Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Conferma delle misure protettive e loro estensione al patrimonio di un garante disposto a fornire finanza esterna


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Articolo

Il discrimen tra concordato preventivo liquidatorio e in continuità *


Marco Arato

Data pubblicazione
21 febbraio 2025

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1. L’argomento è interessante e di attualità proprio alla luce del “nuovo” art. 84 CCI[1], come risultante dalle modifiche introdotte dal D. Lgs. 17.6.2022 n. 83 e dal D. Lgs. (cd. “correttivo”) del 13.9.2024 n. 136. Questa precisazione è molto importante perché il testo originario dell’art. 84 contenuto nel D. Lgs. 12.1.2019 n. 19, e mai entrato in vigore, era profondamente difforme non solo rispetto al testo attuale, ma anche rispetto all’elaborato finale della seconda Commissione Rordorf consegnato all’allora Ministro della Giustizia Orlando nel dicembre 2017.

La lunga gestazione ministeriale del CCI tra il dicembre 2017 e il gennaio 2019 (accompagnata da un importante cambio di maggioranza politica con la prepotente entrata in scena dei 5Stelle nel primo governo giallo-verde presieduto da Conte) aveva inciso profondamente su alcune parti del CCI e, in particolare, sul concordato preventivo perché aveva subordinato l’applicazione delle norme sul concordato in continuità al rispetto (i) di una serie di parametri occupazionali (mantenimento di più della metà degli occupati nell’ultimo biennio) (ii) del criterio di prevalenza della continuità in caso di concordato misto e aveva previsto una norma poco chiara in caso di stipula di un contratto di affitto dell’azienda in concordato formalizzato prima o in corso di concordato, quasi che l’affitto dell’azienda a terzi facesse venire meno il requisito della continuità.

Come è noto, la versione del 2019 del CCI era entrata immediatamente – e opportunamente - in vigore solo per le norme sulla governance (art. 2086 c. 2 c.c. e sue specificazioni per i vari tipi di società) ed era stata prevista una vacatio legis fino all’agosto 2020 per l’entrata in vigore della restante parte del Codice. La pandemia COVID – che, come noto,  per alcuni mesi aveva addirittura “vietato” il fallimento anche in proprio – ha poi fatto slittare ulteriormente la sua entrata in vigore, fino a quando, da un lato il cambio di governo prima giallo-rosso poi tecnico presieduto da Draghi, e dall’altro lato l’entrata in vigore della Direttiva Insolvency e l’istituzione della Commissione Pagni per il suo recepimento nell’ordinamento italiano, hanno portato all’emanazione del D.Lgs. 17.6.2022 n. 83 che contiene l’attuale testo dell’art. 84, ulteriormente e leggermente modificato al c. 6 del correttivo del settembre 2024.

Perché ho fatto questa lunga e un po' pedante premessa? Perché la presenza di un testo di legge – non in vigore, ma che all’epoca si pensava fosse di prossima entrata in vigore – aveva indotto molta giurisprudenza di merito ad applicare e interpretare de iure condendo norme che all’epoca non erano in vigore. Penso, ad esempio, ad un decreto di omologa di un concordato preventivo da parte del Tribunale di Milano del 9/13.9.2021 in cui si afferma che la proposta va omologata perché rispetta sia il criterio prevalenza continuità/liquidazione sia il parametro occupazionale previsto dall’art. 84. E penso anche a giurisprudenza di merito che di fronte ad un “concordato misto” in continuità e liquidatorio applicava il criterio di prevalenza all’epoca previsto dall’art. 84 (non in vigore), in contrasto con la giurisprudenza della cassazione del 2020[2] che però applicava l’allora vigente art. 186 bis l.f.  E, infine, penso a quella giurisprudenza di merito[3]  che considerava liquidatorio un concordato in cui l’azienda era affittata a terzi, sulla base di un poco chiaro inciso di una norma non in vigore.

Un primo insegnamento va tratto da questo excursus storico: gli interpreti, compresi i giudici, è bene che si limitino ad applicare il diritto vigente e devono usare molta attenzione nell’applicare come canone interpretativo norme non ancora in vigore (e, nel caso che ci occupa, che fortunatamente non sono mai entrate in vigore).

 

2. Fatte queste premesse, si possono sviluppare alcune considerazioni sulla differenziazione di fattispecie e di disciplina tra concordato in continuità e concordato liquidatorio e si possono esaminare alcune fattispecie di concordato in relazione ad alcune particolari categorie di imprese: le società immobiliari e le holding.

La finalità del concordato preventivo (o meglio, una delle finalità del concordato preventivo) è quella di garantire ai creditori un soddisfacimento in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale. Il CCI menziona espressamente due tipologie di concordato attraverso cui perseguire la finalità in questione: il concordato in continuità e il concordato liquidatorio. A queste si aggiunge il c.d. concordato misto, un tertium genus, di creazione giurisprudenziale ma la cui definizione come concordato misto è stata contestata dalla Suprema Corte[4].

A ben vedere, l'art. 84 comma l CCI[5] cita tre categorie di concordati: il concordato con assunzione, il concordato in continuità e il concordato liquidatorio, affiancando a queste anche la soddisfazione dei creditori “in qualsiasi forma”. Ad avviso di chi scrive, e come si ribadirà infra, a prescindere dalle concrete modalità di soddisfazione dei creditori, i piani concordatari sono tutti riconducibili al dualismo continuità - liquidazione.

La tipologia di concordato che può considerarsi come prevalente, anche alla luce della quantità di norme del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza che vi sono dedicate, è quella in continuità aziendale[6]. Infatti, come si dirà più approfonditamente nel prosieguo, è palese un favor da parte dell'ordinamento giuridico nei confronti di questo tipo concordatario.

Passando ora ad un’analisi della prima di queste "categorie concordatarie" è utile citare quanto precisato nella Relazione illustrativa al D. Lgs. 14/2019, che specifica che il concordato in continuità aziendale rappresenta “l’opzione che la nuova disciplina della crisi valorizza maggiormente in quanto finalizzata al recupero della capacità dell'impresa di rientrare, ristrutturata e risanata, nel mercato.

Il concordato con continuità aziendale è infatti proteso a ripristinare l’equilibrio economico finanziario dell'impresa mantenendola sul mercato attraverso un piano che preveda l'estinzione dei debiti con le risorse provenienti dalla prosecuzione dell'attività aziendale, preservando inoltre, ove possibile, i posti di lavoro. Coerente con la natura del concordato in continuità è l'art. 47, comma 1, lett. b), CCII che prevede che il sindacato del giudice debba riguardare l'idoneità del piano non solo rispetto alla soddisfazione dei creditori, ma anche con riferimento alla conservazione dei valori aziendali: qualora questi requisiti non sussistano, la domanda di accesso alla procedura concordataria dovrà ritenersi inammissibile.

In primis, va segnalato che la continuità va intesa in senso oggettivo, ciò che rileva per la qualificazione del concordato in continuità è il fatto che l’attività di impresa possa proseguire anche dopo l’omologazione.

A questo riguardo si distingue tra continuità diretta quando è l'imprenditore che ha proposto la domanda di concordato a gestire in proprio l'azienda; e continuità indiretta, quando la gestione dell'azienda è nelle mani di un soggetto diverso dal debitore.

Un ulteriore criterio di distinzione tra continuità diretta e continuità indiretta riguarda invece il reperimento delle risorse destinate ai creditori della procedura. Infatti, mentre nella prima ipotesi il debitore pone a disposizione dei creditori (quanto meno) i flussi derivanti dall'attività aziendale, nel caso di continuità aziendale indiretta la soddisfazione dei creditori avviene tramite il prezzo della vendita, il canone, gli utili o il prezzo di vendita delle quote di partecipazione (a seconda che si tratti di cessione, usufrutto, affitto, o conferimento in società anche di nuova costituzione o a qualunque altro titolo).

La differenza principale tra il concordato in continuità e il concordato liquidatorio è data dalle modalità di soddisfazione dei creditori. Nel concordato in continuità i creditori devono essere soddisfatti, anche se in misura non prevalente, attraverso i ricavi prodotti dalla continuità aziendale, senza la previsione di una percentuale minima di soddisfazione, mentre nel secondo caso è prevista una soglia minima di soddisfacimento dei creditori e la messa a disposizione di risorse esterne a favore dei creditori.

 

3. Nell’ambito del concordato liquidatorio[7], il debitore non prosegue l’attività di impresa e il soddisfacimento dei creditori si realizza attraverso la cessione dell'azienda o di suoi rami o l’alienazione di beni.

Posto che il concordato liquidatorio persegue lo stesso risultato realizzabile con la liquidazione giudiziale (e all’interno della Commissione Rordorf vi era chi voleva addirittura eliminare il concordato liquidatorio ritenendolo un inutile e più costoso doppione della liquidazione giudiziale), il legislatore richiede che per la sua ammissibilità vi sia un incremento, proveniente da risorse esterne, di almeno il 10% all'attivo disponibile al momento della presentazione della domanda e che sia assicurato il soddisfacimento dei crediti chirografari e dei crediti privilegiati degradati per incapienza in misura non inferiore al 20% del loro ammontare complessivo. In sostanza, il legislatore richiede che il debitore si attivi presentando un piano fattibile per i creditori e, reperendo finanza esterna, che renda la scelta della procedura di concordato preventivo migliore rispetto a quella della liquidazione giudiziale.

La parte finale del quarto comma dell'articolo 84 precisa che si considerano esterne le risorse apportate dai soci a qualunque titolo, a condizione che non vi sia obbligo di restituzione ovvero, ove sussistente tale previsione, che il credito venga postergato e quindi che il piano preveda la destinazione a vantaggio dei creditori concorsuali. Naturalmente tale precisazione non significa che le risorse esterne siano unicamente quelle apportate dai soci, ma il legislatore ha voluto precisare che i soci possono apportare finanza esterna a vantaggio della procedura, solo a determinate condizioni.

Completavano la disciplina del concordato liquidatorio i commi 8 e 9 dell’articolo 84 ora abrogati dal recente correttivo ma assorbiti dal disposto dell’art. 114 che prevede la nomina di uno o più liquidatori e di un comitato di creditori. Inoltre, quando il piano prevede l’offerta di acquisto da parte di un soggetto individuato (avente ad oggetto singoli beni, l’affitto o il trasferimento in suo favore anche prima dell’omologazione, dell’azienda o di uno o più rami d’azienda), il tribunale determina le modalità attraverso le quali il liquidatore dà idonea pubblicità delle offerte al fine di acquisire offerte concorrenti.

 

4. Il concordato c.d. misto fa invece riferimento ad un concordato con un contenuto complesso il cui piano prevede, parallelamente ad una continuazione diretta dell’attività di impresa, la liquidazione dei beni che non si presentano come funzionali all'esercizio della stessa.


Nel vigore della legge fallimentare, il cui art. 186 bis disponeva espressamente che il piano in continuità potesse prevedere la liquidazione di beni non strumentali, i tribunali si erano interrogati sulla disciplina applicabile a questa fattispecie. Una certa giurisprudenza, fautrice della teoria “della prevalenza” o “dell'assorbimento”, aveva ritenuto che dovesse trovare applicazione la disciplina del concordato con continuità aziendale nella sola ipotesi in cui la maggior parte delle risorse utilizzate per la soddisfazione dei creditori provenisse dalla continuazione dell'attività di impresa[8]. Secondo altre decisioni invece, in presenza di (una qualunque forma di) continuità dell'attiva di impresa doveva comunque applicarsi la disciplina inerente al concordato con continuità aziendale, a prescindere dalla consistenza delle risorse destinate alla soddisfazione dei creditori da essa provenienti[9]. Alcuni tribunali ancora avevano optato per una sovrapposizione delle diverse regole[10]. Nel vigore della legge fallimentare, la Suprema Corte, invece, aveva ritenuto che, ove il piano prevedesse la liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa, unitamente ad una componente di continuazione dell'attività, deve applicarsi la disciplina di cui all'art. 186 bis l.fall., che non prevede alcun giudizio di prevalenza bensì una mera valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della prosecuzione totale o parziale dell’attività d’impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori[11].

In conformità a quanto statuito dalla Suprema Corte, l’articolo 84 CCII nella sua formulazione attuale, abbandonato il riferimento al criterio della prevalenza, prevede che nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta. Ciò implica che, anche ove il piano preveda la liquidazione di beni non funzionali alla prosecuzione dell’attività, l’entità del ricavato derivante dalla liquidazione distribuito ai creditori (anche se rappresenta la parte preponderante dell'attivo) è ininfluente rispetto alla qualificazione del concordato che resta in continuità. In questo senso, possiamo dire che il legislatore del 2022 abbia voluto abbandonare la disciplina di un terzo tipo di concordato, ovvero il concordato misto, limitandosi a prevedere unicamente il concordato con continuità e il concordato liquidatorio.

Si segnala, infine, che l’irrilevanza della prevalenza dei flussi della continuità rispetto a quelli derivanti dalla liquidazione ai fini dell’applicazione della disciplina della continuità si applica anche al concordato di gruppo ai sensi dell'art. 285 CCI (modificato dal cd. “correttivo” in quanto precedentemente nel concordato di gruppo vigeva il principio della prevalenza)[12].

Si aggiunga, infine, che la fattispecie dell’affitto dell’azienda che, secondo alcuni giudici, poteva incidere sulla qualificazione del concordato, fino al punto di ritenere – erroneamente e con interpretazioni irragionevolmente punitive del debitore – che in caso di affitto dell’azienda il concordato fosse liquidatorio, è stata disciplinata dall’art.. 84 c. 2 che ora prevede che il concordato sia in continuità indiretta “se è prevista dal piano la gestione dell’azienda … in fase di affitto, anche stipulato anteriormente, purchè in funzione della presentazione del ricorso o a qualunque altro titolo”. La norma ha recepito quello che era l’orientamento della Cassazione[13]. Si tratta di una previsione oramai chiara e in qualche modo dirimente rispetto a fantasiose interpretazioni (che spero siano definitivamente superate).

Ovviamente se il contratto di affitto è stipulato in corso di procedura, dovranno essere esperite  procedure trasparenti e competitive per la scelta dell’affittuario (v. art. 91 c. 2 CCI).

 

5. Qualora la proposta di concordato riguardi una società immobiliare la cui attività consiste nella ristrutturazione/costruzione/compravendita di immobili ci si è posti il dubbio se un piano basato sulla vendita di immobili ristrutturati previo completamento della ristrutturazione integri una fattispecie di concordato liquidatorio o meno. E’ difficile dare una risposta a priori in quanto occorre esaminare attentamente il piano di concordato. Non c’è dubbio che la presenza di un’attività liquidatoria possa far propendere per la riconduzione della fattispecie a un concordato liquidatorio. Tuttavia, ove l’attività della società prosegua, seppur in forma ridotta dopo la vendita degli immobili, in quanto la società prevede di continuare ad acquistare/ristrutturare immobili, e ciò indipendentemente dalla prevalenza dell’attività liquidatoria, il concordato è in continuità. Si veda al riguardo Cass., 1.3.2022 n. 6772, cit., che ha esaminato una fattispecie in cui la società proponente riteneva che il piano integrasse un concordato liquidatorio e, pertanto, non aveva presentato l’attestazione (all’epoca non necessaria per il concordato meramente liquidatorio). Il Tribunale aveva ritenuto inammissibile la proposta in quanto si trattava di una proposta di concordato in continuità sprovvisto di attestazione. La Corte d’Appello e la Cassazione hanno poi confermato a decisione di primo grado e la Suprema Corte ha affermato che “il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvo in caso di abuso, dalla disciplina speciale dell’art. 186 bis l.f. che al comma 1 espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito”[14].

Pertanto anche se il piano prevedesse l’alienazione atomistica ma ordinata dell’intero patrimonio immobiliare, ma nel contempo prevedesse che il ricavato dalle vendite sia destinato alla realizzazione di ulteriori operazioni immobiliari, ci troveremmo pur sempre di fronte a un concordato in continuità diretta. D’altronde, l’oggetto dell’immobiliare riguarda esattamente la compravendita di immobili.

 

6. Infine occorre chiedersi in che cosa possa consistere il piano di concordato di una holding. In una fattispecie fattualmente molto complicata, il Tribunale di Bologna[15]  ha dichiarato il fallimento di una holding in quanto il piano di concordato non prevedeva lo svolgimento “di un’effettiva attività imprenditoriale, poiché la stessa si limita sostanzialmente alla percezione degli utili derivanti da una controllata e ai benefici auspicati dal consolidato fiscale”. Siccome la proposta di concordato asseritamente in continuità prevedeva una soddisfazione dei creditori chirografari al 16%, inferiore a quella che era allora il limite minimo di soddisfazione nel concordato liquidatorio, pari al 20%, il tribunale, ritenendo di trovarsi di fronte a una proposta liquidatoria, ha dichiarato il fallimento della società a fronte dell’istanza presentata dalla procura della repubblica.

La decisione si inserisce in una fattispecie estremamente complicata, con continui mutamenti del piano e addirittura con un cambio di attestatore in corsa, anche a seguito dell’attestazione negativa del precedente attestatore in merito a un finanziamento prededucibile, tutte circostanze che sicuramente hanno evidenziato una fragilità della situazione del debitore e che hanno indotto il Tribunale a porre fine all’esperienza concordataria. Tuttavia, l’affermazione del Tribunale secondo la quale una holding sostanzialmente priva di struttura amministrativa e organizzativa che vive di dividendi (e opera alcune dismissioni) svolge un’attività liquidatoria, lascia perplessi. Come è noto, l’attività di impresa della holding è rappresentata dallo svolgimento dell’attività di direzione e coordinamento delle controllate. E la circostanza che la holding viva di dividendi non significa che non fa attività imprenditoriale, altrimenti verrebbe addirittura snaturata l’attività della holding stessa. Quel che conta è il ruolo stesso della holding, che può anche dismettere delle partecipazioni, ma ciò non significa che il concordato divenga liquidatorio se l’attività di direzione e coordinamento della holding, e cioè la sua essenza stessa, prosegue. Altrimenti si verrebbe a negare in modo irragionevole l’essenza della holding, quasi che svolga attività di mero godimento delle partecipate.

La circostanza che all’epoca della decisione bolognese che qui si commenta non fosse ancora in vigore il concordato di gruppo ha sicuramente inciso sulla decisione, circoscritta all’esame di una fattispecie in cui una holding si limitava a percepire dividendi e a vendere delle partecipazioni. Ciononostante, ritengo che anche se l’attività di direzione e coordinamento della holding fosse limitata alla percezione di dividendi, alla cessione di partecipazioni e alla gestione delle partecipazioni residue, beneficiando anche del consolidato fiscale, ci troveremmo di fronte a una attività di impresa che prosegue e che ben può consentire l’accesso a un concordato in continuità.

 

(*) Il presente contributo riproduce, con l’aggiunta delle note, il contenuto della relazione svolta in data 30.1.2025 nell’ambito del Corso di Formazione AOID.

[1] Su cui cfr., da ultimo, M. Arato, Il concordato preventivo, in O. Cagnasso, L. Panzani (diretto da) Crisi d'impresa e procedure concorsuali, Torino, 2025, 1577 ss.

[2] Cass., 15.1.2020, n. 734, in Fall. 2020, 477, con nota adesiva di Brogi.

[3] App. Firenze, 5.4.2017 in Altalex; Trib. Monza, 11.6.2013 in ilcaso.it.

[4] Cass., 15.1.2020, n. 734, cit.

[5] M. Arato, Sub art. 84, in G. Di Cecco, D. Spagnuolo, P. Valensise (a cura di), Il Codice della Crisi. Commentario, Torino, 2024, 494 ss; S. AMBROSINI, Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano: gli interessi protetti e lo “statuto” della continuità aziendale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 10 marzo 2024.

[6] S. Ambrosini, La continuità aziendale tra diritto contabile e nuovo concordato preventivo: profili ricostruttivi di fattispecie e disciplina, in corso di pubblicazione su Giur. comm., 2025.

 

[7] G. Bozza, Il concordato liquidatorio, in Fall., 2020, 1223 ss.; G.P. Macagno, Il concordato preventivo liquidatorio, in S. Ambrosini (a cura di), Le crisi d'impresa e del consumatore, Bologna, 2021, 276 ss.; M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d'impresa, Piacenza, 2024, 262 ss.

[8] Trib. Milano, 13.2.2020, in Fall., 2020, 713.

[9] Trib. Venezia, 5.7.2018, in Fallimento e società.

[10] App. Trieste 20.4.2017, in Jus.

[11] Cass., 15.1.2020, n. 734, cit.

[12] M. Arato, La conservazione dei valori aziendali e le liquidazioni nelle procedure di gruppo, in Fall., 2023, 1477 ss.

[13] Cass., 1.3.2022, n. 6772, in Fall., 2022, 1049.

[14] Cass., 1.3.2022, cit.

[15] Trib. Bologna, 5.7.2021, n. 72, in ilcaso.it.