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I rapporti fra l’impresa in composizione negoziata e i creditori bancari dopo il decreto correttivo del 2024 (con una digressione sui finanziamenti abusivi).


Stefano Ambrosini
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I rapporti fra l’impresa in composizione negoziata e i creditori bancari dopo il decreto correttivo del 2024 (con una digressione sui finanziamenti abusivi).


Stefano Ambrosini

Data pubblicazione
04 ottobre 2024

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Sommario: 1. I doveri degli intermediari finanziari nelle trattative. - 2. La prosecuzione o meno del rapporto bancario. - 3. Lo sbocco del concordato semplificato e la prededuzione dei finanziamenti. - 4. Un nodo irrisolto: i disincentivi al risanamento contenuti nella disciplina in materia bancaria. - 5. Digressione sulla (in)validità dei finanziamenti bancari abusivamente concessi. - 6. Gli effetti sui contratti pendenti delle misure protettive e della loro conferma.


1.     I doveri degli intermediari finanziari nelle trattative 

All’interno della disciplina della composizione negoziata – com’è noto – si trovano alcune importanti previsioni relative ai rapporti intercorrenti fra l’impresa in crisi[1] e le banche sue creditrici[2]; previsioni da ultimo significativamente implementate a seguito dell’emanazione del decreto correttivo n. 136 del 13 settembre 2024 (in G.U. del 27 settembre 2024)[3]. Ed è precisamente su queste modifiche che si concentra in prevalenza l’attenzione di questo breve contributo, non senza affrontare, seppur sinteticamente, alcune tematiche più generali.

Iniziando dai doveri dei soggetti coinvolti nelle trattative, la prima parte dell’art. 16, c. 5, continua a stabilire che le banche e gli intermediari finanziari, nonché i mandatari e i cessionari dei loro crediti, sono tenuti a partecipare alle trattative “in modo attivo e informato”. Si tratta, com’è chiaro, dell’esplicitazione, specificamente riferita al ceto bancario, del dovere di buona fede e correttezza sancito in via generale dall’art. 4, c. 1 (oggi espressamente riferito anche a “ogni altro soggetto interessato”[4]), collegata altresì al dovere di leale e sollecita collaborazione di cui al c. 6 del medesimo art. 16, che detta al tempo stesso l’obbligo per le parti coinvolte nelle trattative di riscontrare proposte e richieste in modo tempestivo e motivato[5].

La finalità della disposizione del c. 5 risiede notoriamente nello scoraggiare un approccio, da parte del ceto bancario, caratterizzato da scarso interesse alle sorti dell’impresa finanziata, come accadrebbe nel non desiderabile caso di atteggiamenti meramente passivi (e non invece opportunamente propositivi) e di mancata acquisizione delle informazioni necessarie ad assumere una determinazione consapevole. In altri termini, le banche, quanto meno al pari degli altri creditori, devono affrontare la situazione con spirito autenticamente dialogico e costruttivo, scevro da apriorismi e pregiudizi che condizionerebbero impropriamente la lucidità di analisi e il successivo iter decisionale: iter che in tanto può svolgersi in modo proficuo, beninteso, in quanto il debitore osservi, simmetricamente, le prescrizioni di cui all’art. 16, c. 4, dettate al precipuo fine di mettere sia l’esperto che le parti interessate (a partire dai creditori bancari) “nella condizione di verificare la perseguibilità del risanamento ipotizzato, valutare la proporzionalità del sacrificio richiesto ed evitare che la composizione sua animata da finalità puramente dilatorie”[6].

Nell’esperienza pratica non sono purtroppo mancati, specie nella fase di “rodaggio” dell’istituto della composizione negoziata, atteggiamenti “inerziali” da parte di alcune banche creditrici, che hanno suscitato una reazione di severo contrasto da parte della giurisprudenza. In particolare, in un interessante provvedimento partenopeo[7] si è posto in luce che i suddetti obblighi si arrestano a livello precettivo, non essendo presidiati da adeguata sanzione, per cui la loro inosservanza rischia di ridondare a danno della parte proponente qualora i creditori invitati alle trattative assumano comportamenti di radicale inerzia; e la conclusione che se ne è tratta in concreto è che l’unico rimedio a un comportamento siffatto sia costituito dalla proroga delle misure protettive, intesa come strumento di indiretta “persuasione” a coltivare in modo effettivo e corretto le trattative.

A livello di esperienza pratica, si registra per lo più, a valle dell’accesso alla composizione negoziata, una “cristallizzazione” delle posizioni bancarie: l’impresa continua a operare su conti correnti attivi e, di regola, a poter fruire degli affidamenti sino alla loro scadenza, mentre non riesce normalmente a ottenere nuova finanza, donde l’opportuna creazione, da parte del debitore, di un conto corrente “dedicato” e non affidato per essere in grado di gestire in modo efficiente la liquidità generata dalla prosecuzione dell’attività.

Può dunque verosimilmente convenirsi con l’assunto secondo il quale la novità della composizione negoziata “ha al momento sorpreso anche il sistema bancario che con il tempo avrà modo di trovare una prassi compatibile con gli elementi normativi e soprattutto con i reali vantaggi che la continuità aziendale può offrire anche alla protezione delle loro ragioni di credito”[8].

Va peraltro constata la “sensibilità” di alcuni importanti tribunali nei confronti delle esigenze sottese al risanamento imprenditoriale, perseguibili, in particolare attraverso il ricorso alle misure cautelari ex art. 19 CCII. Al riguardo, si è da ultimo ravvisata la ricorrenza del periculum ai fini della concessione di dette misure nel concreto rischio che “l’escussione delle garanzie di MCC possa pregiudicare il buon esito della composizione – sussistendo quindi il nesso di funzionalità tra le misure chieste e il buon esito delle trattative – a discapito della possibilità di un concreto risanamento imprenditoriale: la richiesta cautelare è volta a impedire che nelle more della conclusione delle trattative, per effetto dell’escussione all’esito del procedimento di attivazione della garanzia, la società si trovi costretta a considerare un diverso e maggiore “super-privilegio” ante primo grado di MCC, non riuscendo più a destinare le stesse risorse finanziarie all’ipotesi di soddisfazione proposta alle banche stesse” [9].

 

2.     La prosecuzione o meno del rapporto bancario

Quanto all’aspetto, di cruciale rilevanza, della prosecuzione o meno del rapporto contrattuale in essere tra l’impresa in crisi e la banca, quest’ultima può decidere, a certe condizioni, di mantenerlo nonostante la sopravvenuta condizione di difficoltà e in proposito il decreto correttivo ha precisato che ciò non è di per sé motivo di responsabilità dell’intermediario finanziario. Tale formulazione del precetto non esclude affatto - s’intende - che la banca possa essere considerata responsabile di abusiva concessione di credito ove sussistano gli estremi di una “patologia” siffatta, ma serve a chiarire che la semplice prosecuzione del rapporto non può essere - appunto “di per sé” - fonte di responsabilità. 

Resta quindi fermo il principio, di matrice dottrinale e giurisprudenziale, secondo cui va ravvisata l’abusiva erogazione creditizia ogniqualvolta essa sia stata effettuata con dolo o colpa a beneficio di un’impresa che versava in condizioni di seria e oggettiva difficoltà economico-finanziaria e che appariva priva di concrete prospettive di superamento della crisi [10].

Tornando all’art. 16, c. 5, esso specifica inoltre quali sono le situazioni che non costituiscono di per sé causa di sospensione o di revoca delle linee di credito a suo tempo concesse all’impresa, vale a dire (i) la notizia dell’accesso alla composizione negoziata e (ii) il coinvolgimento delle banche nelle trattative. 

Si tratta, secondo alcuni, di una previsione opportuna ma insufficiente, non essendo stato posto a carico delle banche alcun obbligo di mantenere in vita le linee di credito a suo tempo concesse[11]. Gli è che un obbligo del genere sarebbe risultato, con ogni probabilità, in contrasto con le regole di vigilanza prudenziale in materia di finanziamento alle imprese in crisi (quando non già insolventi), sicché la scelta del legislatore, seppur all’apparenza poco “coraggiosa”, può verosimilmente ritenersi corretta.

Quanto alla decisione delle banche di revocare o sospendere le linee di credito, essa deve derivare dall’applicazione della disciplina di vigilanza prudenziale, per cui non può essere legittimamente adottata al di fuori di tale quadro di riferimento normativo; la determinazione assunta va poi comunicata agli organi di amministrazione e di controllo dell’impresa, con esplicitazione delle specifiche ragioni poste a base della scelta compiuta.

Le situazioni che non costituiscono, in quanto tali, causa di sospensione o di revoca delle linee di credito - soggiunge la norma - non integrano neppure, di per sé, motivo per classificare diversamente il credito. E al riguardo occorre svolgere una pur sintetica digressione relativamente ai cc. dd. crediti deteriorati[12], cioè quei crediti vantati dalle banche verso soggetti che non sono in grado di adempiere ai loro obblighi restitutori: crediti che in Italia hanno da tempo superato, nel loro complesso, la ragguardevole soglia dei 170 miliardi di euro, anche per effetto delle prolungate fasi recessive che negli ultimi lustri hanno ciclicamente contrassegnato l’economia (complice, di recente, la pandemia da Covid-19 e la sua “onda lunga”), oltre che per via della considerevole durata delle procedure di recupero dei crediti stessi.

Secondo le classificazioni adottate dalla Banca d’Italia, armonizzate con le disposizioni dell’Autorità Bancaria Europea (EBA) alla luce del Regolamento UE n. 575/2013 e con le successive Linee-guida adottate dal medesimo ente in sede unionale, i crediti deteriorati si dividono, seguendo un ordine crescente di gravità della condizione delle imprese debitrici, in tre sottocategorie: a) le esposizioni scadute e/o sconfinanti, cioè quelle venute a scadenza, o eccedenti i limiti di affidamento, da oltre 90 giorni; b) le inadempienze probabili (cc. dd. UTP: unlikely to pay), per le quali la banca, in ragione di una serie di elementi, valuta come improbabile un adempimento puntuale senza il ricorso ad azioni quali l’escussione delle garanzie; c) le sofferenze (cc.dd. NPL: non performing loans), vale a dire crediti nei confronti di soggetti in stato di insolvenza o in condizioni sostanzialmente equiparabili.

Orbene, con la previsione dell’art. 16, c. 5, di cui si diceva (introdotta dal decreto correttivo) la legge codifica in ambito concorsuale la necessità che le banche valutino attentamente, caso per caso, se la situazione dell’impresa in difficoltà che è ricorsa alla composizione negoziata ne consenta, in prospettiva, il risanamento. D’altronde, la composizione negoziata rappresenta - come viene ribadito nella Relazione illustrativa al predetto decreto - “uno strumento utilizzabile anche in una situazione di pre-crisi e comunque solo nei casi in cui sia effettivamente possibile il pieno recupero dell’equilibrio economico-patrimoniale dell’attività imprenditoriale, con la conseguenza che l’impresa che lo utilizza va valutata attentamente considerando tali prospettive”.

Di qui la previsione, da ultimo inserita nella norma, in base alla quale nel corso della composizione negoziata la classificazione del credito è determinata tenuto conto di quanto previsto dal progetto di piano rappresentato ai creditori e dalla disciplina di vigilanza prudenziale.

In definitiva, se da un lato la norma chiarisce che la prosecuzione del rapporto bancario in costanza di composizione negoziata non è di per sé sola fonte di responsabilità (con una comprensibile “attenzione” nei confronti degli istituti di credito coinvolti nel percorso di risanamento e spesso indispensabili al suo buon fine), dall’altro subordina la cessazione (temporanea o permanente) del rapporto stesso a quanto previsto dalla disciplina di vigilanza prudenziale, con ciò aumentando specularmente, a ben vedere, la possibilità che alla banca venga ascritta, in assenza dei presupposti fissati da tale disciplina, una responsabilità per interruzione “brutale” del credito[13].

Le nuove disposizioni da ultimo introdotte, ad ogni buon conto, dovrebbero in thesi contribuire a contemperare il perseguimento dell’obiettivo di risanare, attraverso la concessione dell’opportuna liquidità, le imprese in crisi ma viables con l’osservanza della regola indefettibile di sana e prudente gestione da parte degli intermediari finanziari, il che rappresenta il fil rouge che lega fra loro molte delle previsioni di nuovissimo conio: anche se nel paragrafo che segue vengono illustrate, in sintesi, le ragioni per la quali si tratta di previsioni utili ma a ben vedere spesso concretamente insufficienti rispetto all’obiettivo del risanamento.

 

3.     Lo sbocco del concordato semplificato e la prededuzione dei finanziamenti

Il concordato semplificato è notoriamente una delle soluzioni che l’art. 23, c. 2, CCII, configura come possibile sbocco della composizione negoziata[14]. Questa previsione lo pone “in alternativa” a – e quindi sul medesimo piano di – piano di risanamento, accordo di ristrutturazione e altri strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ma l’art. 25-sexies, c. 1 (come da ultimo riformulato ad opera del decreto correttivo) richiede che la relazione finale dell’esperto accerti la non praticabilità vuoi del piano attestato di risanamento (inizialmente – e inspiegabilmente – non menzionato), vuoi dell’accordo di ristrutturazione.

Nulla dice la disciplina del concordato semplificato in ordine ai finanziamenti prededucibili, nonostante i suggerimenti contenuti nei pareri resi dalle Commissioni Giustizia di Camera e Senato ai fini del varo del decreto correttivo, sicché il dubbio va risolto in via interpretativa, rifuggendo dalla semplicistica conclusione che il problema non si pone, essendo lo strumento diretto alla liquidazione del patrimonio.

La risposta all’interrogativo circa l’applicabilità dell’art. 99 (e probabilmente degli artt. 101 e 102) al concordato semplificato pare di tenore affermativo, a dispetto del fatto che l’istituto miri alla liquidazione del patrimonio.

Con riguardo ai finanziamenti funzionali all’esercizio dell’attività aziendale sino all’omologazione, va posto in evidenza che l’art. 99, c. 1, contempla l’ipotesi di prosecuzione dell’attività “anche se unicamente in funzione della liquidazione”: donde la non incompatibilità con le finalità del concordato semplificato. Ma anche per quanto attiene ai finanziamenti funzionali alla presentazione delle domande di cui all’art. 99, c. 5, occorre considerare che la norma parla tout court di concordato preventivo e non di concordato in continuità, con ciò non escludendo l’ipotesi di un concordato liquidatorio (coerentemente, d’altronde, al disposto del ridetto primo comma).

Di là dalla formulazione – appunto non limitativa – di tali precetti, merita considerare un ulteriore profilo.

Ai sensi dell’art. 25-septies, c. 2, il piano di liquidazione può comprendere un’offerta di acquisto dell’azienda o di un suo ramo; più in generale il piano, anche in assenza di tale offerta preventiva, ben può prevedere – e spesso nella pratica prevede – la dismissione del compendio non già in ottica atomistico-disgregativa, ma come complesso aziendale in esercizio. E non pare che la mancata riproduzione, all’interno di tale disposizione, dell’espressione “in esercizio” sia di per sé idonea a deporre in senso contrario, giacché altrimenti nell’ambito del concordato semplificato potrebbero alienarsi solo aziende inattive, ciò di cui non si vedrebbe la ragione, non rispondendo in alcun modo all’interesse dei creditori[15]. In altri termini: nel concordato in continuità deve trattarsi di azienda in esercizio (art. 84, c. 2, dove peraltro si parla anche, con riferimento alla continuità indiretta, di “ripresa dell’attività”, quindi di azienda temporaneamente inattiva), mentre nel concordato semplificato essa può indifferentemente essere o meno in esercizio, non essendovi motivo logico, né vincolo giuridico, per postularne la necessaria inattività.

Orbene, senza voler indulgere in misura eccessiva a tentazioni ossimoriche, può ritenersi che attraverso il concordato semplificato sia sottoponibile ai creditori (non votanti ma potenziali opponenti) e al tribunale un piano, per così dire, di “liquidazione in continuità indiretta”. In ogni caso, anche nell’ipotesi in cui la liquidazione debba risolversi nella dismissione dei singoli beni (capannone industriale, macchinari, arredi, ecc.), vi sarebbe pur sempre un periodo, non necessariamente breve, fra la domanda di omologazione del concordato semplificato e la procedura competitiva durante il quale l’impresa può necessitare, nell’interesse dei creditori, di nuova finanza.

Dall’insieme dei rilievi che precedono si evince, dunque, l’applicabilità in via estensiva e comunque analogica delle disposizioni sui finanziamenti prededucibili al concordato semplificato, ogniqualvolta – beninteso – ci si trovi al cospetto delle condizioni previste dalla legge.

 

4.     Un nodo irrisolto: i disincentivi al risanamento contenuti nella disciplina in materia bancaria

Gli sforzi compiuti negli ultimi lustri (e, come si è visto poc’anzi, ancora da ultimo) dal legislatore del diritto della crisi per incentivare la concessione di credito alle imprese in difficoltà sono ben noti, come note sono le “leve” utilizzate a questo fine al cospetto di determinati presupposti: il riconoscimento del beneficio della prededuzione, l’esenzione da revocatoria e l’esimente dalla bancarotta.

Il problema però è che sull’altro piatto della bilancia pesano, in misura significativamente maggiore, i disincentivi che si ravvisano non tanto nell’ordinamento concorsuale quanto piuttosto in quello bancario, la cui finalità primaria risiede nella sana e prudente gestione degli istituti e nella stabilità del sistema creditizio nel suo complesso, assai più che nel supporto al tessuto economico, tanto meno nel caso di imprese in condizioni di disequilibrio. Com’è stato anche di recente osservato, i sempre più stringenti meccanismi di tutela degli istituti di credito, approntati in sede sia unionale che nazionale per proteggere il sistema dal rischio di crisi delle banche, “fra i tanti propri effetti hanno quello di dissuaderle accuratamente dall’intervenire in favore di un’impresa in crisi”[16].

Ed invero, le severe regole contenute nelle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia sulla concessione dei fidi, a cominciare dalla necessità che l’impresa finanziata sia economicamente sostenibile (vale a dire che la carenza di liquidità risulti temporanea) e i corollari sul piano contabile per gli istituti in termini di svalutazioni e accantonamenti (per tacere dell’impatto sul c.d. patrimonio di vigilanza) finiscono per rendere estremamente difficoltoso il supporto bancario a un’impresa in crisi. “Di fatto, quindi, le banche - è stato detto - sono virtualmente tagliate fuori dalla possibilità di proporsi – se non, forse, in casi marginalissimi – come attori, o co-attori, di operazioni di risanamento. Il lotto dei possibili finanziatori della crisi d’impresa si restringe enormemente, e si dà un bel giro di vite all’intero panorama dei risanamenti”[17].

A ciò si aggiunge, com’è ben noto, la disciplina sull’intervento del Fondo Centrale di Garanzia per le PMI, che, se per un verso ha assicurato, nel delicatissimo frangente pandemico, un persistente afflusso di liquidità bancaria in virtù delle previsioni di favore contenute nel d.l. n. 23/2020 (c.d. Decreto Liquidità)[18], per altro verso ha finito per innescare, in una eterogenesi dei fini, meccanismi potenzialmente disincentivanti rispetto all’effettivo e pieno coinvolgimento degli istituti di credito nelle operazioni di risanamento aziendale, potendo essi fare affidamento, in larga parte, sulla garanzia del Medio Credito Centrale a prescindere dalle sorti dell’impresa finanziata.

E’ chiaro allora, essendo il contesto normativo quello fin qui descritto, che senza sciogliere il nodo dei forti disincentivi scaturenti dalla legislazione bancaria non appare realistico, nella maggior parte dei casi, immaginare un effettivo e proficuo sostegno delle banche alle iniziative imprenditoriali in presenza di una crisi già in atto, tanto più se non emersa tempestivamente, dal momento che i vincoli all’erogazione di finanza sopravanzano gli strumenti pur commendevolmente messi in campo dal legislatore concorsuale, finendo in ultima analisi per rendere alquanto problematico (e fatalmente meno fluido) il rapporto fra banche e imprese in crisi, all’insegna del rischio che gli obiettivi indicati nella Direttiva Insolvency e dal codice della crisi risultino in concreto frustrati.

 

5.     Digressione sulla (in)validità dei finanziamenti bancari abusivamente concessi

La tematica affrontata nei paragrafi precedenti conduce inevitabilmente a focalizzarsi, seppur brevemente, sulla questione dell’erogazione abusiva di credito, vista non tanto sotto il profilo della responsabilità risarcitoria della banca (tema che ha registrato crescente consenso sulle questioni un tempo più controverse, a cominciare dalla legittimazione attiva del curatore), quanto sotto l’aspetto della (in)validità del contratto bancario di finanziamento.

Sulla responsabilità risarcitoria per violazioni delle regole sul merito creditizio su cui la giurisprudenza, anche grazie ai numerosi contributi della dottrina, è andata progressivamente stabilizzandosi negli ultimi anni, a partire dalla già ricordata nozione di abuso di erogazione creditizia, da ravvisarsi nella situazione in cui essa è stata effettuata con dolo o colpa a beneficio di un’impresa che versava in condizioni di seria e oggettiva difficoltà economico-finanziaria e che appariva priva di concrete prospettive di superamento della crisi. Non è per vero necessario – come ha chiarito la Cassazione – che l’intervento di supporto finanziario intervenga nell’ambito di una formale procedura di soluzione della crisi (anche se di regola è preferibile, sul piano della prudenza, seguire una strada del genere): ciò che conta è che la banca non abbia assunto un rischio irragionevole, come invece accade quando un’impresa, sulla base di un’attenta valutazione ex ante, risulta inidonea a restare proficuamente sul mercato.

In questi casi, nei quali non è stato evidentemente scrutinato a dovere il merito creditizio dell’impresa finanziata, il danno viene arrecato tanto, in via diretta, al patrimonio sociale con conseguente riduzione della garanzia patrimoniale causata dal maggior debito contratto, quanto, in via mediata e riflessa, all’intera massa dei creditori a cagione dell’intervenuto aggravamento del dissesto “figlio” dell’indebita prosecuzione dell’attività d’impresa: responsabilità precontrattuale o contrattuale la prima, aquilana la seconda[19].

Passando dall’anzidetto piano della responsabilità risarcitoria a quello dei profili di invalidità del contratto di finanziamento, le considerazioni svolte in appresso traggono le mosse, in particolare, da una recente – e non condivisibile – decisione di merito, la quale, affermando erroneamente la propria conformità all’orientamento della Corte di Cassazione, si è pronunciata nei seguenti termini: “i) va richiamata la tuttora valida regola di distinzione tra norme di validità e norme di comportamento, entrambe poste a tutela di interessi generali, ma solo le prime comportanti la nullità del contratto in caso di loro violazione; ii) la disciplina della valutazione del merito creditizio, pur se posta a tutela anche di interessi generali, non è sorretta da norme di validità, poiché non interseca e non riguarda gli elementi strutturali del contratto di finanziamento con l’impresa; iii) in definitiva, dalla violazione delle regole di prudenza imposte all’ente finanziatore discendono sole conseguenze risarcitorie”[20].

L’assunto centrale su cui poggia tale pronuncia sta, quindi, nell’asserita mancanza di un presidio di validità del negozio in rapporto alla tematica della valutazione del merito creditizio: assunto che tuttavia non può essere condiviso alla luce dei più recenti sviluppi del dibattito – soprattutto giurisprudenziale – in materia.

Va anzitutto rilevato come l’esclusione del piano invalidatorio a beneficio esclusivo di quello risarcitorio possa bensì riferirsi alla disciplina dei servizi di investimento resi dalla banca[21], ma non si attagli sic et simpliciter al problema della concessione abusiva di credito. Da tempo infatti si tende a ricondurre la fattispecie nell’ambito di applicazione dell’art. 1343 c.c., segnatamente sotto il profilo della contrarietà all’ordine pubblico (economico) e, a partire dal 2020[22], dal punto di vista del contrasto con il buon costume: donde l’applicazione della regola della soluti retentio ex art. 2035 c.c., foriera di importanti corollari pratici ai fini della formazione degli stati passivi fallimentari.

Ciò è avvenuto, progressivamente, sulla scorta di una nozione evolutiva di buon costume, la quale comporta la necessità di disancorare il concetto dai suoi tradizionali presupposti applicativi, afferenti essenzialmente alla sfera morale della persona fisica. È stato al riguardo osservato, in dottrina, che “la ragione di questo cambiamento di prospettiva sembra da individuarsi nella laicizzazione della società e nella conseguente crisi di un modello valoriale fondato sulla religione e sulla tradizione; tale trasformazione della società è evidentemente favorita dall’evoluzione in senso multiculturale della comunità, che si connota per l’esistenza di valori e ideologie profondamente diversi. La nuova società, sprovvista di un quadro valoriale comune, ha bisogno di vedere oggettivati i suoi valori di riferimento; ecco quindi che entrano in gioco, quali criteri di riferimento, non più i princìpi morali, variabili e soggettivi, ma i princìpi fondamentali dell’ordinamento, che trovano espressione nella carta fondamentale. Il buon costume, quindi, non sembra più individuabile alla luce di una morale comune, ormai non più esistente, ma in chiave costituzionalmente orientata”[23].

Del resto, la contrarietà a buon costume come causa di invalidità appartiene da sempre alla nostra tradizione giuridica, dall’epoca romana e medievale in poi, nell’ambito della quale hanno preso forma il principio ai sensi del quale non è consentito far valere un diritto quando a base di questo si ponga l’immoralità (nemo auditur turpitudinem suam allegans) e quello secondo cui il comportamento delle parti contrario alla legge o al buon costume non consente di ripetere quanto pagato (ubi et dantis et accipientis turpitudo versatur, non posse repeti dicimus).

Com’è chiaro, il discorso condurrebbe lontano, anche alla luce delle distinzioni emerse non da oggi nel dibattito dottrinale fra ordine pubblico e buon costume[24]: ma è evidente che il punto non è qui suscettibile del debito approfondimento. Tornando allora specificatamente al tema che ci occupa, sulla nullità del finanziamento bancario abusivo per violazione del buon costume (in materia economica) è nuovamente intervenuta, alcuni mesi fa, la Suprema Corte, confermando con ciò che la sua giurisprudenza si sta consolidando nel senso qui rappresentato.

Ed invero, nell’ordinanza n. 4376 del 19 febbraio 2024[25] si legge che “il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una "condictio ob iniustam causam", deve procedere d'ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell'atto o del contratto di cui abbia ravvisato l'illegalità o la contrarietà all'ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente, da un lato, che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente, e per altro verso che sono irripetibili, ai sensi dell'art. 2035 cod. civ. i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative (cfr. anche: Cass. 783/87; 2081/85; Cass. 4414/81, Cass. 1035/77)”[26].

Nulla vieta – precisano i giudici di legittimità nella citata ordinanza – che “un contratto giudicato illecito e, come tale, nullo ai sensi dell'art. 1418 cod. civ., possa essere soggetto anche alla sanzione civilistica dell'irripetibilità sancita dall'art. 2035 cod. civ., ove si ravvisino - proprio come accertato nella fattispecie in esame – prestazioni dettate da finalità per l'appunto immorali. Ed invero, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che un atto negoziale giudicato in contrasto con una norma imperativa o con l'ordine pubblico possa essere, al contempo, suscettibile di una valutazione in termini di contrarietà al buon costume, proprio per gli effetti di cui al citato art. 2035 cod. civ., con la conseguenza che "chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume (Cass. 9441/2010, 25631/2017) "[27].

 Per completezza, merita ancora segnalare come, anche a prescindere dal - pur dirimente - profilo della contrarietà al buon costume economico, al medesimo risultato di invalidare il negozio condurrebbe la qualificazione della fattispecie come violativa di norme imperative (a cominciare dalla regola di sana e prudente gestione bancaria ex art. 5 TUB), o come connotata da illiceità della causa del contratto. Senza dire della teorica possibilità di accertare incidenter tantum la rilevanza penale delle condotte, segnatamente come concorso nel ricorso abusivo al credito o nell’aggravamento colposo del dissesto ai sensi, rispettivamente, degli artt. 325 e 323, c. 1, lett. d) (corrispondenti ai vecchi artt. 218 e 217, n. 4, l. fall.).

Non a caso, nei termini anzidetti si sono espresse alcune corti di merito. In una pronuncia vicentina si legge che “alla norma penale dell’art. 218 l. fall. e alla norma di condotta dettata dall’art. 5 TUB ai aggiunge l’offesa al buon costume, consistente nell’aver tenuto una condotta complessivamente contraria al corretto e leale svolgimento della competizione economica”[28]. Una successiva decisione astigiana afferma che “la consapevole concessione di una somma a mutuo ad un soggetto insolvente e non in grado di restituirla per estinguere un pregresso debito contando sulla garanzia assicurata Stato costituisce un complesso di negozi giuridici funzionalmente collegati la cui causa non è quella del contratto tipico di mutuo e neppure quella del patto di dilazionamento della scadenza del debito. Il contratto, la cui reale causa è contraria a norme imperative, va quindi ritenuto nullo per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1343 c.c.”[29]. Nel medesimo senso si era già espressa una sentenza torinese[30], secondo la quale – chiarito  opportunamente che “la concessione dei finanziamenti di cui all’art. 13, comma 1, lett. m), d.l. 23/2020 (c.d. “Decreto Liquidità”) e garantiti dal Fondo di Garanzia “PMI” dev’essere preceduta dall’analisi sulle capacità di rimborso della richiedente, posto che la predetta disposizione non ha espressamente previsto una deroga all’obbligo per la banca di valutare il merito creditizio” – “la concessione di un finanziamento illegittimo, erogato nella consapevolezza del ritardo nell’apertura di vicende concorsuali o dell’intensificazione del dissesto in capo al soggetto finanziato, può risultare suscettibile di rilevanza penale quale fatto di bancarotta semplice ai sensi dell’art. 217, comma 1, n. 4, l. fall.”, con conseguente nullità del contratto di mutuo per contrarietà a norme imperative.

Ricostruzioni, queste, analizzate altresì nei più recenti contributi dottrinali in materia[31], i quali concorrono a far emergere con nitore il progressivo scivolamento della fattispecie sul piano inclinato che dal rimedio risarcitorio conduce – come si diceva – a quello schiettamente invalidatorio.

Il formante giurisprudenziale in materia appare dunque in via di consolidamento nel senso indicato, sebbene persistano – da parte di quanti si sono espressi (anche in sedi convegnistiche) criticamente – dubbi circa la possibilità, se non a prezzo di eccessive forzature, di ricondurre la fattispecie in esame all’interno della categoria del buon costume: il che renderebbe alquanto problematico estendere a casi diversi l’applicazione della soluti retentio di cui all’art. 2035 c.c. Norma, questa, che notoriamente risponde all’esigenza di evitare che persone in qualche modo coinvolte in attività illecite, criminali o immorali possano trarre vantaggio dalla loro condotta o esperire azioni al fine di ottenere il compenso pattuito per una prestazione contraria al buon costume[32].  Ed è in quest’ottica che la previsione codicistica è considerata eccezionale e come tale di stretta interpretazione, anche se vi è chi afferma che una sua “estensione potrebbe risultare giustificata ogniqualvolta il quasi contratto costituisse un mezzo per aggirare norme imperative (art. 1344)”[33]   

 

6.     Gli effetti sui contratti pendenti delle misure protettive e della loro conferma

Tornando alla novellata disciplina della composizione negoziata, l’art. 18, c. 5, continua a enumerare le condotte precluse ope legis[34] ai creditori nei cui confronti operano le misure protettive, vale a dire (i) rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti; (ii) provocare la loro risoluzione; (iii) anticiparne la scadenza; (iv) modificarli in danno dell’imprenditore, per il sol fatto del mancato pagamento di crediti anteriori alla composizione negoziata.

Sul punto, il decreto correttivo ha chiarito che nella locuzione “creditori” vanno ricompresi le banche e gli intermediari finanziari, nonché i mandatari e i cessionari dei loro crediti, giacché da parte di alcuni si era dubitato – a mio avviso infondatamente – dell’applicabilità del precetto agli istituti di credito, a dispetto del carattere onnicomprensivo del termine utilizzato.

La seconda parte del comma in parola e così pure il successivo c. 5 bis, inserito ex novo, sono imperniati sullo spartiacque, a livello di effetti, fra operatività immediata delle misure protettive e loro successiva conferma: fino a quando il tribunale non adotti il provvedimento confermativo i creditori (bancari e non) possono sospendere l’adempimento dei contratti pendenti, ferme restando la sospensione e la revoca delle linee di credito in ipotesi disposte ai sensi della disciplina di vigilanza prudenziale; dal momento della conferma in poi, al contrario, gli intermediari finanziari non sono facoltizzati a mantenere la sospensione delle linee di credito in precedenza eventualmente decisa, a meno che dimostrino che essa è imposta dall’applicazione della disciplina di vigilanza prudenziale. E questa previsione, improntata a uno schietto favor debitoris, risulta giustificata dal fatto che il progetto di risanamento ha superato il vaglio dello scrutinio giudiziale; senza trascurare la verifica condotta dal tribunale circa la duplice esigenza di assicurare il buon esito delle trattative e di bilanciare l’interesse del debitore con il pregiudizio arrecato ai creditori, evitando una sproporzione fra essi.

Con riferimento a entrambi i suddetti momenti (prima e dopo la conferma delle misure) il decreto correttivo ha precisato che la prosecuzione del rapporto non è di per sé motivo di responsabilità dell’intermediario finanziario: e in tal modo si chiude il cerchio, per così dire, rispetto all’identico precetto contenuto alla fine dell’art. 16, c. 5, rispondendo la norma alla medesima finalità di evitare disincentivi alla concessione di quella liquidità che appaia necessaria al risanamento dell’impresa in crisi e coerente con il percorso da essa intrapreso.

Quanto infine ai profili prettamente interpretativi, va rilevato che l’espressione “contratti pendenti” adoperata dal c. 5 (e che si rinviene anche nell’art. 97 in tema di concordato preventivo) è stata riferita in dottrina a qualunque rapporto negoziale in corso di esecuzione, compresi quelli nei quali una delle prestazioni sia già stata effettuata; e in proposito si è invocato l’argumentum ab inconvenienti, essendosi osservato che, ove “così non fosse, nell’ipotesi di mutuo il soggetto erogatore potrebbe anticiparne la scadenza ex art. 1186 c.c. in ragione di una morosità anteriore alla pubblicazione dell’istanza, andando così a vanificare la finalità della norma”[35].

La formulazione del precetto poi, riferendosi espressamente al “mancato pagamento di crediti anteriori” rispetto alla pubblicazione dell’istanza di accesso alla composizione negoziata, induce a ritenere che il divieto posto dalla prima parte dell’art. 18, c. 5, non comprenda nel proprio ambito di operatività gli inadempimenti contrattuali successivi a detta pubblicazione, di tal che le banche, al pari degli altri creditori, sono autorizzate a reagire a tali inadempimenti (anche) attraverso quelle condotte che risultano invece precluse con riguardo agli eventi occorsi anteriormente a tale momento.

 

 



[1] Può invero trattarsi di impresa in pre-crisi, in crisi o anche già insolvente. Il chiarimento, definitivo sul punto, giunge dal riformulato art. 12, che richiama ora l’art. 2 c. 1, lett. a) e b), sebbene in dottrina ci si sia da tempo espressi in tal senso (all’indomani dell’introduzione dell’istituto S. Ambrosini, La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 23 agosto 2021), come pure, successivamente, in giurisprudenza. È chiaro che in questo modo si rinuncia a una più pregnante funzione “pedagogica” della composizione negoziata ai fini della tempestiva emersione della crisi (G. Limitone, Degiurisdizionalizzazione della crisi d’impresa e composizione negoziata: una figlia naturale non (ancora) riconosciuta. Con notazioni a margine, ivi, 17 maggio 2022), ma al tempo stesso, si persegue l’obiettivo – considerato preminente – di non escludere le imprese insolventi dall’ambito applicativo dell’istituto (che altrimenti sarebbe risultato fortemente ridotto) e di non introdurre elementi di perniciosa incertezza con riguardo al discrimine, sovente assai sottile, tra crisi e insolvenza.

[2] Sul tema cfr., ex aliis, G. Presti, Le banche e la composizione negoziata della crisi, in Banca Impresa Società, 2023, fasc. 1, 41 ss., nonché, più in generale, S. Bonfatti, Il sostegno finanziario alle imprese in crisi, Pisa, 2022. Per un accenno v. anche, da ultimo, I. Pagni, Il Decreto correttivo 13 settembre 2024, n. 136: una guida alla lettura, in dirittodellacrisi.it, 1° ottobre 2024, 4; R. d’Alonzo, La composizione negoziata nell’era del D.Lgs. 136 del 2024, ivi, 30 settembre 2024, 7 ss.

[3] Proprio la disciplina della composizione negoziata è stata fra quelle maggiormente interessate dal correttivo, a partire dalla norma-cardine dell’art. 12. Ed invero, l’inserimento al suo interno della previsione in base alla quale l’istituto “preserva, nella misura del possibile, i posti di lavoro” (voluto dalla Commissione Giustizia di Camera e Senato a valle delle audizioni tenutesi il 31 luglio ed il 1° agosto 2024, cfr., L’iter di approvazione del decreto correttivo: il parere della Camera, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 9 agosto 2024 e L’iter di approvazione del decreto correttivo: il parere del Senato, ivi, 8 agosto 2024; e per il suggerimento in tal senso cfr., Decreto correttivo: le audizioni parlamentari (Prof. Ambrosini), ivi, 7 agosto 2024) appare gravido, ad un tempo, di implicazioni sistematiche e di corollari applicativi: per un verso, infatti, il precetto conferma che si tratta dello strumento elettivo – insieme al concordato in continuità – a tutela della continuità aziendale e della conservazione almeno parziale dei livelli occupazionali (cfr., tra i primi, V. Minervini, La nuova “composizione negoziata” alla luce della direttiva “Insolvency”. Linee evolutive (extracodicistiche) dell’ordinamento concorsuale italiano, in Dir. fall., I, 251 ss.), per l’altro rende assai più difficilmente configurabile un progetto di piano di risanamento a contenuto liquidatorio, come invece una recente giurisprudenza di merito – discussa ed in effetti discutibile – aveva, prima dell’ultima novella, ritenuto (Trib. Perugia, 15 luglio 2024, in dirittodellacrisi.it).

[4] Formulazione, questa, che nel c. 4 diventa “tutti i soggetti interessati alla regolazione della crisi e dell’insolvenza”.

[5] Tra i primi a porre in evidenza la finalità perseguita dalla norma, a fronte di “tempi di reazione” oltremodo dilatati da parte di molti istituti di credito, Panzani, I doveri delle parti, in dirittodellacrisi.it, 14 settembre 2022, 24, il quale afferma che: “la regola deriva da un comportamento riscontrato nel sistema bancario per cui la disattenzione e la lentezza, che deriva da un’organizzazione che talvolta è eccessivamente burocratica, costituisce un ostacolo al raggiungimento di un accordo su un piano di ristrutturazione. Il legislatore ha fatto specifico riferimento all’ipotesi di cessione dei crediti bancari perché anche qui è accaduto, a seguito della cessione ai servicer degli NPL e degli UTP, che il debitore ceduto non sia stato in grado di trovare un interlocutore valido, in condizioni di riscontrare le sue proposte”.

[6] Così, tra gli altri, S. Feole, N. Nisivoccia, A. Colnaghi, La composizione negoziata della crisi, Milano, 2024, 12.

[7] Trib. Napoli Nord, 4 giugno 2024, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.

[8] S. Feole, N. Nisivoccia, A. Colnaghi, op. cit., 123

[9] Trib. Milano, 4 settembre 2024, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.

[10] Detto principio, come già altrove osservato (S. Ambrosini, Adeguatezza degli assetti, sostenibilità della gestione, crisi d’impresa e responsabilità della banca: alla ricerca di un fil rouge, in S. Ambrosini (a cura di) Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, Pisa, 2023, 1 ss.), appare intimamente connesso alla questione dell’adeguatezza degli assetti aziendali, perché è chiaro che la loro inadeguatezza, quando non addirittura la loro omessa predisposizione, è foriera di responsabilità in capo agli amministratori (e per mancata o negligente vigilanza anche ai sindaci) ove da ciò sia scaturito un danno ingiusto alla società o ai suoi creditori: potendosi al tempo stesso riscontrare, a ben vedere, gli estremi della responsabilità degli amministratori bancari nei confronti della società che gestiscono (e dei creditori di essa, in caso di default) per inadeguatezza degli assetti all’interno della banca stessa, giacché non di rado il contraltare delle lacune strutturali e organizzative dell’impresa abusivamente finanziata sta precisamente in un problema (se possibile ancor più grave) di inadeguatezza degli assetti dell’impresa bancaria (per lo più quando questa non presenta dimensioni elevate).

[11] Cfr., ex aliis, C. Avolio, Sub art. 16, in A. Maffei Alberti (diretto da), Commentario breve alle leggi su crisi di impresa e insolvenza, Padova, 2023, 101.

[12] Su questa rivista v., da ultimo, D. Crivellari, Gestione dei crediti in sofferenza. SMD e decreto legislativo 216/24, 30 settembre 2024; R. Cammarata, Verso un nuovo mercato dei crediti bancari non-performing: le principali novità del decreto legislativo n. 116/2024, 27 settembre 2024.

[13] Sulla rupture brutal du credit si veda già, nella dottrina francese del secolo scorso, M. Vasseur, La responsabilité civile du banquier dispensateur de crédit, 3e éd, Paris, 1978, passim. Per utili cenni al dibattito italiano sul tema cfr. A. Fodra, La buona fede nel recesso della banca nei contratti di apertura di credito, in Questione giustizia, 2017, 3, 158, la quale osserva: “In questo contesto resta aperta la domanda se il controllo giudiziale attraverso il canone della buona fede apra la porta solo alla tutela risarcitoria o consenta un intervento più radicale ed efficace. Non può infatti dimenticarsi che l’abusivo recesso può avere conseguenze esiziali per l’attività di impresa non riparabili ex post. E non può tacersi il fatto che a posteriori risulta particolarmente arduo ricostruire la catena causale degli eventi dannosi connessi all’eventuale illecito recesso. Perciò, particolarmente delicata si presenta la risposta alla domanda di tutela giudiziale non di rado invocata in sede cautelare (ex art. 700 cpc) quando al giudice è richiesto di intervenire in vario modo sugli effetti del recesso asseritamente abusivo allo scopo di evitare il prodursi di pregiudizi irreparabili per l’attività economica. Al giudice è anche in questo caso richiesto di sindacare la condotta della banca, di conoscere ed utilizzare anche in questo caso regole tecniche proprie dell’esercizio dell’impresa bancaria. Una pretesa particolarmente esigente”. In argomento v. anche G. Morini, Interruzione brutale del rapporto di credito e giustizia contrattuale. La responsabilità della banca, in ilcaso.it, 28 luglio 2018, cui adde, amplius, il pur più risalente lavoro di A. Castiello d'Antonio, La banca tra concessione abusiva e interruzione brutale del credito, in Dir. Fall., 2005, I, 765 ss. In giurisprudenza cfr., ex aliis, Cass., 16 aprile 2021, n. 10125, in italgiure.giustizia.it, la quale afferma che il recesso arbitrario e illegittimo della banca dal rapporto di apertura di credito configura una violazione della regola della buona fede in executivis, da cui scaturiscono due conseguenze: il diritto di recesso e l'esercizio dello stesso ad opera della banca sono in sé idonei a porre fine al rapporto, mentre la violazione del fondamentale canone di buona fede comporta unicamente conseguenze di tipo risarcitorio a carico della banca.

[14] Sul tema, in luogo di altri, S. Pacchi, Il concordato semplificato: un epilogo ragionevole della composizione negoziata, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 23 ottobre 2023; G. Bozza, Il concordato semplificato, in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, Bologna 2022, 307 ss.; G. Zanichelli, Il concordato semplificato introdotto dal d.l. n. 118 del 2021, convertito, con modifiche dalla l. n. 147 del 2021, in dirittodellacrisi.it, 9 novembre 2021.

[15] Ma quand’anche così fosse – e, come detto, si tratterebbe di una lettura irragionevolmente restrittiva – potrebbero pur sempre configurarsi finanziamenti prededucibili diretti alla conservazione del valore “statico” del compendio aziendale (debbo lo spunto a un breve scambio epistolare con Vittorio Zanichelli).

[16] V. Di Cataldo, Concordati e procedure alternative. Quale futuro?, in Giur comm., 2024, I, 492.

[17] V. Di Cataldo, op. cit., 494.

[18] Su cui cfr., tra gli altri, M. Palladino, La “gestione” del Fondo Centrale di Garanzia per le PMI nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, cit., 852 ss., cui adde, da ultimo, S. Pesucci, Fondi Pubblici per le PMI: quando una opportunità si trasforma in un rischio, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 4 ottobre 2024.

[19] Ferma la possibilità, pacificamente ammessa dal nostro ordinamento, di concorso fra i due tipi di responsabilità, con la precisazione che il concorso di colpa del danneggiato come fattore diminuente della responsabilità è fondatamente invocabile solo nell’ipotesi di azione esercitata dal curatore come successore nei diritti della società e non anche quando egli agisca utendo iuribus creditorum. Tale configurazione delle responsabilità in parola e il loro possibile “cumulo” sulla base dei diversi titoli invocabili consentono notoriamente alle curatele, all’atto pratico, di citare in giudizio sia gli amministratori della società fallita che la banca finanziatrice in concorso fra loro, sebbene l’abusiva concessione di credito possa ascriversi, in linea teorica, anche soltanto alla banca in virtù della regola della solidarietà passiva, non ravvisandosi un’ipotesi di litisconsorzio necessario. E con riguardo a queste tematiche cfr., su questa Rivista, E. Andreani, Adeguati assetti ex art 2086 c.c., valutazione creditizia ed evoluzione della relazione banca impresa, 24 ottobre 2023; R. Del Porto, Brevi note in tema di concessione abusiva di credito, 3 ottobre 2022; F. Sebastiano - S. Ceroni, Il fascino discreto della concessione abusiva di credito dopo il CCII, 13 novembre 2023.

[20] Trib. Padova, 23 luglio 2024, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.

[21] Fra gli altri, all’indomani della c.d. Direttiva Mifid, S. Ambrosini, La responsabilità della banca prima e dopo la direttiva mifid, tra profili di invalidità e rimedi risarcitori, in S. Ambrosini - P.G. Demarchi (a cura di), Banche, consumatori e tutela del risparmio, Milano, 2009, 76 ss.

[22]Cass., 5 agosto 2020, n. 16706, in Fall., 2021, 503 ss.

[23] G. Magri, Dallo scambio immorale allo scambio illecito, Torino, 2022, 12.

[24] P. Rescigno, In pari causa turpitudinis, in Riv. Dir. Civ., 1966, I, p. 1 ss.; S. Rodotà, Ordine pubblico, o buon costume?, in Giur. Merito, 1970, p. 105 ss.; G.B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, passim, cui adde i più recenti lavori monografici di A. Bellizzi, Contratto illecito, reato e irreperibilità ob turpem causam, Torino, 1999, p. 82 ss.; D. Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Milano, 1999, p. 93 ss. e G. Magri, Dallo scambio immorale allo scambio illecito, cit.

[25] Cass., 19 febbraio 2024, n. 4376, in Ilcaso.it.

[26] La Cassazione ricorda poi come sia stato “affermato da questa Corte, in termini sovrapponibili alla fattispecie concreta in esame, che "ai fini dell'applicazione della "soluti retentio" prevista dall'art. 2035 c.c., le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondono ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l'erogazione di somme di denaro in favore di un'impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all'imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l'esposizione debitoria dell'impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine "predatoria" nei confronti di soggetti economici in dissesto", così espressamente: Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16706 del 05/08/2020; v. anche: Sez. L, Sentenza n. 2014 del 26/01/2018; Sez. 3, Sentenza n. 9441 del 21/04/2010; Sez. 3, Sentenza n. 5371 del 18/06/1987”.

[27] Cass., 19 febbraio 2024, n. 4376, cit., ove si legge inoltre che si tratta di “indirizzo consolidato (Cass. s.u. 4414/1981, Cass. 5371/1987) che, inquadrando la disciplina unitaria della condictio indebiti, ne precisa il completamento con la norma di cui all'art. 2035 c.c., "la quale funge da limite legale all'applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una condictio ob iniustam causam, deve procedere d'ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell'atto o del contratto di cui abbia ravvisato l'illegalità o la contrarietà all'ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente ... che sono irripetibili, ai sensi dell'art. 2035 c.c., i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative" (Cass. 5 agosto 2020 n. 16706; Cass. 6 dicembre 2019 n. 31883). Detto altrimenti, "la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell'ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume"(v. Cass. 3 aprile 2018 n. 8169; Cass. 27 ottobre 2017 n. 25631), con la conseguenza che detta prestazione non può essere suscettibile di ripetizione, imponendosi l'applicazione dell'art. 2035 cod. civ.”.

[28] Trib. Vicenza, 22 aprile 2022, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.

[29] Trib. Asti, 8 gennaio 2024, in ristrutturazioniazeindali.ilcaso.it.

[30] Trib. Torino, 4 ottobre 2022, in ristrutturazioniazeindali.ilcaso.it.

[31] Cfr. E. Staunovo-Polacco, La nullità dei contratti per concessione abusiva di credito e aggravamento del dissesto, alla prova degli insegnamenti della suprema corte sulle nullità “virtuali”, in ristrutturazioniazeindali.ilcaso.it, 29 luglio 2024. E v. altresì vari saggi pubblicati sul tema in S. Ambrosini (a cura di), Assetti Aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, cit., 289 ss.

[32] P. Gallo, Ripetizione dell’indebito. L’arricchimento che deriva da una prestazione altrui, in Dig. Civ., Torino, 1998, 11.  

[33] C. Costabile, Sub art. 2035, in F. Di Marzio (diretto da), Codice civile, Milano, 2017, 2452.

[34] Senza necessità, quindi, di un’espressa statuizione giudiziale.

[35] P. Bortoluzzi, Sub art. 18, in A. Maffei Alberti (diretto da), Commentario breve alle leggi su crisi di impresa e insolvenza, Padova, 2023, 115. Si potrebbe tuttavia osservare che detta conclusione confligge con la scelta definitoria operata dal legislatore in tema di contratti pendenti (debbo lo spunto a una conversazione con Vittorio Zanichelli).