Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Conferma delle misure protettive e loro estensione al patrimonio di un garante disposto a fornire finanza esterna


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Articolo

Costituzione e imprese (in bonis e in crisi) a partire dal volume di Stefano Ambrosini. Brevi note a margine dell’art. 41 della Costituzione*


Raffaele Del Porto

Data pubblicazione
17 febbraio 2025

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Sommario: 1. Premessa; 2. L’art. 41 della Costituzione; 3. Alcuni spunti offerti dal testo dell’art. 41 Cost.; 4. Libertà di iniziativa economica e gestione sostenibile dell’impresa; 5. Ulteriori spunti offerti dalla legislazione nazionale (anche non recente).


1. Premessa.

Un anno fa circa, Stefano Ambrosini ha pubblicato il suo libro “L'impresa nella Costituzione”, dedicato a un tema che, per la verità, è stato oggetto di rari – anche se autorevoli – contributi dalla dottrina di matrice giuscommercialistica, ossia quello delle norme dedicate dalla Costituzione ai “Rapporti economici”.

È un libro che - a mio avviso - vale la pena di leggere e che si apprezza per l’indubbio interesse suscitato dagli argomenti trattati e per la brillantezza dell’indagine svolta dall’autore, ma anche dal punto di vista formale, per la serietà e il rigore scientifico con i quali affronta un tema delicato quale la disciplina costituzionale dell’attività economica (e quindi anche di quella di impresa).

Serietà e rigore scientifico che appaiono particolarmente apprezzabili in questi tempi in cui lo spettacolo di una politica opportunista, spesso “urlata”, approccia la Carta costituzionale con preoccupante disinvoltura, omettendo di accordarle il benché minimo rispetto.

Il che non vuol dire che non si possano muovere critiche al testo della Costituzione o evidenziare eventuali profili di inattualità/inadeguatezza di un testo normativo che a compirà a breve ottanta anni, ma che tale – legittimo – esercizio del diritto di critica esige il possesso di solidi strumenti tecnici e adeguate conoscenze.

Il libro sottolinea anche, opportunamente, la necessità di collocare il contesto storico in cui è stata elaborata la nostra Costituzione, che è quello della seconda metà degli anni ‘40, in cui l’Italia ha affrontato la propria ricostruzione all’indomani delle due rovinose esperienze (intimamente connesse fra loro) del ventennio fascista e della Seconda guerra mondiale.

Sulla scorta di tale premessa, l’autore mette bene in evidenza le tre anime che ispirano il testo della Costituzione, che sono (in ordine rigorosamente alfabetico): i) quella cattolica; ii) quella liberal/capitalistica; iii) quella social/comunista.

Tre anime che, all’epoca, sono ben più distanti rispetto ad oggi, atteso che: i) i cattolici non sono solo cristiano-sociali, ma, in buona parte, cattolici conservatori, fieramente anticomunisti, che vedono nel materialismo social/comunista una seria minaccia, fra l’altro, alla libertà religiosa; ii) in seno ai liberali vi sono capitalisti autentici, che ritengono fondamentali ed insopprimibili alcuni diritti/libertà di contenuto economico dell’individuo; iii) i comunisti sono comunisti “veri”, spesso filosovietici.

Mi sembra chiara la notevole distanza di queste tre forze su molte delle materie disciplinate dalla nostra Costituzione, distanza che diviene enorme quando si tratta di dettare le regole fondamentali dell’attività economica.

Emerge comunque ancora oggi, al di là di quella che può essere l’attualità delle soluzioni proposte, la grande importanza della lezione ricavabile dalla vicenda della assemblea costituente, che è quella del confronto fra forze (anime) enormemente distanti fra loro, confronto che a volte diviene scontro, ma che si traduce sempre nella ricerca di soluzioni condivise, ove anche chi prevale riconosce parte delle ragioni dell’altro, accordandogli alcune concessioni.

 

2. L’art. 41 della Costituzione.

Art. 41 Cost.:

«L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.»

 

È nota l’elaborazione, in seno alla costituente, di una diversa versione dell’art. 41, diretta a consentire un accentuato controllo pubblico delle attività economiche in funzione della realizzazione dei bisogni individuali e del benessere collettivo.

L’iniziativa non ha però avuto successo e il testo dell’art. 41 oggetto di approvazione definitiva rivela la matrice squisitamente liberal/capitalistica della soluzione adottata.

La regola è infatti quella - dettata dal primo comma - della libertà di iniziativa economica; il secondo comma prevede quali limiti a tale libertà il contrasto con l’utilità sociale o l’idoneità a recare danno ai valori indicati dal medesimo articolo, che sono, in origine, la sicurezza, la libertà e la dignità umana, cui si aggiungono solo nel 2022, con la legge costituzionale 1/2022, salute e ambiente.

Vi è poi il terzo comma, che, con il limite della riserva di legge, prevede la possibilità di programmi e controlli diretti ad indirizzare e coordinare il libero esercizio dell’attività economica a fini sociali (e poi ambientali, sempre ad opera della legge costituzionale 1/2022).

Risulta perciò confermata la chiara impronta liberale che ispira l’art. 41: la regola è quella della libertà di iniziativa economica; i limiti sono quelli – negativi - del contrasto con l’utilità sociale e del danno alla salute, all’ambiente, ecc. …; è infine prevista la possibilità dell’adozione di leggi che prevedano programmi e controlli in funzione dell’indirizzo e coordinamento a fini sociali e ambientali.

Di qui l’efficace sintesi di Piero Calamandrei (ricordata da Stefano Ambrosini), secondo la quale “per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”.

 

3. Alcuni spunti offerti dal testo dell’art. 41 Cost.

3.1. L’affermazione della libertà di iniziativa economica e non solo d’impresa.

Il chiaro tenore del primo comma dell’art. 41 conferma che è garantita la libertà di iniziativa economica che è cosa più ampia della libertà d’impresa.

L’attività d’impresa è difatti una particolare forma di attività economica, caratterizzata, quantomeno, dai requisiti della organizzazione e della professionalità.

Superfluo rilevare come quest’ultima attività, maggiormente strutturata, costituisca un più serio pericolo per i valori richiamati dal secondo comma dell’art. 41.

 

3.2. L’art. 41 non fa menzione dell’autonomia negoziale.

L’autonomia negoziale è, in effetti, cosa diversa dalla libertà di iniziativa economica, ma ne costituisce un complemento necessario.

Sembra innegabile, difatti, che non può esserci effettiva libertà di iniziativa economica se non c’è anche libertà, quantomeno tendenziale, di regolare autonomamente la sfera dei propri interessi.

L’osservazione vale poi, a maggior ragione, per la libertà d’esercizio dell’attività d’impresa, che risulterebbe inevitabilmente vanificata (meramente enunciata) qualora non si riconoscesse all’imprenditore la libertà, dapprima di avviare, e poi di gestire la propria impresa contrattando liberamente sul mercato.

La Costituzione non tutela tuttavia, espressamente, l’autonomia negoziale, alla quale non si può quindi riconoscere rango costituzionale e che può essere, di conseguenza, limitata anche in modo assai stringente.

 

3.3. L’ambiguità della formula del “contrasto con l’utilità sociale”.

La formula ha un reale significato?

Sono noti i dubbi manifestati dalla dottrina, che ne ha evidenziato l’ambiguità, definendola “anfibologica”.

È certo, tuttavia, che il limite è rappresentato – in termini negativi - dal contrasto con l’utilità sociale e risulta perciò scartata l’ipotesi della necessaria funzionalizzazione dell’iniziativa economica privata al perseguimento dell’utilità sociale.

Vedremo tuttavia, fra poco (infra, sub 4.), come alcuni spunti ricavabili dalla nostra legislazione (anche non recente) sembrerebbero rivelare la volontà del legislatore (anche sulla scorta di impulsi di matrice sovranazionale) di introdurre limiti alla libertà - soprattutto di impresa – addirittura funzionali alla utilità sociale, ponendo severi limiti alla possibilità di gestire l’impresa in un’ottica meramente egoistica, di massimizzazione del profitto di breve periodo.

Tali norme impongono difatti all’imprenditore (nuove) regole di condotta funzionali alla realizzazione di obiettivi di benessere collettivo, limitandone fortemente la libertà gestoria e, quindi, l’autonomia negoziale.

Resta però fermo che nel nostro ordinamento la regola - pur priva di rango costituzionale - resta quella dell’autonomia negoziale, alla quale lo stesso ordinamento può porre limiti anche assai stringenti, in assenza, peraltro, di un’espressa riserva di legge.

 

3.4. Il danno alla salute e all’ambiente.

Il testo originario dell’art. 41 non contemplava, come noto, il danno a “salute e ambiente”, parole che sono state aggiunte – assai di recente - dalla legge costituzionale 1/2022, che, ispirata da chiari sentimenti di accentuata sensibilità ambientale, ha anche introdotto il terzo comma dell’art. 9 e modificato il terzo comma dell’art. 41.

L’omissione originaria si giustifica considerando il contesto storico degli anni ‘40, caratterizzato dalle dimensioni ancora contenute delle attività industriali maggiormente inquinanti e, soprattutto, dalla limitatezza delle conoscenze tecnico scientifiche dell’epoca; la Costituzione, che pure ha definito fondamentale il diritto alla salute (art. 32), non si è preoccupata del possibile impatto dell’attività d’impresa su salute e ambiente.

Questo perché, all’epoca, per le ragioni indicate, il rischio non era ancora percepito ed appariva sufficiente prevedere che l’attività economica non recasse danno alla sicurezza. 

Il chiaro tenore del nuovo testo dell’art. 41, 2° comma, non consente oggi l’esercizio di attività economiche che rechino danno alla salute e all’ambiente e sembrerebbe quindi confermata quella prevalenza assoluta del diritto alla salute (e a un ambiente salubre, quale condizione indispensabile per non recare danno al diritto - anche individuale - alla salute) su quello di iniziativa economica, con importanti ricadute in termini di comparazione degli interessi contrapposti.

La norma sembra quindi dotata di un contenuto precettivo assai stringente, idoneo a indirizzare futuri interventi normativi (o giurisprudenziali) in situazioni di insanabile contrasto fra libertà di iniziativa economica, da un lato, e diritto alla salute e all’ambiente, dall’altro. 

 

4. Libertà di iniziativa economica e gestione sostenibile dell’impresa.

Tornando al tema dei rapporti fra libertà di iniziativa economica e utilità sociale, mi sembra utile rilevare come le riflessioni più attuali della dottrina giuridica ed economica in tema di gestione dell’impresa prestino sempre maggiore attenzione ai profili di sostenibilità della stessa.

Sono ormai noti gli acronimi di matrice anglosassone “CSR” (Corporate social responsability) ed “ESG” (Enviromental social governance) e sempre più diffusi i contributi in materia.

La dottrina della CSR si è affacciata, grossomodo negli anni ‘80, come dottrina minoritaria, riprendendo vecchi spunti, piuttosto deboli, che facevano leva, essenzialmente, su considerazioni di mera etica d’impresa.

Tale dottrina è rimasta decisamente minoritaria sino almeno ai primi anni 2000; con particolare riferimento al nostro paese, si è infatti evidenziato come la riforma del diritto societario del 2003 non abbia messo seriamente in discussione il primato del c.d. shareholder value, alla stregua del quale l’attività di impresa risulta essenzialmente finalizzata alla realizzazione del profitto, anche di breve termine, quale obiettivo legittimamente perseguito dall’imprenditore e, più in generale, dall’investitore.

A partire dagli anni 2000, e soprattutto all’estero, la nuova “ideologia” della CSR si è tuttavia decisamente rafforzata, agganciandosi a considerazioni di carattere non più (o non solo) etico, ma ad argomenti di carattere economico, che attribuiscono ruolo centrale nelle strategie di impresa ad investimenti di carattere reputazionale.

Si è, in particolare, osservato come le scelte strategiche che preferiscono, anche su base volontaria, modalità produttive rispettose dei diritti umani, dell’ambiente, della trasparenza nei rapporti con i soggetti pubblici, ecc. … appaiono razionali e convenienti anche sul piano economico, in quanto idonee ad elevare l’immagine dell’impresa e ad ispirare una fiducia di lungo periodo negli investitori e nei consumatori, assicurando all’impresa scenari di permanenza sul mercato più stabili.

Si è altresì osservato come l’adozione di particolari cautele nell’esercizio dell’attività produttiva e commerciale consente, in un’ottica di lungo periodo, di limitare i rischi di futura esposizione ad azioni di natura risarcitoria idonee a minacciare la stessa sopravvivenza dell’impresa.

Si pensi, ad esempio, alle attività caratterizzate da forte impatto ambientale, ove la mancata adozione di più idonee cautele potrebbe comportare, nel breve periodo, risparmi di costi anche apprezzabili, e quindi maggiori profitti, esponendo tuttavia l’impresa, nel futuro, al rischio di dover sostenere costi elevatissimi per spese di bonifica o per il risarcimento dei danni cagionati a terzi (per emissioni, smaltimento inadeguato di rifiuti ecc. …).

Si pensi alle conseguenze - anche di natura economica - dell’esercizio di eventuali class action, dirette a contrastare pratiche commerciali dell’impresa ritenute censurabili.

I limiti di queste brevi riflessioni non mi consentono di parlare più diffusamente di CSR o ESG; mi limito pertanto a segnalare quello che ritengo, ormai, un fatto compiuto: la dottrina della CSR non è più solo dottrina, ma si traduce, anche nel nostro ordinamento, in norme giuridiche, che si aggiungono alle precedenti, importanti esperienze di soft law, essenzialmente affidate queste ultime alle iniziative di autoregolamentazione di particolari categorie di imprese.

Sono note alcune legislazioni straniere, anche risalenti (fra le altre, il Companies act inglese del 2006, la Loi Pacte Francese del 2019).

Quanto al nostro ordinamento, come noto, è stato pubblicato il 10.9.2024 il d.lgs. 125/2024 di recepimento della direttiva 2022/2464/UE “CSRD” (Corporate Sustainability Reporting Directive), che introduce, sia pure gradualmente, il reporting di sostenibilità delle imprese, con l’obiettivo di modernizzare e rafforzare la disciplina sulle informazioni sociali e ambientali che le aziende sono tenute a divulgare per favorire una transizione verso un sistema economico, produttivo e finanziario sostenibile e inclusivo.

 La nostra legislazione (come quella di molti altri paesi) si sta quindi orientando verso la elaborazione di un nuovo modello di fare impresa; modello meno egoista, ove l’obiettivo della massimizzazione del profitto di breve termine cede il passo a nuovi criteri di gestione, disposti ad affrontare - nell’immediato - costi anche maggiori, ma funzionali al raggiungimento di obiettivi di benessere collettivo, quali quelli, già ricordati, di rispetto dell’ambiente, dei diritti di tutti i soggetti con i quali l’impresa si interfaccia (i c.d. stakeholders: clienti, fornitori, lavoratori dipendenti e loro rappresentanze, abitanti del territorio in cui l’impresa opera, ecc. …), di rapporti corretti e trasparenti con gli enti pubblici con cui l’impresa opera.

E questo, come ricordato, anche nell’interesse della stessa impresa, che se ne avvantaggia in termini non solo reputazionali, ma anche di stabilità e fiducia dei propri interlocutori.

Mi sembra quindi che si vada affermando un nuovo modello (anche normativo) di attività di impresa che va oltre la (vecchia) regola costituzionale del divieto di contrasto con l’utilità sociale e si dirige nel senso di una vera e propria funzionalizzazione di tale attività al raggiungimento di finalità sociali.

È necessario, ovviamente, non essere troppo ingenui ed aver chiaro che, a volte, certe affermazioni (provenienti, soprattutto, dal mondo dell’impresa) di attenzione alla sostenibilità sono, per l’appunto, mere enunciazioni, alle quali non seguono comportamenti coerenti.

Sul fronte delle legislazioni nazionali non si possono poi escludere repentini “passi indietro”; chiunque abbia letto un giornale o acceso un televisore negli ultimi giorni avrà registrato interventi - a dir poco sorprendenti, o meglio scoraggianti - del presidente degli Stati Uniti d’America, del tutto incompatibili con le più elementari (e condivise) regole di gestione sostenibile delle imprese.

Si tratta di un rischio che è stato ben evidenziato dagli autori più attenti (e sensibili) ai temi della CSR, che hanno sottolineato il problema della vera e propria irresponsabilità di molte manifestazioni della politica più populista, ispirata da valutazioni di carattere meramente opportunistico, nel contesto di attuale crisi delle democrazie occidentali.

Un atteggiamento opportunamente prudente non può non tener conto di questi rischi, ma, come è stato autorevolmente osservato, non si deve comunque cedere ad atteggiamenti di rassegnazione, che ritengano impossibile qualsiasi forma di progresso, giustificando, in definitiva, la rinuncia ad ogni tentativo in tal senso.

 

5. Ulteriori spunti offerti dalla legislazione nazionale (anche non recente).

Avviandomi rapidamente alla conclusione, ciò che mi preme sottolineare è come, a ben vedere, siano rintracciabili nella nostra legislazione, anche non recente, importanti “germi” di gestione sostenibile delle imprese, rintracciabili in norme che impongono all’imprenditore regole di condotta funzionali alla preminente tutela di interessi altrui.

Si pensi, ad esempio, alla disciplina relativa alle pratiche commerciali scorrette, a quella sull’abuso di dipendenza economica, alla disciplina consumeristica.

Con particolare riferimento ad un settore di mercato caratterizzato da particolare delicatezza, quale quello dei prodotti finanziari, meritano poi sicura attenzione quelle norme (contenute nel TUF e nei regolamenti CONSOB che si sono succeduti nel tempo) che impongono all’intermediario condotte di accentuata tutela degli interessi del cliente (si pensi, ad esempio, alla stringente disciplina degli obblighi posti a carico dell’intermediario in caso di operazioni inadeguate).

Nel peculiare settore del diritto della crisi, è necessario ricordare, innanzitutto, la sistematizzazione dell’obbligo di adottare adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili operata dal CCII, anche mediante le note modifiche immediatamente apportate al codice civile.

Particolarmente significative, a mio avviso, sono le modifiche apportate all’art. 2086 c.c.

La vecchia rubrica “direzione e gerarchia nell’impresa” è sostituita dalla nuova, più neutra, di “gestione dell’impresa”.

È, sì, confermato il primo comma dell’articolo, che esalta la posizione di supremazia, di comando, dell’imprenditore nella gestione della propria impresa, ma si aggiunge un secondo comma che pone a carico dell’imprenditore specifici doveri, con relative responsabilità.

Quanto poi all’obbligo di istituire assetti adeguati, non va trascurato che detto obbligo è stabilito “anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale” e che si aggiunge a detto obbligo quello, ulteriore, di “attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

L’obbligo di istituire assetti adeguati è perciò stabilito al precipuo fine di evitare che situazioni di mera crisi degenerino in insolvenza irreversibile e perciò, in definitiva, a tutela di interessi che non sono solo quelli dell’imprenditore alla conservazione della propria impresa (l’imprenditore sarebbe infatti libero di badare, nel modo ritenuto più opportuno, ai propri interessi, qualora fossero gli unici coinvolti), ma anche, e soprattutto, quelli dei suoi stakeholders (creditori, dipendenti, fornitori e clienti dell’impresa, risparmiatori che abbiano impiegato i propri risparmi nell’acquisto di quote di partecipazione nell’impresa collettiva, ecc. …); soggetti sicuramente pregiudicati dal definitivo declino dell’impresa.

Fra le tante norme del CCII, merita poi senz’altro menzione, quantomeno, l’art. 4, 2° comma, lettera c), a norma del quale, il debitore ha il dovere, fra l’altro, “di gestire il patrimonio o l’impresa durante i procedimenti nell’interesse prioritario dei creditori”.

Obbligo cui corrisponde, sul fronte opposto, quello contemplato dal quarto comma dello stesso articolo, gravante sui creditori, di “collaborare lealmente con il debitore, con l’esperto nella composizione negoziata e con gli organi nominati dall’autorità giudiziaria e amministrativa […]”.

Si pensi anche a quella sorta di parziale “espropriazione” di diritti imposta ai soci dalle varie norme dettate dall’art. 120 bis CCII.

Sul fronte giurisprudenziale, meritano poi d’essere segnalati alcuni recenti provvedimenti che, affrontando temi eterogenei di (pretesa) responsabilità degli organi gestori, di concessione di misure protettive o cautelari, ecc. …, richiamano espressamente tali doveri di collaborazione e ritengono quindi giustificati eventuali sacrifici sopportati dalle (o imposti alle) parti in contesa, perché funzionali al raggiungimento dell’obiettivo comune del salvataggio dell’impresa.

Si tratta di norme (o provvedimenti) che, ancora una volta, propongono – e a volte impongono – modelli di comportamento nella gestione della impresa non egoistici, e che mi sembra quindi possano ritenersi espressione - sia pure embrionale - di quella funzionalizzazione dell’attività economica al raggiungimento degli obiettivi di utilità sociale già considerati dalla nostra Costituzione, nei noti termini negativi dell’assenza di contrasto, di cui parlavo poc’anzi. 

 

(*) Il presente contributo riproduce, con l’aggiunta della bibliografia, il contenuto della relazione svolta al III Convegno annuale di Ristrutturazioni aziendali, tenutosi a Brescia il 27 gennaio scorso.


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