovo soggetto, si manifesta, in sé stessa, «non risolutiva per i fini dell'applicazione dell'art. 10 l. fall.» anche Cass. sez. I civ. 22 ottobre 2020 n. 23174, Cass., sez. I civ., 29 maggio 2020, n. 10302 e Cass., sez. I civ., 25 gennaio 2021, n. 1519.
[17] Per l’invito a trattare per quanto possibile i problemi che si annodano al fenomeno degli enti collettivi indipendentemente dalla nozione che si accolga della persona giuridica così da affrontare ciascuna questione «esclusivamente (o almeno principalmente) sulla base delle singole norme che alla sua soluzione concorrono, piuttosto che sulla base di un’automatica deduzione da un precostituito concetto di persona giuridica» G. Pellizzi., Soggettività giuridica, Enc. giur., Roma, 1994 e id. Saggi di diritto commerciale, 1988, 61 ss. da cui si cita.
[18] J. Bentham, Anarchical fallacies, being an examination of the Declaration of Rights issued during the French Revolution, London,1796, 8.
[19] Così già E. Simonetto, Delle società. Trasformazione e fusione delle società, cit.115, ove l’osservazione che si rivela «errata per eccesso […] quella pur perspicua dottrina [P. Greco, Le società nel sistema legislativo italiano. Lineamenti generali, Torino, 1959, 451] per la quale le società sopravvivono alla fusione conservando la loro individualità. Sotto tale teoria sta l’intuizione dell’eccessività inaccettabile della dottrina dell’estinzione-creazione, ma non si dà una spiegazione accettabile del fenomeno in quanto fondersi è assai meno di estinguersi […] ma è più che conservare inalterata la propria individualità».
[20] A. Nigro, Le operazioni straordinarie nelle procedure di composizione e soluzione delle crisi d’impresa, in Diritto delle operazioni straordinarie, cit., 420-421 il quale osserva che contrariamente a quanto mostra di ritenere la Cassazione «il meccanismo disegnato dall’art. 33 non ha e non può avere alcuna portata ‘demolitoria’ o ‘revocatoria’ degli effetti determinati dalla vicenda che ha portato alla cancellazione della società». E già G. Bonelli, Del fallimento, Commentario al codice di commercio, a cura di E. Bensa, A. Bruschettini, G. Bonelli, L. Franchi, P. Manfredi, U. Navarrini, C. Pagani. G. Segré, A. Sraffa,Milano, vol. VIII, t. 1,1923, 252-253.
[21] Così G. Scognamiglio, Le scissioni, Trattato delle società per azioni, cit., 299. Allo stato, appare piuttosto incerto se la forza del principio di stabilità degli effetti giuridici delle fusioni e delle scissioni, sancito dal diritto societario europeo, sia stata disattesa, in tutto o in parte, o se sia stata implicitamente confermata dalla sentenza della Corte di Giustizia UE del 30 gennaio 2020 nella causa C-384/18, nella parte in cui ha statuito che l’art. 19 della direttiva 82/891, il quale prevede il regime delle nullità della scissione, “deve essere interpretato nel senso che esso non osta all’introduzione, dopo la realizzazione di una scissione, da parte di creditori della società scissa, di un’azione pauliana che non intacchi la validità della scissione, ma soltanto consenta di rendere quest’ultima inopponibile a tali creditori”. Qui basterà osservare che la Corte di Giustizia è giunta a questa conclusione sul presupposto che “l’azione pauliana promossa dai convenuti nel procedimento principale, sul fondamento dell’articolo 2901 del codice civile, consente soltanto di rendere inopponibile nei loro confronti la scissione in questione e, in particolare, il trasferimento di taluni beni di cui all’atto di scissione. Tale azione non incide sulla validità della scissione, non comporta la sua scomparsa e non produce effetti nei confronti di tutti”. Conseguenze del tutto diverse è invece destinata a produrre potenzialmente la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o l’esercizio vittorioso dell’azione revocatoria ordinaria nella liquidazione giudiziale (art. 165 CCII): qui non si tratta, infatti, di rendere inopponibile ad alcuni creditori (i creditori che hanno promosso la revocatoria) il trasferimento di taluni beni in modo da consentirgli di proporre azioni esecutive o conservative sui beni trasferiti, quanto piuttosto di demolire con effetti reali (arg. ex art.171, comma 2, CCII) il passaggio dell’universum jus dall’incorporata all’incorporante, negando nel suo complesso uno degli effetti essenziali del merger – il trasferimento dell’intero patrimonio attivo e passivo rilevante tanto tra l’incorporata e l’incorporante quanto nei confronti dei terzi (art. 105, par. 1, lett. a) della dir. UE 2017/1132 – a favore della generalità dei creditori della incorporata. Per un rilievo analogo, D. Latella, La revocatoria della scissione societaria. Una lettura sistematica, Torino, 2022, 123 ss.
[22] D. Latella, La revocatoria della scissione societaria. Una lettura sistematica, cit., 89, per l’analogo rilievo che nella scissione «il potenziale pregiudizio [derivante dalla confusione dei patrimoni] riguarda tanto i creditori della società scissa – le cui ragioni di credito siano imputate per effetto della scissione alla beneficiaria –, tanto quelli della beneficiaria preesistente: entrambi i ceti creditori, infatti, possono subire un pregiudizio in ragione del concorso che si viene così ad instaurare a seguito della confusione dei patrimoniale prodottasi».
[23] A. Nigro, Le operazioni straordinarie nelle procedure di composizione, cit.. e F. Corsi, Fallimento post-incorporazione? Un abbaglio, Giur. comm. 2018, 296, ove il rilievo che «la tutela dei creditori (tanto dell’incorporante quanto dell’incorporanda) è affidata dall’art. 2503 alla possibilità di opporsi alla fusione (quanto invece va da sé che i creditori sia dell’erede che dell’imprenditore defunto non avrebbero mai avuto la possibilità di opporsi … al suo decesso». Nello stesso senso già G. Bonelli, Del fallimento, cit.. Cass., n. 23174/2020 e Cass., n. 1519/2021 obiettano che «lo strumento di tutela dei creditori dato dall’opposizione [...] non può in alcun modo considerarsi sostitutivo di quello rappresentato dal fallimento, posto che, per la categoria dei creditori anteriori alla trasformazione, [l’opposizione] appronta una tutela di intensità sensibilmente inferiore». Ora, è certo, come afferma la Cassazione, che lo strumento dell’opposizione dei creditori e quello del fallimento stanno su piani completamente diversi e producono effetti incomparabili; ed è certo altresì l’opposizione non possa considerarsi un rimedio sostitutivo né la mancata opposizione avere un’efficacia preclusiva dell’azione del creditore volta ad ottenere l’apertura della liquidazione giudiziale del patrimonio del debitore. Ciò che deve radicalmente contestarsi è invece che il principio dell’autonoma fallibilità della società incorporata possa essere giustificato razionalmente con la motivazione che «la fusione per incorporazione […] arreca un potenziale pregiudizio al ceto creditorio della società fusa, che si trova a concorrere sul patrimonio di quest’ultima unitamente ai creditori dell’incorporante», giacché il tipo di pregiudizio che, nel pensiero della Corte, dovrebbe fondare l’assoggettabilità dell’incorporata alla liquidazione giudiziale (il pericolo del concorso dei creditori dell’incorporante) certamente non rientra tra gli obiettivi di tutela della dichiarazione di apertura della liquidazione concorsuale e tanto meno tra gli scopi della disposizione dell’art. 10 l. fall. o dell’art. 33 CCII, bensì, appunto, costituisce il pregiudizio specifico per il quale sono apprestati il rimedio ex ante dell’opposizione ed eventualmente, laddove se ne riconosca l’ammissibilità, la misura ex post dell’azione revocatoria.
[24] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 181.
[25] C. Santagata, Le fusioni, cit., 45, nt. 111 e F. Corsi, Fallimento post-incorporazione? Un abbaglio, Giur. comm, cit., 296; v. pure Nigro, Le operazioni straordinarie nelle procedure di composizione, cit.. eG. Ferri jr., In tema di fallimento di società totalmente scissa, cit..
[26] La confusione tra l’estinzione della società regolata dagli artt. 2312 e 2495 cod. civ. e gli effetti estintivi prodotti dall’iscrizione dell’atto di fusione, basata sul falso presupposto che anche la società incorporata e le società partecipanti alla fusione siano cancellate dal registro delle imprese, è una costante della pronuncia resa da Cass., sez. un., 30 luglio 2021, n. 21970, cit. pp. 9, 19-20.
[27] Nello stesso senso in riferimento alla scissione già U. Belviso, La fattispecie della scissione, in Fusioni e scissioni di società, a cura di A. Patroni-Griffi,cit., 62-63.
[28] Sul principio di tipicità delle iscrizioni, C. Ibba, Il registro delle imprese, nel Trattato di diritto privato diretto da G. Iudica e P. Zatti,Milano, 2021, 60 ss. ove altre citazioni.
[29] Diversamente, a quanto pare, C. Ibba, Il registro delle imprese, cit., 244, il quale, dopo aver premesso che fra gli effetti ricollegati alla fusione «è da annoverare l’effetto estintivo della società incorporata (o fusa in senso stretto […])», afferma che pur in mancanza di una espressa previsione legislativa sarebbe doveroso provvedere alla cancellazione delle società estinte «onde evitare che l’incorporata continui a risultare esistente come tale – ossia come soggetto distinto dall’incorporante – anche a fusione avvenuta […]». Senonché, come si è detto sopra, se con tale affermazione si vuole annettere un effetto estintivo alla cancellazione (non prevista dalla legge), l’opinione è inaccettabile perché tutti gli effetti della fusione, costitutivi, modificativi ed estintivi che siano, si producono, per l’art. 2504-bis cod. civ., in virtù dell’iscrizione dell’atto di fusione. Da un lato non potrebbe quindi associarsi alla “cancellazione” delle società fuse alcun effetto giuridico diverso da quello già prodotto dall’iscrizione dell’atto di fusione e dall’altro non sarebbe neppure ravvisabile una lacuna normativa da colmare per via di integrazione analogica. Se invece si vuole intendere che l’iscrizione della cancellazione in questo caso dovrebbe rispondere ad un’istanza di completezza informativa o di pubblicità-notizia, si può replicare che non vi è alcuna esigenza di completezza informativa dei terzi da soddisfare dato che la funzione pubblicitaria del registro delle imprese è pienamente assolta portando a conoscenza del pubblico, appunto, l’avvenuta fusione di una società in un’altra in modo che i terzi sono messi in grado di trarre dall’iscrizione dell’atto di fusione ogni elemento necessario per determinarsi nei rapporti con la società incorporante (o nei rapporti con la società risultante dalla fusione).
[30] F. d’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, cit., 5-6.
[31] Si veda ancora Cass., sez. un., 30 luglio 2021, cit. la quale non soltanto ripetutamente allude alla cancellazione della società incorporata o delle società fuse (pp. 9, 19, 22, 31, 33, 34, 36), ma muove l’intera sua ricostruzione da pag. 9 sull’erroneo presupposto che «occorre pur ragionare se la società originaria - sia essa liquidata, incorporata o fusa - a séguito della cancellazione dal registro delle imprese si estingua come organizzazione e come soggetto dell'ordinamento giuridico, oppure no».
[32] L’accostamento con la fattispecie estintiva regolata dall’art. 2495 cod. civ. è costante e non appare limitato alla vicenda della fusione. A titolo solo esemplificativo, oltre Cass., sez. un., 30 luglio 2021, cit., Cass., sez. I civ., 21 febbraio 2020, n. 4737 in tema di fallimento di società scissa che «giudica rilevante […] la disposizione dell’art. 2506 c.c., comma 3 che avvia la società scissa – che stabilisce di non “continuare la propria attività” – allo “scioglimento” dell’ente: con cancellazione della società ex art. 2495 c.c., che ne viene così a conseguire, e correlata “estinzione” della medesima».
[33] G. Bonelli, Del fallimento, cit.,220, nt. 4.
[34] L’art. 437 cod. comm. francese modificato dalla legge del 1838 recitava al secondo e terzo comma: “La faillite d’un commerçant peute être déclarée après son dècès, lorsq’il est mort en état de cessation de paiemens. La dèclaration de la faillite ne pourra être, soit prononcéee d’office, soit demandée par les créanciers, que dans l’année qui suivra le déces”. L’art. 543 cod. comm. ’65 sulla falsariga di quello disponeva: “Il fallimento del commerciante può essere dichiarato dopo la sua morte, se prima di essa ebbe luogo la cessazione dei pagamenti. In tale caso la dichiarazione di fallimento non può essere domandala dai creditori né pronunziata d'uffizio, che entro l'anno dalla morte del fallito”.
[35] L. Borsari, Codice di commercio del Regno d’Italia Annotato, Torino, vol. I,1871, 762-763.
[36] G. Bonelli, Del fallimento, cit..
[37] A. Marghieri, I motivi del nuovo codice di commercio, Napoli, vol. I, par. 1,1885, verbale CXXX, tornata del 1° febbraio 1872, n. 765, 689-690.
[38] A. Marghieri, I motivi, cit.
[39] A. Marghieri, I motivi, cit.
[40] A. Marghieri, I motivi, cit..
[41] L’art. 690 cod. comm, venne così formulato: “Può essere dichiarato il fallimento del commerciante che siasi ritirato dal commercio, ma soltanto entro cinque anni da tale avvenimento, e purché la cessazione dei pagamenti abbia avuto luogo durante l’esercizio del commercio, od anche nell’anno successivo per debiti dipendenti dall’esercizio medesimo. Può anche essere dichiarato il fallimento dopo la morte del commerciante, ma soltanto entro un anno da tale avvenimento”.
[42] E. Vidari, I fallimenti. Trattazione sistematica secondo il nuovo codice di commercio, Milano, 1886, 14 ss.
[43] E. Vidari, I fallimenti. Trattazione sistematica, cit., 15.
[44] G. Bonelli, Del fallimento, cit., 225-226.
[45] G. Bonelli, Del fallimento, cit., 219 ss.
[46] G. Bonelli, Del fallimento, cit., 219 ss.
[47] G. Bonelli, Del fallimento, cit., 220.
[48] A. Ramella, Trattato del fallimento, Milano, 1915, vol. I, 76-77.
[49] U. Navarrini, Trattato di diritto fallimentare, Bologna, 1934, vol. I, 89-90.
[50] A. Brunetti, Diritto fallimentare italiano, Roma, 1932, 81.
[51] U. Pipia, Del fallimento, Torino, 1931, 169.
[52] U. Pipia, Del fallimento, cit.
[53] A. Candian, Il processo di fallimento, Padova, 1934, 104.
[54] Sulla portata dell’art. 8 cod. comm., C. Vivante, I commercianti, inTrattato di diritto commerciale, cit., I, 132 ss., L. Bolaffio, Disposizioni generali, in Il codice di commercio commentato, a cura di Ascoli, Bolaffio, e altri,cit., 1902, vol. I, 341 ss., e T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, cit., 53 ss. e 152 ss.
[55] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, Firenze, 1897, 1 ss.
[56] F. Carnelutti, Sul fallimento della società commerciale disciolta, Riv. dir. comm, 1913, 6 ss.
[57] Così, tra gli altri, G. Bonelli, Del Fallimento, cit., 227 ss. e U. Navarrini, Trattato di diritto fallimentare, cit., 91-92 sulle orme di C. Vivante, Le società commerciali, cit., 490 ss.. Rimase, invece, isolata la posizione di F. Carnelutti, Sul fallimento della società commerciale disciolta, cit., il quale, muovendo dalla premessa che «lo scioglimento operi l’estinzione del rapporto di società e la sostituzione a questo di un rapporto di comunione», faceva decorrere dallo scioglimento (anziché dalla chiusura della liquidazione) i termini stabiliti dall’art. 690 per il fallimento del commerciante che si era ritirato dalla professione.
[58] A. Brunetti, Diritto fallimentare italiano, cit., 90 ss.
[59] I termini della discussione che si era svolta durante i lavori preparatori sono riferiti da E. Cuzzeri, Del fallimento, in Il codice di commercio commentato, cit. vol. VIII, 1901, 73, nt. 4.
[60] Così, soprattutto, G. Bonelli, Del fallimento, cit., 227 ss. e A. Candian, Fallimento di società commerciale dopo la ripartizione dell’attivo, Riv. dir. comm., 1916, 648 ss. e Ancora sul fallimento di società disciolte, ivi, 1917, 498 ss.. Nello stesso senso anche E. Cuzzeri, Del fallimento, cit. e A. Ramella, Trattato del fallimento, cit., vol. II, 425-427.
[61] E’ la nota tesi di A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit. 85 ss. seguita da A. Brunetti, Diritto fallimentare italiano, cit., 90 ss. e da U. Navarrini, Trattato di diritto fallimentare, Bologna, cit. vol. I, 91-92 e vol. II, 231-234.
[62] F. Carnelutti, Sul fallimento della società commerciale disciolta, cit., 6 ss. che, come si è detto, tuttavia faceva decorrere il termine dell’art. 690 dalla data di scioglimento (anziché dal completamento della liquidazione) e per un cenno anche A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit. 90.
[63] G. Bonelli, Del fallimento, cit., 227 ss.
[64] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit.
[65] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit. e con lui Brunetti, Diritto fallimentare italiano, cit. e U. Navarrini, Trattato di diritto fallimentare, cit.
[66] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit.
[67] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit.
[68] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit.
[69] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit.
[70] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit.
[71] A. Sraffa, Il fallimento delle società commerciali, cit.
[72] U. Navarrini, Trattato di diritto fallimentare, vol. II, cit., 233-234
[73] U. Navarrini, Trattato di diritto fallimentare, vol. II, cit., 233-234
[74] Brunetti, Diritto fallimentare italiano, cit., 93-94.
[75] In questi termini si esprime la sentenza della Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319 e molti anni prima già F. Galgano,Le società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1972, 330, il quale pur giudicandolo non sorretto dal dettato legislativo indicava l’orientamento della giurisprudenza a tal punto consolidato presso i tribunali da potersi ormai considerare «diritto positivo».
[76] R. Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1969, 348 ss.. In realtà la posizione di questo scrittore non appare limpidissima poiché in altro passo egli afferma la possibilità di applicare l’art. 10 l.fall. nell’ipotesi di passività ignorate dai liquidatori ammettendo, quindi, che la liquidazione ‘effettiva’ della società poteva chiudersi nonostante la mancata definizione dei rapporti con i creditori.
[77] G. De Semo, Diritto fallimentare, Firenze, 1948, 75-76.
[78] U. Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, vol. I, 1961, 75 ss. il quale peraltro riteneva che chiusa la liquidazione e distribuito il patrimonio sociale nessuna azione, anche esecutiva, fosse più possibile nei confronti della società, dato che, con il completamento delle operazioni liquidatorie, questa era ormai sciolta e aveva cessato di esistere anche indipendentemente dalla effettiva cancellazione dal registro delle imprese. Questo scrittore in altri termini negava carattere costitutivo alla iscrizione della cancellazione e ne traeva la conseguenza che l’eventuale omissione della cancellazione non faceva venir meno il fatto oggettivo dell’estinzione della società.
[79] F. Ferrara jr., Il fallimento, Milano, 1959, 103-105.
[80] F. Ferrara jr., Il fallimento, cit..
[81] F. Ferrara jr., Il fallimento, cit..
[82] S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, 1948, 70-71.
[83] A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Trattato delle società per azioni, cit., vol. 9, t. 2, 1993, 238 ss. ove altre citazioni, G. Campobasso, Diritto commerciale, Le società, cit., 124-126, F. Ferrara jr.- A. Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, 136-139, F. Galgano-A. Bonsignori,Fallimento delle società, cit., 21-23, A. Jorio, Le crisi d’impresa, Il fallimento, in Trattato di diritto privato, cit., 2000, 194 ss.
[84] A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, cit., 238.
[85] F. Ferrara jr.- A. Borgioli, Il fallimento, cit. 138 e G. Ferri, Le società, Trattato di diritto civile, cit., 977. Alla fine degli anni ’90 accoglieva ancora favorevolmente le tendenze della giurisprudenza, G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione delle società per azioni, in Trattato delle società per azioni, cit., vol. 7, t. 3., 1997, 703 ss.
[86] G. Campobasso, Diritto commerciale, Le società, cit.,126.
[87] F. Ferrara jr.- A. Borgioli, Il fallimento, cit. 138.
[88] F. Ferrara jr.- A. Borgioli, Il fallimento, cit. 138.
[89] Corte Cost. 12 marzo 1999, n. 66 e Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319.
[90] Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319.
[91] G. Ferri, Società, art. 2247-2324, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca,1981, 15-17.
[92] G. Bonelli, Del fallimento, cit., 227 ss.
[93] P. Spada, La tipicità delle società, Padova,1974, 59 ss.
[94] Cosi invece G. Bonelli, Del fallimento, cit., 219 ss. e in termini più o meno espliciti la dottrina a lui contemporanea.
[95] A. Candian, Il processo di fallimento, cit.
[96] G. Bonelli, Del fallimento, cit.
[97] G. Niccolini, Interessi pubblici e interessi privati nella estinzione delle società, Milano, 1990, 410.
[98] Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319.
[99] A. Auletta, Attività, Enc. dir., 1958, 987, ove il rilievo che l'esistenza di una normativa, che si ricollega all'attività come a sua fattispecie, pone il problema della cessazione degli effetti della fattispecie per il quale si prospettano una pluralità di soluzioni: «cessazione degli effetti della fattispecie col venir meno della fattispecie ovvero colla pubblicità della cessazione della fattispecie ovvero col decorso di un certo periodo di tempo dalla cessazione della fattispecie o dalla pubblicità di tale cessazione ovvero colla estinzione dei rapporti giuridici […] sorti dagli atti costitutivi dell'attività; [a cui si aggiungono] le soluzioni composite, che possono essere derivate dalla combinazione tra due o più tra le soluzioni prospettate»
[100] G. Bonelli, Del fallimento, cit., 225-226.
[101] Per tutti T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale, Milano, 1962, 152 ss. e 188 ss.
[102] G. Bonelli, Del fallimento, cit., 225-226.
[103] Per un esame dei quali si rinvia all’approfondita indagine di G. Marasà, L’imprenditore, artt. 2082-2083, cit.,111 ss. e 230 ss. ove ampi riferimenti.
[104] Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319.
[105] P. Spada, Diritto commerciale, Parte generale, Padova, 2009, 83.
[106] T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, cit., 55-57.
[107] Per tutti T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale, cit. 152 ss; R. Franceschelli, Imprese e imprenditori, Milano, 1972, 129 ss. 281 ss.; F. Ferrara jr.-F. Corsi, Gli imprenditori e le società, cit. 71-72; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, L’impresa e le società, Padova, vol. 3, t. 1, 1994, 118 ss.; G. Bonfante-G. Cottino, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, Padova, 2001, 553 ss., Spada, Diritto commerciale, cit. 47 ss., G. Marasà, L’imprenditore, artt. 2082-2083, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger e continuato da F.D. Busnelli e G. Ponzanelli, Milano, 2021, 100 ss.; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, cit., 72 ss. e G.F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto dell’impresa, a cura di M. Campobasso, Torino,vol. 1, 2022, 95 ss., A. Jorio, Le crisi d’impresa, Il fallimento, cit., 184 ss., P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Appunti di diritto commerciale, cit., 48-52.
[108] A. Rocco, Diritto commerciale, Milano, 1936,259; U. Navarrini, Trattato di diritto fallimentare, cit., 50 ss.; A. Candian, Il processo di fallimento, cit. 65.
[109] P. Spada, Diritto commerciale, cit., 47 ss. e G. Marasà, L’imprenditore, artt. 2082-2083, cit. 100 ss.,
[110] G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, cit., 76.
[111] R. Franceschelli, Imprese e imprenditori, cit., 44 ss., 133;F. Galgano, Diritto civile e commerciale, L’impresa e le società, 247ss.; G. Bonfante-G. Cottino, L’imprenditore, cit. 553 ss., G.F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto dell’impresa, cit., 95 ss., Spada, Diritto commerciale, cit. 68 ss., A. Jorio, Le crisi d’impresa, Il fallimento, cit., 150 ss. e 184 ss., P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Appunti di diritto commerciale, cit., 48-52.
[112] M. Casanova, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, 1974, 167; T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale, Milano, 1962, 152 ss e 188 ss.; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, cit., 72 ss.; F. Ferrara jr.-F. Corsi, Gli imprenditori e le società, cit. 71-73; e più di recente, A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, cit., 238 ss.
[113] T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, cit., 55-57 e A. Auletta, Il contratto di società commerciale, Milano, 1937, 71.
[114] Cass. sez. I civ., 11 marzo 2019, n. 6968; Cass. sez. I civ. 26 settembre 2018, n. 23157; Cass. sez. I civ., 14 dicembre 2016 n. 25730; Cass. sez. I civ., 16 dicembre 2013, n. 28015; Cass. sez. 6 civ., 30 luglio 2014, n. 17357; Cass. sez. I civ., 6 dicembre 2012, n. 21991; Cass. sez. I civ., 28 aprile 2005, n. 8849; Cass. sez. I civ., 26 giugno 2001, n. 8694; Cass. sez. I civ., 4 novembre 1994, n. 9084; Cass. sez. I civ., 22 giugno 1972, n. 2067; Cass. sez. I civ., 10 agosto 1965, n. 1921.
[115] G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, cit., 73.
[116] A. Rocco, Diritto commerciale, cit..
[117] M. Casanova, Impresa e azienda, cit..
[118] W. Bigiavi, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, 19.
[119] F. Ferrara jr.-F. Corsi, Gli imprenditori e le società, cit. 72-73.
[120] G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, cit., 76;
[121] A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, cit., 238.
[122] Per una critica di questo intento e delle modalità con cui è stato realizzato dal legislatore Spada, Diritto commerciale, cit. 68-70 e G. Marasà, L’imprenditore, artt. 2082-2083, cit.,249 ss.
[123] F. Ferrara jr.-F. Corsi, Gli imprenditori e le società, cit., 73.
[124] F. Ferrara jr.-F. Corsi, Gli imprenditori e le società, cit..
[125] Si può segnalare come l’unica questione problematica nell’evenienza in cui l’incorporante o la società risultante dalla fusione abbia un oggetto statutario non commerciale è quella se l’apertura della liquidazione giudiziale debba colpire l’incorporante (o la società risultante dalla fusione), come sembra preferibile, o l’incorporata. Nel senso che il fallimento vada dichiarato nei confronti della società a responsabilità limitata con oggetto commerciale che abbia deliberato la trasformazione in società semplice e in associazione sportiva, anziché nei confronti del soggetto che risulta dalla trasformazione, Cass. sez. I civ., 25 gennaio 2021 n. 1519 e Cass. sez. I civ., 29 maggio 2020, n. 10302. Per una critica a questa impostazione però M. Mozzarelli,Trasformazione e fallimento: una prospettiva evolutiva, Riv. soc.,2021, 1287-1323.
[126] G.B. Portale, Dalla «società di capitali in formazione» (Vorgesellschaft) alla «società di capitali in estinzione» (Nachgesellschaft), Riv. soc., 2017, 889 ss.
[127] S. Pugliatti, I fatti giuridici, con revisione e aggiornamento di A. Falzea, Milano, 1945 (rist. 1996), 50 ss. per la definizione che sono «estintivi quei fatti il cui effetto consiste nel venir meno di una determinata situazione giuridica».
[128] A. Maisano, Lo scioglimento delle società, Milano, 1974, 9 ss..
[129] A. Maisano, Lo scioglimento delle società, cit..
[130] M. Porzio, L’estinzione della società per azioni, Milano, 1959, 206.
[131] C. Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, Enc. dir., 1990, 1041.
[132] G. Ferri, Le società, Trattato di diritto civile, cit. 319 e 977.
[133] M. Porzio, L’estinzione della società per azioni, cit..
[134] F. Galgano, Diritto civile e commerciale, L’impresa e le società, vol. 3, t. 2, cit.366.
[135] F. Galgano,Le società di persone, cit., 330.
[136] M. Porzio, L’estinzione della società per azioni, cit. 207 ss. e nella giurisprudenza Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060 e Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072.
[137] G.F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, cit.,124 e 500.
[138] Si possono vedere i riferimenti comparatistici alle legislazioni del XIX secolo in C. Vivante, Le società commerciali, cit.; U. Navarrini, Delle società e delle associazioni commerciali, vol. II, cit. 737 ss.; E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit., 898 ss. e G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 11 ss. Dagli atti della commissione di riforma del codice di commercio del 1865, tornata del 23 ottobre 1869, in Castagnola, Fonti e motivi del Codice di commercio, par. 383, emergono le incertezze che all’epoca circondavano gli effetti delle operazioni di merger: «Gli effetti della fusione, cioè la sorte delle società che vengono a fondersi insieme, sono apprezzati assai variamente. Alcuni sostengono che la fusione produce la morte o la cessazione delle società preesistenti per dare vita ad un ente affatto nuovo. Altri ammettono la continuazione di entrambe le società che si fondono e considerano la loro unione come un contratto fra due corpi morali avente la natura di società. Altri infine conciliando le opposte idee vogliono che le società preesistenti passino in uno stadio di liquidazione e, al solo scopo di questa, sopravvivono fino alla liquidazione compiuta. Contemporaneamente vogliono nata la nuova società la quale comincia una vita affatto nuova da quella delle società dalle quali è nata».
[139] Si allude soprattutto agli artt. 3, 19, 23 della direttiva 78/855/CEE del Consiglio, del 9 ottobre 1978, agli artt. 2, 3 19, 23 della direttiva 2011/35/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011 e, da ultimo, al restatement operato con la direttiva UE 2017/1132 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2017 artt. 88, 89, 105 e 109.
[140] Oltre a C. Vivante, Le società commerciali, cit.; A. Marghieri, Delle società e delle associazioni commerciali, cit. vol. III, 405 ss.; U. Navarrini, Delle società e delle associazioni commerciali, cit., vol. II, 737 ss.; T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, cit. 264-266; E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit. 898 ss.; G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 11.
[141] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 11.
[142] Per il corretto rilievo che la preferenza per una lettura in chiave modificativa, anziché estintivo-successoria, della fusione, non impone affatto di negare l’estinzione delle società coinvolte nel merger, v. M. Perrino sub art. 2501, in Società di capitali, Commentario, cit., 1936.
[143] E. Simonetto, Delle società. Trasformazione e fusione delle società, cit. 115e già V. Salandra, Manuale di diritto commerciale, cit. 405 il quale sulle orme di E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit.. osservava che effetto giuridico essenziale della fusione è «la cessazione della esistenza delle società che si estinguono come gruppi sociali giuridicamente autonomi e il loro conglobarsi nella società incorporante o risultante dalla fusione».
[144] Così C. Santagata, Le fusioni, in Trattato delle società per azioni, cit. 46-47.
[145] La dottrina europea ripete senza incertezze che la cessazione della società incorporata costituisce un effetto essenziale del merger insieme al trasferimento dell’intero patrimonio attivo e passivo della incorporata e alla assegnazione delle azioni della società incorporante ai soci della società estinta. Per il diritto francese Y. Guyon, Droit des affaires, t. 1, Parigi, 1998, 652 ss. e G. Ripert-R. Roblot, Traité de droit commercial, t. 1, 1998, 1436 ss. Per il diritto tedesco, K. Schmidt, Gesellschaftsrecht, 2002, 390 ss. F. Kübler, Gesellschafstrecht, Heidelberg, 1998, 339. Per il diritto austriaco, R. Holzhammer-M. Roth, Gesellschafstrecht, Vienna, 1997, 197 e H.G. Koppensteiner, GmbH-Gesetz Kommentar, Vienna, 1999, 758. Per il diritto inglese L.C.B. Gower, Principles of modern company law, Londra, 1997, 761 ss., J.H. Farrar, Company law, Londra, 1998, 31 e 603 ss. ss. e Charlesworth & Morse, Company law, Londra, 1999, 598 ss.. Per il diritto spagnolo, M. Broseta Pont-F. Martinez Sanz, Manual de derecho mercantil, Madrid, 2023, 630.
[146] Così, ad esempio, è sorprendentemente impostato l’itinerario argomentativo di Cass., sez. un., 30 luglio 2021, cit. che ricerca essenzialmente nelle norme di diritto nazionale e soprattutto nell’accostamento con l’estinzione della società in liquidazione il significato dell’aspetto estintivo della fusione; laddove il diritto societario europeo appare richiamato in funzione sostanzialmente confermativa di un risultato interpretativo raggiunto aliunde.
[147] Così invece C. Santagata, Le fusioni, in Trattato delle società per azioni, cit. 20.
[148] V. Salandra, Manuale di diritto commerciale, cit. 405-406.
[149] U. Navarrini, Delle società e delle associazioni commerciali, cit., 727-728.
[150] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit., 900.
[151] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit., 900.
[152] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit., 901.
[153] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit., 902.
[154] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit., 902.
[155] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit. 903.
[156] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 32.
[157] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 22.
[158] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 23.
[159] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 50-51.
[160] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 53.
[161] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 49.
[162] C. Santagata., La fattispecie della fusione, in Fusioni e scissioni di società, cit., 2 ss..
[163] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit. e G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit.. E nel vigore del codice civile V. Salandra, Manuale di diritto commerciale, cit. 405-406 e C. Santagata., La fattispecie della fusione, in Fusioni e scissioni di società, cit., 4 ss. il quale, premesso il duplice dato che il titolo esclusivo per la partecipazione ad una società è il conferimento ad essa effettuato e che in sede di fusione alcun ulteriore apporto viene effettuano, osserva che il titolo della partecipazione dei soci delle società che si fondono alla società incorporante o risultante dalla fusione non si costituisce ex novo in dipendenza della stipulazione in favore del socio nel negozio di fusione ma risiede nel contratto sociale originario in forza del quale essi hanno inizialmente effettuato il proprio apporto.
[164] U. Navarrini, Delle società e delle associazioni commerciali, cit., 727-728.
[165] A. Falzea, Capacità (teoria gen.), Enc. dir., 1960, 14 ss..
[166] G.F. Campobasso, Diritto commerciale. Le società, cit., 4 per la definizione del contratto di società come contratto di organizzazione di una futura attività che presuppone lo svolgimento di un’attività comune e la conseguente creazione di un’organizzazione di gruppo.
[167] V. Salandra, Manuale di diritto commerciale, cit. 405-406.
[168] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 209.
[169] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 49.
[170] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit., 902.
[171] E. Simonetto, Delle società. Trasformazione e fusione delle società, cit. 115e già V. Salandra, Manuale di diritto commerciale, cit. 405-406 e già G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit. 205.
[172] E. Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, cit., 902.
[173] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 49, nt. 1 e 218, ove il richiamo ad una parte della dottrina tedesca.
[174] V. Salandra, Manuale di diritto commerciale, cit. 405-406 e già . Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 205.
[175] F. Ferrara sr., Le persone giuridiche, in Trattato di diritto civile italiano, cit. 29, ove il rilievo che personalità giuridica non significa altro che soggettività, capacità giuridica. Per l’identificazione della soggettività giuridica con la capacità giuridica v. A. Falzea, Capacità (teoria gen.), Enc. dir., 1960, 14, il quale affermava che «la soggettività giuridica viene a coincidere puntualmente e senza residui con la capacità giuridica, la quale, essa pure, consiste in questa posizione generale del soggetto, di destinatario degli effetti giuridici».
[176] A. Auletta, Attività, Enc. dir., 1958, 987.
[177] E. Simonetto, Delle società. Trasformazione e fusione delle società, cit.115.
[178]In questi termini di recente Cass., sez. un., 30 luglio 2021, n. 21970 p. 34-35 ove, con sorpresa, si legge ancora la massima stereotipa che la fusione «realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati».
[179] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 49. 219.
[180] G. Cottino, Diritto commerciale, cit., 753.
[181] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 39.
[182] Per la caratterizzazione in questi termini della successione mortis causa, L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte. cit.. 60 ss..
[183] D. Barbero, Il sistema del diritto privato, Milano, 1992, 1127.
[184] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 39..
[185] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 217
[186]Cass., sez. un., 30 luglio 2021, n. 21970 p. 34-35 e più in generale la costante giurisprudenza di legittimità citata alla nota 5.
[187] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 203 ss.
[188] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 216 ss.
[189] S. Pugliatti, I fatti giuridici, cit., 32 ss..
[190] L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte. cit.. 568-569.
[191] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 223 ss.
[192] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 217.
[193] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 220 e T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, cit. 265.
[194] G. Ferri, La fusione delle società commerciali, cit., 228 ss. con alcune puntualizzazioni. Per l’opinione che negava in generale l’applicabilità delle norme relative alla successione a causa di morte delle persone fisiche nel campo degli enti collettivi, F. Ferrara sr., Le persone giuridiche, in Trattato di diritto civile italiano, a cura di F. Vassalli, Torino, 1938, 286 ss. Diversamente, F. Galgano, Diritto commerciale, L’impresa e le società, vol. 3, t. 2,cit., 482, il quale, pur aderendo all’opinione del Simonetto e del Santagata secondo cui la fusione integra «una vicenda modificativa degli originari contratti di società» che, «lungi dall’estinguersi, subiscono null’altro che un fenomeno di “integrazione reciproca”» riconosce che l’idea della successione a titolo universale mortis causa «può, con la precisazione che si tratta di un fenomeno solo analogo, essere utilmente impiegata, giacché permette di argomentare per analogia e di attingere dai principi sulle successioni i criteri in base ai quali distinguere fra rapporti che si trasmettono e rapporti che non si trasmettono dalla incorporata all’incorporante o dalle società fuse alla società risultante dalla fusione». Più correttamente, v. però R. Santagata, La fattispecie della fusione, cit., 14 il quale osserva che, diversamente dalla successione universale mortis causa della persona fisica, la successione universale da fusione si caratterizza per la conservazione dell’organizzazione di persone, di mezzi e di conoscenze (know how) dell’impresa con la conseguenza che la continuità in capo alla società superstite dei rapporti giuridici delle società che si fondono è destinata ad assumere la massima ampiezza senza che possa predicarsi ad es. lo scioglimento dei rapporti caratterizzati intuitu personae.