, 09 settembre 2021, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Le peculiarità dell’accesso al credito per l’impresa in crisi. 2. Le necessità di maggiori accantonamenti ed i conseguenti limiti operativi delle banche nell’erogazione creditizia. 3. La funzionalità della composizione negoziata al buon funzionamento dei tavoli. 4. Le cautele nell’utilizzo del nuovo percorso. 5. Elementi di riflessione.
1. Le peculiarità dell’accesso al credito bancario per l’impresa in crisi.
È esperienza comune degli advisors finanziari che - nell’ambito dei tavoli negoziali tra ceto bancario e imprese in difficoltà finanziaria - le problematiche di accesso al credito si pongano in modo direttamente proporzionale alla percezione da parte degli intermediari finanziari del livello di rischio relativo alla prosecuzione della prestazione creditizia, specialmente in presenza di elevata incertezza sulla continuità aziendale ovvero probabilità di insolvenza.
A fronte di questa incertezza, talvolta conseguente ad un’insufficiente e/o inadeguato set informativo iniziale sulle condizioni patrimoniali, economiche e finanziarie dell’imprenditore, altre volte derivante dalla emersione di patologie nel ricorso al credito da parte del debitore[1], l’atteggiamento più frequente degli istituti di credito è di grande prudenza. Non di rado si assiste alla riduzione dell’accordato sulle linee di breve termine ad un importo pari agli utilizzi pro-tempore[2], sia nella modesta - per non dire nulla - propensione a consentire il tiraggio di linee di breve a primo rischio[3] (ovvero prive di garanzie, come ad esempio fido di cassa o finanziamenti all’importazione o anticipi ordini).
Nei casi di maggiore difficoltà nel comprendere le reali prospettive di risanamento dell’impresa, ovvero in presenza di eventi che preludono all’insolvenza (incluso il deposito di concordati in bianco ai sensi del sesto comma art. 161 L.F.) si può assistere inoltre ad un fenomeno, quello della sospensione degli affidamenti, che assume natura intermedia rispetto alla loro revoca. La sospensione può essere formalizzata in forma scritta, tramite una PEC o semplice e-mail, ovvero risultare – di fatto – dal rifiuto o dagli ostacoli spesso insuperabili opposti da parte dell’istituto rispetto all’esecuzione delle anticipazioni.[4]
Le conseguenze sui livelli di credito disponibile sono dunque fortemente correlate da un lato alla qualità delle informazioni, dall’altro agli innegabili rischi – anche di natura penale – derivanti alla banca da una erogazione di credito in assenza dei presupposti che vi condurrebbero.[5]
2. Le necessità di maggiori accantonamenti ed i conseguenti limiti operativi delle banche nell’erogazione creditizia.
Se, e nella misura in cui, il peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie del debitore sia stato considerato dall’istituto di credito un evento che conduca alla classificazione dei crediti sottostanti come inadempienze probabili – c.d. unlikely to pay – la policy dell’istituto di credito condurrà verso un contenimento dell’esposizione verso l’impresa, nonchè una modestissima propensione all’assunzione di nuovi impegni di finanziamento. A fronte di tale atteggiamento, le richieste non solo di nuove prestazioni creditizie (sotto forma, ad esempio, di nuovo credito di firma ovvero di erogazione di finanziamenti più o meno garantiti) ma anche di mera prosecuzione delle medesime devono essere valutate da parte della banca di fronte all’alternativa di interrompere l’attività di finanziamento al debitore.
I regolamenti creditizi non sempre pongono la banca in condizioni di scegliere: qualora non siano ancora chiare le prospettive di risanamento, la banca non sarà in condizione di adottare alcuna nuova delibera.
Tale atteggiamento di contenimento degli affidamenti non è da valutarsi esclusivamente alla luce della rilevanza della prosecuzione in vista di possibili reati di abusiva concessione di credito (da valutarsi eventualmente insieme all’abusivo ricorso al credito da parte del debitore), ma anche e soprattutto delle guidelines relative al credito deteriorato e alle relative policies interne all’istituto. L’orientamento prevalente del regolatore europeo rispetto al contenimento dei crediti deteriorati – misurati quasi sempre sulla base del GBV[6] - comporta una generale propensione al rifiuto di ulteriori erogazioni creditizie; qualora le prospettive di risanamento fossero gravemente incerte ovvero compromesse, la banca avrebbe infine l’onere di classificare il credito a sofferenza, e intraprendere le azioni di recupero del medesimo[7].
Gli accantonamenti per il rischio di credito che la banca deve operare sono frutto della valutazione da parte di quest’ultima circa la capacità prospettica di adempiere del debitore,[8] ovvero riguardo la probabilità per l’impresa di pagare regolarmente alle scadenze previste il capitale e gli interessi.[9] Laddove queste valutazioni – espresse alla data di concessione del credito originaria[10] – debbano cambiare nel tempo a causa di un incremento significativo del rischio di credito, la banca sarà costretta ad attualizzare il rischio di default per la intera durata utile del finanziamento.[11] Quando dovesse concludere per l’esistenza di una ragionevole probabilità di incassare il credito solo tramite l’escussione delle relative garanzie, ovvero a fronte di scaduti rilevanti[12], la banca classificherà a default il credito stesso, incrementando ulteriormente gli accantonamenti.
Va tuttavia rilevato che le variazioni del rischio di credito (intese come fattori di migrazione tra uno stage e l’altro) possono essere bidirezionali: come il rischio di credito può aumentare a causa di eventi SICR, esso può anche diminuire in funzione delle scelte compiute dall’imprenditore[13] e/o del migliorato contesto informativo, maggiormente idoneo a far percepire una diversa e migliore probabilità di recupero del credito.[14]
Di fronte a questo quadro regolamentare, che obiettivamente può ostacolare il ricorso al credito da parte dell’impresa più o meno in crisi, il legislatore è sino ad oggi intervenuto a tutela degli intermediari finanziari (ma, indirettamente, anche dell’imprenditore e degli organi societari) esclusivamente in una sede fisiologicamente protetta, vale a dire all’interno della Legge Fallimentare.
Qualora la concessione di credito si connoti solo per il rischio di revocatoria e per le eventuali conseguenze di carattere penale, la sua inclusione nell’ambito di un piano attestato ai sensi dell’art. 67 conduce ad escludere l’esercizio dell’azione revocatoria e a garantire una copertura dai reati.[15]
Nel caso in cui l’intermediario creditizio ravvisi non solo possibili profili penali e di revocabilità, ma anche veri e propri rischi creditizi, l’imprenditore – nell’ambito tuttavia dei soli concordati preventivi ed accordi di ristrutturazione dei debiti, potrà chiedere l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili ai sensi dell’art. 111 L.F. per effetto dell’espresso richiamo previsto all’art. 182-quinques L.F..
Non è dunque infrequente che, a fronte di una rilevante incertezza sulla continuità aziendale (e in ogni caso del rischio di un successivo fallimento) gli istituti di credito, anche alla luce delle considerazioni svolte sopra, in attesa di avere maggiori informazioni orientino il proprio atteggiamento creditizio alla maggiore prudenza possibile, anche a scapito della possibilità per l’impresa di attingere a piene mani agli affidamenti tecnicamente accordati e ancora astrattamente fruibili da parte del mutuatario.
L’imprenditore sarà dunque di fronte al dilemma se tentare un concordato in bianco per proteggere le banche e tentare di accedere a finanziamenti prededucibili (senza la certezza né che il tribunale autorizzi, né che le banche eroghino), ovvero proseguire la negoziazione con un credito bancario ridotto.
Solo una volta ricevute le informazioni riguardo al piano industriale dell’impresa e alla conseguente manovra finanziaria, le banche riusciranno infatti a comprendere quali sono le prospettive di recupero dei propri crediti e dunque, in funzione del livello di rischio percepito, potranno decidere in modo informato quale livello di accesso al credito concedere al debitore.
Si assiste dunque ad una prima fase negoziale in cui l’impresa – spesso non ancora munita di un adeguato diagnostico della crisi di impresa e nemmeno di proiezioni finanziarie di breve periodo – richiede alle banche di mantenere l’accesso al credito (talvolta congelando l’esposizione di medio periodo e dunque non dando luogo a rimborsi), in attesa di fornire alle banche stesse informazioni più dettagliate e un piano di risanamento.
In questo periodo, che talvolta può durare mesi, la condizione finanziaria dell’impresa talvolta si deteriora, a causa delle limitazioni all’accesso al credito conseguenti all’incertezza, e non è infrequente che - quando ciò sia preceduto da rilevanti anomalie che già comportavano un ridotto accesso al credito - ci si possa trovare di fronte ad una vera e propria crisi di liquidità che riverbera i propri effetti sul rapporto con i fornitori ed a volte gli stessi dipendenti, innescando un circolo vizioso. I fornitori, infatti, vistesi insolute le ricevute bancarie, inizieranno a richiedere pagamenti alla consegna, e con ciò incrementando il fabbisogno finanziario dell’impresa, la quale non aveva già la liquidità in precedenza e dunque è costretta ad acquistare meno, vendere meno, e presentare meno fatture all’anticipo – si crea in questo modo l’anticamera dell’insolvenza.
Va infine considerato che – in mancanza delle tutele sopra evidenziate – vi è una comprensibile tendenza da parte del sistema bancario a istituzionalizzare la crisi, richiedendo un intervento di controllo del tribunale a tutela degli intermediari, che spesso può portare l’imprenditore ad optare per il deposito di un concordato in bianco che consenta all’impresa di richiedere al tribunale l’autorizzazione a contrarre (rectius a proseguire) finanziamenti prededucibili, quasi sempre di tipo autoliquidante. La conseguenza implicita di questo percorso è tuttavia un fortissimo – inevitabile – impatto sulla supply chain, derivante dal blocco dei pagamenti che consegue al concordato in bianco, con rilevantissime ripercussioni non solo nei rapporti con i fornitori ma anche con i clienti, che talvolta si vedono costretti a cambiare interlocutore a causa dei ritardi ovvero della impossibilità di esecuzione delle forniture che si è ingenerata nell’impresa in concordato.
Le ragioni delle eventuali difficoltà nei tavoli negoziali – laddove presenti - non sono dunque da imputarsi, nella fase iniziale, al ceto bancario (che certamente non va esente da critiche, specialmente nella seconda fase delle trattative, che si connota spesso per ritardi notevoli e problemi derivanti dalla circolazione del credito bancario), ma – si ripete, laddove presenti – all’inesperienza ed impreparazione del debitore e talvolta dei suoi advisors. L’imprenditore ad esempio talvolta ricorre al sistema bancario richiedendo e utilizzando linee di credito – a volte pochi giorni o settimane - prima di manifestare alle medesime banche eroganti difficoltà di rimborso e richieste di moratorie per gli stessi finanziamenti. La mancanza di informazioni adeguate e/o di un supporto consulenziale preparato può dunque determinare – e a volte causano – un insuccesso iniziale della trattativa che, alla luce del circolo vizioso sopra descritto – determina una vera e propria riduzione dei flussi di cassa attesi dell’azienda, e conseguentemente sia del suo valore che delle prospettive di rimborso dei crediti aziendali.
3. La funzionalità della composizione negoziata al buon funzionamento dei tavoli.
Se questo è il quadro negoziale attuale tra banca e impresa in difficoltà – che si connota per una giustificata ed assai rilevante richiesta di trasparenza, precisione e completezza di informazione da parte delle banche, prima di proseguire nell’erogazione creditizia in pendenza della negoziazione – occorre valutare quali siano gli effetti su di esso della composizione negoziale della crisi di impresa introdotta dal D.L. 118/2021.[16]
La prima rilevante conseguenza è data dal ruolo di mediatore ed ausiliatore della negoziazione assunto dall’esperto: selezionato in albi professionali e formato adeguatamente sia dal punto di vista tecnico che dell’esperienza sul campo, l’esperto può in via preliminare integrare competenze professionali eventualmente insufficienti, vagliando la documentazione prodotta dal debitore e valutando se questa sia di quantità e qualità adeguata alla situazione dell’impresa.
Il dovere sancito in capo all’esperto dall’art. 5 quinto comma del decreto - valutare la concretezza delle prospettive di risanamento – comporta per costui l’obbligo di vagliare con occhio critico la documentazione predisposta dal debitore in occasione del deposito telematico dell’istanza di nomina.[17]
Particolare attenzione va prestata al coordinamento da operarsi tra il disposto degli artt. 3 e 5, terzo comma: quest’ultimo riporta un elenco di documenti da allegare all’istanza, all’interno del quale non pare rinvenirsi traccia (quantomeno espressa) del piano di risanamento. Eppure, il combinato disposto del sopracitato dovere di valutazione del risanamento prospettico da parte dell’esperto[18], rappresentato al quinto comma dell’art. 5. e il testo dell’art. 3, che prevede riferimenti al piano, fa propendere per la estrema rilevanza della disponibilità un piano di risanamento. Diversamente, non avrebbe senso il richiamo dell’art. 3 alle “indicazioni operative per la redazione del piano di risanamento”, accompagnato – separatamente – dal “test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento”. L’accessibilità del portale in via preventiva e pubblica all’imprenditore ed ai suoi advisors, prima del deposito telematico dell’istanza di nomina dell’esperto, fa dunque ritenere che nella maggior parte dei casi l’impresa debba preventivamente predisporre un piano di risanamento[19], accompagnandolo con (o per meglio dire includendo in esso) le informazioni prescritte all’art. 5 terzo comma lettera b) – relazione sull’attività in concreto esercitata, prospetto di tesoreria a sei mesi e iniziative industriali che l’imprenditore intende adottare (linee guida di piano).
In assenza di un piano di risanamento, risulterebbe particolarmente difficile per l’esperto poter dare un giudizio ex-ante sulla sussistenza dei presupposti di risanabilità dell’impresa[20] – e, altrettanto, anche l’organo di controllo ed il revisore contabile non riuscirebbero a fornire all’esperto il proprio parere in merito come previsto dall’art. 5 quinto comma.
Una fase preliminare di dialettica interna all’impresa – simile a quella derivante dall’allerta interna previsto dal Codice della Crisi di Impresa – è necessaria e funzionale a consentire all’imprenditore ed agli altri organi societari di interagire in modo adeguato e completo con l’esperto.
In mancanza dei documenti necessari riguardo la risanabilità dell’impresa, l’esperto procederà - ai sensi dell’ultimo capoverso dell’art. 5 quinto comma - a comunicare tale mancanza all’imprenditore ed al segretario generale della CCIAA del capoluogo di regione, disponendo l’archiviazione dell’istanza. L’impossibilità di esprimere un parere circa la sussistenza dei presupposti per il risanamento integra, ad avviso di chi scrive, lo stesso presupposto che la norma identifica nell’assenza di prospettive di risanamento: ciò in ragione delle rilevanti conseguenze in capo all’esperto ed ai terzi derivanti dall’eventuale avvio del percorso di composizione negoziale della crisi.
La sussistenza o meno di tali presupposti di risanabilità ab origine è il presupposto giuridico del percorso in oggetto, di cui inizialmente l’unico giudice è l’esperto. Fa riflettere la mancanza di una sua relazione iniziale, nella quale questi possa descrivere il percorso logico che lo ha condotto a valutare la sussistenza di tali presupposti, così da comunicarli in dettaglio ai terzi interessati (creditori e non solo) anche a futura memoria, nell’interesse proprio, nonchè dei terzi e dell’imprenditore, specie laddove dovesse porsi successivamente la necessità di conservare gli effetti degli atti compiuti nel corso della negoziazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 12 del decreto.
Una relazione iniziale, al momento non prevista nel testo del decreto, avrebbe infatti il pregio di cristallizzare “ora per allora” lo “stato dell’arte” delle prospettive di risanamento, consentendo a ciascuno di adottare i comportamenti che più ritiene opportuni alla luce delle informazioni fornite dall’esperto, in particolare le sue considerazioni circa la risanabilità dell’impresa.
Quest’ultimo, a propria volta, vedrebbe forse ridotte le proprie responsabilità, avendo posto i terzi in condizione di maturare un proprio (autonomo) convincimento sui presupposti che ad oggi – nel testo vigente – essi possono solo implicitamente dedurre dal mero presupposto di avvio da parte dell’esperto (sotto la sua esclusiva responsabilità) dei colloqui con i terzi creditori, così come previsto dal quinto comma dell’art. 5: “se ritiene che le prospettive di risanamento sono concrete l’esperto incontra le altre parti interessate al processo di risanamento e prospetta le possibili strategie di intervento fissando i successivi incontri con cadenza ravvicinata”.
Questo avvio delle negoziazioni “per facta concludentia” potrebbe essere utilmente corroborato da una relazione iniziale dell’esperto che contenga il materiale predisposto dal debitore - le cause dell’eventuale crisi (o pre-crisi) insieme alle linee guida di piano (ed eventualmente a copia del piano medesimo) - insieme alle considerazioni che conducono l’esperto a rendere fattibile il risanamento ex-ante.
Un’espressione di opinione circa il risanamento viene dunque richiesta all’esperto all’inizio del percorso negoziale, anzi essa ne è presupposto: questa circostanza presenta certamente una rilevante differenza rispetto alla relazione dell’esperto indipendente che attesta piano di risanamento ex art. 67, gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis e il concordato preventivo ex art. 160. In questi casi, il rilascio dell’attestazione interviene alla fine del percorso negoziale ed in prossimità dell’espressione del consenso dei creditori interessati, dunque con un set informativo completo e un tempo di elaborazione proporzionato alla profondità dei dati disponibili.
È dunque evidente che non si possa richiedere all’esperto – all’inizio della negoziazione – il medesimo livello di intervento e le conseguenti responsabilità che conseguono all’attestatore: l’adesione dei terzi alle proposte dell’imprenditore è infatti libera, essendo questi solo vincolati alla partecipazione alle trattative. La mancanza di qualunque richiamo alle disposizioni normative che disciplinano il ruolo dell’attestatore ed il contenuto della sua relazione, anche in ambito sanzionatorio, non fa che confermare questa interpretazione.
La presenza dell’esperto può infine tutelare le banche anche riguardo all’esecuzione di taluni pagamenti da parte dell’imprenditore a terze parti, ovvero la prosecuzione della prestazione creditizia di fronte a talune operazioni straordinarie: è ragionevole ritenere che le banche chiedano all’esperto di esprimersi riguardo alla presenza in tali casi dei presupposti previsti dall’art. 12 per la conservazione degli effetti, pronunciandosi riguardo alla coerenza di tali atti o pagamenti con l’andamento e lo stato delle trattative e con le prospettive di risanamento esistenti al momento in cui sono compiuti. Una simile richiesta parrebbe negozialmente rituale, alla luce della consolidata abitudine del ceto bancario di richiedere informazioni in itinere agli attestatori: si tratterà di una richiesta certamente non accompagnata da un corrispondente dovere dell’esperto, che tuttavia dovrà confrontarsi con le conseguenze negoziali di una sua mancata risposta.[21]
4. Le cautele nell’utilizzo del nuovo percorso.
Riportandoci ora ai tavoli negoziali bancari, pare chiaro che le nuove disposizioni agevolino il confronto tra l’impresa ed il ceto, ai sensi dei chiari diritti e doveri imposti alle parti dall’art. 4, che impone – pur senza un esplicito apparato sanzionatorio – sia doveri di buona fede e correttezza, sia (in modo estremamente ficcante) di partecipazione attiva alla trattativa.
Questo significa che le banche saranno tenute ad intervenire (e insieme a loro anche eventuali servicers e/o cessionari dei crediti), leggendo i documenti e assumendo le ulteriori informazioni che riterranno necessarie, e soprattutto dovranno riscontrare le proposte dell’imprenditore e le eventuali richieste con tempestività, motivando eventuali dissensi.
Non essendo – comprensibilmente – presenti disposizioni sanzionatorie riguardo alle violazioni di queste norme di comportamento, è presumibile che l’atteggiamento delle parti durante la negoziazione potrà essere oggetto di valutazione non solo in sede civilistica da parte dei diretti interessati, ma anche in ambito concorsuale.
Venendo alle tempistiche di avvio dei tavoli, è possibile che esso possa anche non coincidere con l’istanza di nomina dell’esperto, potendo quest’ultima giungere prima dell’inizio, ovvero anche durante lo svolgimento delle trattative, e in particolare laddove una delle parti ritenga di voler beneficiare delle tutele e dei benefici derivanti dalla composizione negoziale della crisi.
Nel primo caso, è auspicabile che l’intervento dell’esperto possa consentire all’imprenditore e i propri advisors di predisporre un info package adeguato all’apertura del tavolo negoziale, comprensivo di tutte le informazioni che usualmente vengono predisposte in quanto richieste da parte delle banche, e – come si vedrà infra – recando proposte “bancabili”.
Vale la pena invece di approfondire il secondo caso, quello in cui l’imprenditore è spinto ad attivare il percorso di composizione negoziata a causa dell’insoddisfacente andamento del tavolo bancario: quest’ultimo può infatti sotto-performare a causa di un insufficiente quantità/qualità delle informazioni fornite dal debitore ai creditori (in particolare bancari), o altresì di un atteggiamento talvolta opportunistico o di auto-tutela di questi ultimi, talvolta a fronte di richieste e/o proposte del debitore non ricevibili in termini regolamentari.
In quest’ultima circostanza, l’ipotesi di una minaccia di sospensione degli affidamenti autoliquidanti ovvero la messa in atto di tale sospensione, determinerebbero gli effetti sopra descritti: per evitare tali conseguenze, la richiesta da parte dell’imprenditore di misure protettive di cui all’art. 6 del decreto – che accompagni o successivamente all’istanza di nomina dell’esperto – va nella direzione di obbligare i creditori interessati alle misure protettive ad adempiere ai contratti pendenti, senza possibilità di risolverli o modificarne il contenuto o la scadenza.
Si tratta di una conseguenza dal rilevante impatto interno per le banche, le quali – rispetto a tali linee – non avranno sempre il medesimo obbligo di accantonamento: in presenza di un’impresa in condizioni di salute ancora buone, l’apertura della negoziazione presumibilmente porterà a classificare l’impresa a stage 2, in attesa di comprendere le richieste del debitore. Qualora le condizioni dell’impresa non siano buone – leggasi crisi o insolvenza – anche in funzione delle richieste presentate al ceto bancario (che potranno essere di mera dilazione ma anche di stralcio e/ conversione di finanziamenti in equity o SFP) la composizione negoziale potrà essere interpretata (anche se non ancora una procedura concorsuale) alla stessa stregua delle medesime, e comportare il passaggio del credito e del debitore a UTP.
Gli accantonamenti conseguenti sarebbero molto rilevanti e conseguentemente la richiesta del debitore di misure protettive – con la facoltà per il debitore di incrementare di fatto l’esposizione della banca, potendo questi anticipare ulteriore portafoglio nei limiti degli affidamenti concessi, ovvero – e questo è un problema davvero grave per la banca – anche richiedere di utilizzare finanziamenti all’importazione, scoperto di conto corrente ed altre linee di credito a primo rischio.
Questa facoltà per l’imprenditore non si presenta dunque priva di conseguenze lato banca, e ne va ponderato l’uso per più di una ragione: da un lato occorre considerare se realmente si può essere ragionevolmente certi delle prospettive di risanamento (dovendosi incrementare l’esposizione, in un eventuale successivo contesto fallimentare si tratterebbe di un evento da giustificare molto bene) e dall’altro – soprattutto – il creditore bancario, che viene costretto ad erogare un credito che non desidera – rappresenta comunque un soggetto con il quale si deve cercare un accordo.
Dal punto di vista negoziale, dunque, è bene concordare con gli istituti di credito l’entità ed i limiti degli utilizzi che concretamente si intendono richiedere, non diversamente da quanto accade attualmente: ciò anche per mostrare in concreto – proprio attraverso quella tesoreria a sei mesi richiesta dalla lettera b) del terzo comma art. 5 – che l’impresa ha davvero necessità di utilizzare le linee e a quali scopi.
Per consentire agli istituti di credito di considerare accettabile una richiesta così forte, che può essere presentata – come pare chiaro – anche da imprese in crisi o insolventi purchè risanabili (dunque imprese certamente non gradite come soggetti finanziabili al sistema), pare opportuno che l’imprenditore proceda anche a richiedere al tribunale la prededucibilità dei predetti finanziamenti ai sensi dell’art. 10 primo comma, e ad attendere che il tribunale si pronunci prima di richiedere utilizzi sulle linee.
Mentre la banca può certamente essere obbligata dall’imprenditore ad erogare, tramite la richiesta di misure protettive, queste ultime non vietano al debitore di eseguire pagamenti alle banche: questo aspetto è fondamentale perché la nuova definizione di default comporta per le banche un enorme incremento di accantonamenti – anche sulle linee autoliquidanti che sono oggetto dell’automatic stay derivante dalle misure protettive. Il debitore ha dunque interesse ad evitare il default nei confronti della banca, sia per mantenersi all’interno della filiera deliberante attuale, sia per ridurne i costi negoziali (rectius gli accantonamenti) e quindi consentire ai propri interlocutori un atteggiamento più conciliante in trattativa.
L’intervento dell’esperto è nuovamente fondamentale anche in termini di manovra finanziaria: la formazione obbligatoria di questa nuova figura professionale includerà certamente elementi di regolamentazione bancaria, agevolando l’imprenditore che ricorre alla composizione negoziale nell’individuazione di proposte (manovra finanziaria) da formularsi nei confronti delle banche che siano per queste ultime “bancabili” ovvero ricevibili dai rispettivi organi deliberanti.
Richiedere, ad esempio, moratorie triennali o moratorie prive della corresponsione di interessi, o ancora moratorie prolungate oltre i dodici mesi successivamente ad una moratoria già intervenuta (si pensi alle ultime proroghe delle moratorie ex art. 56 del decreto Cura Italia) può comportare per la banca la richiesta di una nuova misura di concessione, e dunque lo status di forborne non performing per il credito sottostante, o semplicemente non essere ricevibile ai sensi delle policies creditizie vigenti pro-tempore.
Al contrario, vi possono essere percorsi in grado di favorire la transizione da stage 2 a stage 1 ovvero di impedire il passaggio a UTP (stage 3) che – conosciuti dall’esperto – renderebbero più snello e rapido l’iter negoziale.[22]
5. Elementi di riflessione.
Pare chiaro che l’intervento dell’esperto - un professionista che abbia anche profonda conoscenza della regolamentazione bancaria e delle dinamiche negoziali con gli istituti di credito - possa certamente aiutare a “mantenere la palla in mezzo al campo” senza scaraventarla in tribuna con proposte non bancabili che irrigidiscono la negoziazione, prolungandone i tempi e peggiorandone gli esiti.
Quella dell’esperto è una figura “terza” ed imparziale, che deve risultare in grado di non essere eccessivamente vicina ad una delle parti – conquistarsi la fiducia e la credibilità è un percorso lungo e a volte faticoso, che può essere facilmente compromesso a causa di errori o ingenuità – facilitando per tutti i partecipanti alla negoziazione il raggiungimento di risultati in grado di garantire celerità e snellezza di processo.
Non vi è dubbio che la composizione negoziata disponga di tanti e tali potenziali da sfruttare che possono ridurre enormemente di numero i concordati in bianco, agevolare l’accesso al credito da parte delle imprese e garantire una riduzione nel numero delle procedure concorsuali “maggiori”.
Il successo dell’iniziativa dipenderà moltissimo non solo dalla capacità degli imprenditori di dotarsi di advisors adeguati, ma anche e soprattutto dalla comprensione dei relativi meccanismi da parte del ceto bancario, e dalla qualità delle prime negoziazioni che si svolgeranno nei prossimi mesi. Tanto più saranno lontane dal default (e dunque assai tempestive), tanto maggiori saranno le probabilità che il sistema consideri l’avvio della composizione negoziata come un processo di dialogo con l’imprenditore “in bonis” e dunque seguito da filiere deliberative coerenti con esso.
Un ruolo fondamentale sarà rivestito dalla commissione che nominerà gli esperti, la quale – in funzione della numerosità delle banche e della dimensione dell’esposizione – dovrà individuare esperti in grado di riuscire (per esperienza, manualità e struttura organizzativa) ad ausiliare una complessa attività negoziale.
[1] Si pensi ai non infrequenti casi di decanalizzazione su un diverso istituto di incassi di fatture anticipate presso la banca, ovvero a casi – rari ma purtroppo possibili – di presentazione di anticipazione di fatture non esistenti ovvero di doppie anticipazioni. O ancora di esibizione al ceto bancario di documenti assertivamente veritieri e in realtà mendaci sui reali andamenti di vendite ed ordinativi, ovvero sulla (in)esistenza di scaduto fiscale, contributivo o verso fornitori.
[2] Ad esempio, a fronte di fidi accordati per anticipazione di portafoglio salvo buon fine per euro 2 milioni, utilizzati sino a concorrenza di euro 1,5 milioni, la banca consentirà di utilizzare la linea solo nei limiti di euro 1,5 milioni, mano a mano che essa si “scarica” per effetto di pagamenti giunti a buon fine da parte dei clienti anticipati.
[3] Sono definite linee “a primo rischio” quelle per le quali la banca non gode di garanzie accessorie, come invece presenti nel caso di cessioni di credito in garanzia, e che dunque possono essere ricoperte esclusivamente tramite flussi di cassa della gestione. Vale la pena di ricordare, tuttavia, che nel caso di anticipazioni di fatture estere, la cessione in garanzia risulta particolarmente difficoltosa da implementare all’atto pratico, e dunque caso per caso sarà la banca a valutare se e quanto tale linea possa non essere definita a primo rischio, trattandosi di una tipologia di affidamento rispetto alla quale eventuali abusi risultano conseguentemente più facili della media.
[4] Si pensi, ad esempio, alla richiesta di accettazione delle notifiche di cessione di credito, ovvero – per le fatture estere – alla richiesta di formale riscontro dell’avvenuta esecuzione della notifica al cliente.
[5] Per tutte, la sentenza ormai nota della Cassazione civile, sez. I, 30 Giugno 2021, n. 18610. Pres. Genovese. Est. Nazzicone.
[6] Gross Book Value, ovvero valore lordo contabile, da contrapporsi al NBV ovvero Net Book Value – valore netto contabile – che tiene invece conto degli accantonamenti, cioè delle politiche di copertura dal rischio di credito che la banca adotta in sede di contabilizzazione delle perdite presunte su crediti, su base analitica ovvero sintetica.
[7] Tali azioni di recupero saranno da adottarsi a cura degli organi interni preposti – qualora il credito sia ancora di proprietà della banca e da questa gestito direttamente – ovvero di servicers – qualora il credito sia gestito da terze parti indipendenti – o ancora da investitori esterni nel caso il credito sia stato oggetto di derecognition.
[8] Si tratta di valutazione che secondo il modello IFRS9 deve intervenire con ottica forward looking.
[9] Il modello di valutazione sottostante, che varia da istituto ad istituto, è internamente coerente con le logiche contabili di valorizzazione dei crediti basate su IFRS9 e le relative regole di stageing: la banca tende a valutare non la incurred loss (perdita già verificatasi) ma la expected loss (la perdita attesa determinata sulla base di eventi passati, di condizioni correnti e di previsioni future ragionevoli e supportabili). I crediti vengono suddivisi nelle tre classi di stage – 1, 2 o 3 – e l’appartenenza a ciascuna classe influenza pesantemente le scelte della banca in ordine alle nuove erogazioni, financo alla prosecuzione stessa della prestazione creditizia.
[10] Alla data di concessione tutti i crediti sono considerati a stage 1, indipendentemente dal rating del debitore.
[11] Per una mappatura sufficientemente esaustiva degli eventi di stageing (SICR events - significant increment of credit risk) si vedano le Linee Guida per la gestione del credito deteriorato di BCE, 2017.
[12] Si veda al riguardo la nuova definizione di default rilevante per l’Autorità Bancaria Europea e le banche c.d. significant ai sensi dell’articolo 178 del regolamento (UE) n. 575/2013.
[13] Ad esempio, immissione di liquidità in azienda a titolo di finanziamenti o versamenti soci o aumento di capitale, ovvero cessione di asset non strategici.
[14] Non va dimenticato che la banca opera in un contesto stabile di asimmetria informativa, colmare la quale compete all’imprenditore e non all’intermediario finanziario che non dispone dei dati interni dell’impresa, in particolare di quelli previsionali. L’adozione da parte dell’impresa di adeguati assetti organizzativi ex art. 2086 cod.civ. ha esattamente lo scopo di colmare questo gap informativo, consentendo alla banca di valorizzare l’output degli adeguati assetti sotto forma di maggior credito e/o minori costi.
[15] Il combinato disposto dell’art. 67 e dell’art. 217-bis L.F. esenta dalla revocatoria fallimentare, dai reati di bancarotta previsti agli artt. 216 terzo comma e 217 L.F. i pagamenti e le operazioni compiute in esecuzione di un concordato preventivo di cui all’art. 160, di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis o del piano attestato di cui all’art. 67, ovvero i pagamenti e le operazioni di finanziamento autorizzati dal Tribunale ai sensi dell’art. 182-quinquies.
[16] La composizione negoziale della crisi di impresa è disciplinata dagli artt. 2-19 del D.L. 118 del 24 agosto 2021. In argomento vedi, anche per riferimenti, Ambrosini, La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, in questa Rivista, 23 agosto 2021; Guidotti, La crisi d’impresa nell’era Draghi: la composizione negoziata e il concordato semplificato, ivi, 9 settembre 2021.
[17] L’art. 5, comma 3, lettere da a) ad h) del D.L. 118/2021 prevede che il debitore depositi numerosi documenti in allegato all’istanza telematica di nomina dell’esperto da presentare sull’apposita piattaforma camerale. In particolare:
a) i bilanci degli ultimi tre esercizi, se non già depositati presso l’ufficio del registro delle imprese, oppure,
per gli imprenditori che non sono tenuti al deposito dei bilanci, le dichiarazioni dei redditi e dell’IVA degli ultimi
tre periodi di imposta, nonché una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata a non oltre sessanta giorni prima
della presentazione dell’istanza;
b) una relazione chiara e sintetica sull’attività in concreto esercitata recante un piano finanziario per i successivi sei mesi e le iniziative industriali che intende adottare;
c) l’elenco dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti scaduti e a scadere e dell’esistenza di diritti reali e personali di garanzia;
d) una dichiarazione sulla pendenza, nei suoi confronti,
di ricorsi per la dichiarazione di fallimento o per l’accertamento dello stato di insolvenza;
[18] Testuale il quinto comma dell’art. 5 “L’esperto […] convoca […] l’imprenditore per valutare l’esistenza di una concreta prospettiva di risanamento, anche alla luce delle informazioni assunte dall’organo di controllo e dal revisore legale, ove in carica.”
[19] Escludendosi i casi in cui, per la stabilità dei flussi di cassa positivi dell’azienda, si possa dover far riferimento alla mera ristrutturazione dell’indebitamento: in questi casi la presenza iniziale di un piano può anche non esser presupposta.
[20] Cfr. nota precedente.
[21] Le banche non potranno abbandonare la trattativa ai sensi dell’art. 4 sesto comma, dovendo esse partecipare a prescindere dal gradimento o meno delle proposte ed essendo anzi obbligate a riscontrarne i contenuti e le richieste con risposta tempestiva e motivata ai sensi del settimo comma del medesimo articolo.
[22] Si pensi, a mero titolo di esempio, a manovre finanziarie “equilibrate” che spostino anche sui principali fornitori (in termini dimensionali) parte del peso delle moratorie, in modo da consentire all’impresa di servire il debito in conto interessi, e mantenere la moratoria in 12 mesi o 24 invece che in periodi più lunghi. O, ancora, la conversione di parte dei crediti di fornitori principali in SFP o in partecipazioni in società immobiliari generatesi per spin-off dall’impresa.