Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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Insolvenza e inadempimento nell’evoluzione del sistema concorsuale*


Paola Orlando
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Insolvenza e inadempimento nell’evoluzione del sistema concorsuale*


Paola Orlando

Data pubblicazione
02 ottobre 2025

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Sommario: 1.Premessa - 2. Il caso. - 3. I presupposti per l’apertura della liquidazione giudiziale. - 4. Il concetto di insolvenza. - 5. (segue) Rapporto tra stato di insolvenza e inadempimento. - 6. Brevi riflessioni conclusive.


1. Premessa

Il breve contributo che segue ha ad oggetto l'analisi di una recente sentenza del Tribunale di Salerno, la quale, nel rigettare un ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale, riafferma la natura strutturale e sistemica dello stato di insolvenza, in continuità con l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale formatasi sotto la vigenza della legge fallimentare del ‘42.   

Come si dirà più diffusamente nel corso della trattazione, nonostante l’intervento riformatore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, il concetto di insolvenza permane quale condizione oggettiva e non transitoria d’incapacità del debitore di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, distinguendosi dall’inadempimento, che può fungere da mero indicatore ma non costituisce prova sufficiente.


2. Il caso.

Il provvedimento salernitano[1] affronta la questione della verifica dei presupposti di accesso alla procedura di liquidazione giudiziale, con particolare riferimento all’individuazione degli elementi di discrimine tra una situazione sintomatica di “insolvenza” ed un “inadempimento” delle obbligazioni.

Per comprendere a pieno la decisione, è utile ripercorrere sinteticamente le tappe fondamentali del procedimento che si è concluso con la pronuncia di cui trattasi.

Il legale rappresentante di una società ha presentato, innanzi al Tribunale di Salerno, un ricorso ex artt. 39 e 40 del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza con il quale ha chiesto l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di una società, anch’essa a responsabilità limitata, assumendo di essere creditrice della stessa.

Nella procedura sono intervenuti altri creditori sia in qualità di interventori che quali ricorrenti per l’apertura della liquidazione giudiziale chiedendo anche l’applicazione di misure cautelari.

La ricorrente, in particolare, ha allegato un credito relativo all’esecuzione di contratti di appalto e subappalto e ha precisato come tale credito, pur non ancora accertato in giudizio, sarebbe stato riconosciuto almeno parzialmente dalla società debitrice in quanto quest’ultima aveva inviato una ricevuta di disposizione di bonifico postdatato indicando quale causale “saldo di tutte le competenze”; in tal modo quindi, secondo la prospettiva dell’istante, in primo luogo, la società non aveva negato di essere debitrice di una parte della somma relativa al debito in questione e, in secondo luogo, avrebbe manifestato l’impossibilità di adempiere regolarmente al pagamento attesa, appunto, la postdatazione.

La società ricorrente ha affermato, altresì, di essere creditrice di un’ulteriore somma di denaro a titolo di prestazioni professionali rispetto alla quale aveva, da tempo, provveduto alla messa in mora della società debitrice.

All’udienza di comparizione, la società resistente si è costituita contestando l’insussistenza dello stato di insolvenza e ha chiesto il rigetto del ricorso, lamentando un abuso del diritto. La difesa, inoltre, ha evidenziato l'assenza di inadempienze, la regolarità del pagamento dei dipendenti e dei debiti erariali, l’irrilevanza del trasferimento della sede legale e la piena operatività dell'organo amministrativo. Il Tribunale, in via preliminare, ha esaminato i presupposti oggettivi e soggettivi per l’apertura della liquidazione giudiziale, soffermandosi sull’assoggettabilità a tale procedura dell’impresa, la quale – alla luce dei dati economici e patrimoniali – non risultava integrare cumulativamente i requisiti dimensionali richiesti per l’esclusione ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), CCII. È stato dunque escluso si trattasse di impresa minore (o sottosoglia), in quanto erano stati superati i limiti relativi ad attivo patrimoniale, ricavi e indebitamento.

Il Tribunale di Salerno ha poi posto particolare enfasi sul tema della “manifestazione” dello stato di insolvenza, ricordando come “il riscontro della sussistenza dello stato di insolvenza si concreta in un giudizio di probabilità avente per oggetto la capacità finanziaria del debitore a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” ed infatti “anche in dottrina ed in giurisprudenza è comune la constatazione che l’insolvenza manifesta all’esterno una situazione strutturale che, appunto, è interna all’azienda”; inoltre, di regola tale situazione emerge da inadempimenti ed altri fatti esteriori che dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, come ad esempio la cessazione dell’attività produttiva, il licenziamento dei dipendenti, la pluralità degli inadempimenti oppure l’entità degli inadempimenti. Tanto chiarito il Tribunale ha evidenziato come nel caso di specie l’insolvenza della società resistente non fosse provata e che il credito dei ricorrenti fosse contestato e non fondato su titoli di credito o su sentenze passate in giudicato; il Tribunale, in sostanza, ha evidenziato come ci si trovasse, in realtà, innanzi ad una situazione di “semplice” inadempimento delle obbligazioni assunte.

In sintesi, nella pronuncia in esame sono stati applicati i principi consolidati in materia di “insolvenza” dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, ricordando come questa si realizzi in presenza di una situazione di impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività.

Sulla base di tali premesse, il Tribunale di Salerno ha rigettato il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

 

3. I presupposti per l’apertura della liquidazione giudiziale.

A oltre un quinquennio dalla sua emanazione, il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 - istitutivo del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (di seguito anche solo CCII) - si è ormai consolidato quale architrave della disciplina italiana in materia di regolazione delle situazioni di crisi e insolvenza, sostituendo integralmente la Legge Fallimentare del ’42. In tale contesto, il legislatore ha introdotto una serie di strumenti volti alla gestione e alla composizione anticipata delle situazioni di squilibrio economico-finanziario, nonchè alla regolazione giudiziale dell’insolvenza Tra gli istituti previsti dal nuovo impianto normativo, la liquidazione giudiziale, che ha sostituito il fallimento[2] assume una rilevanza residuale[3] - configurandosi quale extrema ratio - rispetto agli imprenditori commerciali che superano le soglie dimensionali previste dall’art. 2, comma 1, lett. d), C.C.I.I., e che versano in stato di insolvenza.

In particolare, ai sensi dell’art. 2, lett. b) del CCII l’insolvenza è lo stato in cui si trova il debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Presupposto oggettivo è quindi una situazione patologica ed irreversibile che coinvolge l’intero patrimonio dell’imprenditore o dell’impresa e non consente di soddisfare, a tempo debito e con mezzi normali, le obbligazioni assunte.

In termini sostanziali, la nozione di insolvenza accolta dal CCII – pur inserita in un più ampio contesto sistematico ispirato a logiche di prevenzione e tempestiva emersione delle difficoltà aziendali – non si discosta, nei suoi elementi strutturali, da quella tradizionalmente recepita dalla legge fallimentare del ’42. La continuità definitoria (cfr. art. 5, comma 2, L. Fall.)[4] lascia intendere la volontà del legislatore di conservare, sotto il profilo sostanziale, la stessa concezione dell’insolvenza pur all’interno di un quadro normativo profondamente rinnovato nei meccanismi di gestione della crisi[5].

Dunque, lo stato di insolvenza è il presupposto ex art.121 CCII[6] per la dichiarazione di liquidazione giudiziale e tale stato ben può desumersi, ad esempio, sulla base di elementi indiziari o sintomatici quali le perdite di esercizio relative all’anno precedente all’apertura della liquidazione giudiziale, l’evidente e significativa situazione debitoria, l’inesistenza di liquiditàe/o il mancato adempimento di debiti anche di modesto importo[7]. La procedura di liquidazione giudiziale appare preordinata in generale all'accertamento del dissesto economico del debitore. Ed è infatti è obiettivo dichiarato del progetto di riforma “che la pubblica opinione percepisca un passaggio da una procedura di fallimento diretta alla persona del debitore ad una procedura di liquidazione giudiziale diretta al suo patrimonio e un conseguente spostamento dell'enfasi sull'oggetto della procedura, anziché sul soggetto”[8].

 

4. Il concetto di insolvenza.

Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti ed altri fatti esteriori che dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

L’incapacità a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni si manifesta (di regola) attraverso uno o più inadempimenti o attraverso alcune situazione descritte come sintomatiche dell’insolvenza, ovvero rivelatrici dell’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni tra le quali vi sono anche: a) la cessazione dell’attività produttiva; b) il licenziamento dei dipendenti; c) l’abbandono della sede sociale; d) l’irreperibilità e la latitanza dell’imprenditore; e) la pluralità degli inadempimenti; f) l’entità degli inadempimenti; g) il perdurare nel tempo degli inadempimenti; h) i protesti per importi significativi nell’ultimo anno; i) l’effettuazione di pagamenti anomali vale a dire non attraverso la tempestiva consegna di somme di denaro e/o di titoli di credito regolarmente datati ma, ad esempio, attraverso la sistematica emissione di titoli di credito post-datati, la cessione come corrispettivo di altri beni; l) la contrazione di ulteriori debiti ad elevato tasso di interesse; m) la cessione dei beni strumentali; n) l’avvenuto espletamento con esito negativo di una procedura esecutiva individuale; o) l’eccedenza del passivo sull'attivo patrimoniale; p) la diminuzione fraudolenta dell’attivo.

In sostanza, lo stato di insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, si realizza in presenza di una situazione di impotenza strutturale e non soltanto transitoria a soddisfare le proprie obbligazioni; ne discende che il concetto di insolvenza si distingue sia da quello di “crisi”[9] che da quello di “inadempimento” (come di seguito meglio si vedrà).

La definizione di insolvenza, si è in parte già anticipato, è rimasta del tutto immutata da quella fornita dalla legge fallimentare; infatti il CCII riprende pedissequamente quanto contenuto nell’art. 5, comma 2, L. Fall.[10]

L’incapacità delineata dalla legge fallimentare e dal CCII in maniera quasi coincidente risulta pienamente coerente con il significato di “insolvenza” fornito dal codice civile: essa è espressione dell’inadeguatezza delle condizioni patrimoniali dell’imprenditore rispetto alla capacità di adempiere in modo regolare le obbligazioni assunte[11].

Nonostante il mutamento terminologico e sistematico, la sostanza concettuale resta immutata: l’insolvenza continua ad essere concepita quale situazione irreversibile, sintomatica di un’incapacità dell’impresa di adempiere le proprie obbligazioni in modo regolare e duraturo. Ciò che muta è piuttosto il contesto normativo in cui essa si colloca, ora orientato alla precoce rilevazione della crisi, alla valorizzazione degli strumenti di composizione negoziale e alla responsabilizzazione dell’organo gestorio nella tempestiva adozione delle misure idonee a prevenire l’insorgere dell’insolvenza stessa.

Più in particolare, l’insolvenza è da tempo considerata quale concetto strutturalmente relazionale e sistemico: non rileva il singolo rapporto, ma la capacità generale e prospettica del debitore di mantenere la fiducia dell’intera compagine creditoria[12]. Sul piano applicativo, ciò implica una valutazione complessiva della condizione del debitore, che non può fondarsi sull’inadempimento isolato ma deve necessariamente abbracciare l’intero quadro delle relazioni obbligatorie, della sostenibilità operativa e delle dinamiche patrimoniali. In tal senso, la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione ha statuito che l’insolvenza non può mai essere automaticamente desunta da un singolo inadempimento, ancorché significativo, dovendo invece essere apprezzata come “impotenza strutturale” a soddisfare le proprie obbligazioni valutata attraverso un’analisi globale e integrata delle condizioni aziendali[13].

Emergono, secondo questa importante norma definitoria, due profili del presupposto oggettivo: quello intrinseco, legato alla condizione di obbiettiva impotenza finanziaria (l’incapacità ad adempiere regolarmente le proprie obbligazioni); e quello estrinseco, legato alla soggettiva percettibilità di tale condizione attraverso fatti esteriori che la manifestino.

Dal primo profilo, deve innanzitutto rilevarsi – anche per meglio comprendere il complesso di interessi in funzione dei quali è nata e si giustifica la disciplina, prima, fallimentare e oggi del CCII – che l’incapacità ad adempiere alle proprie obbligazioni (anche se “civili”, e cioè non relative all’esercizio dell’impresa) rappresenta una situazione pregiudizievole non solo per i creditori la cui pretesa possa già esser fatta valere o sia prossima ad esserlo, ma altamente rischiosa per la generalità di tutti coloro che vantino crediti, quantunque non scaduti, nei confronti dell’imprenditore decotto, nonchè, più in generale, allarmante per l’intero mercato, e cioè di chi, pur senza ancora esserlo, potrebbe divenire creditore dell’imprenditore già insolvente.

A tutela di tutti costoro, e comunque della par condicio creditorum (per evitare che alcuni ottengano per intero quanto richiesto solo alla fine, mentre altri rischino di non ricevere nulla) occorre quindi che la gestione (in perdita) dell’impresa e la amministrazione del patrimonio del debitore vengano sottratte a quest’ultimo (c.d. spossessamento), recuperando semmai (con l’azione revocatoria) quanto fuoriuscito da tale patrimonio nell’imminenza del fallimento e quando l’imprenditore era già decotto.

In ragione di queste esternalità negative, l’incapacità ad adempiere regolarmente le proprie obbligazioni viene dalla legge riconosciuta come rilevante nella sua obiettività, a prescindere cioè dalle eventuali responsabilità del debitore o, comunque, dalle cause, seppure fortuite, che hanno determinato il dissesto.

L’interpretazione del presupposto dello stato di insolvenza, condizione necessaria per l’apertura della liquidazione giudiziale, impegna da tempo la giurisprudenza, di merito e di legittimità. Pur avendo fissato alcuni capisaldi, l’elaborazione giurisprudenziale ha generato numerose varianti (es. insolvenza prospettica, patrimoniale, statica), riflesso della molteplicità di situazioni in cui può trovarsi un’impresa in crisi. Tali principi, si è visto, conservano rilevanza anche nel nuovo assetto normativo introdotto dal Codice della crisi.

Va distinto, tuttavia, lo stato di insolvenza delle imprese in bonis da quello delle società in liquidazione, la cui particolare condizione — sebbene fisiologica — solleva specifiche questioni interpretative.

Invero, la liquidazione volontaria, alla luce delle modifiche civilistiche, non mira più esclusivamente alla cessio bonorum, ma anche alla conservazione e valorizzazione del patrimonio aziendale. Sul punto, la giurisprudenza consolidata identifica l’insolvenza nelle società in liquidazione con lo squilibrio tra attivo e passivo, anche se la recente dottrina ha contestato l’adeguatezza del concetto di “insolvenza statica”, ritenendo superata una valutazione fondata sul solo deficit patrimoniale.

Allo stato pare comunque prevalere l’orientamento giurisprudenziale consolidato[14] secondo cui pur restando centrale la verifica dello squilibrio patrimoniale, occorre valutare anche le concrete prospettive e modalità della liquidazione del patrimonio sociale. In tal senso, se l’accertamento di un deficit patrimoniale costituisce presupposto necessario, la sua eventuale assenza — ovvero la sufficienza teorica dell’attivo a soddisfare i creditori — non esclude automaticamente la sussistenza di uno stato di insolvenza idoneo a fondare l’apertura della liquidazione giudiziale[15].

Ciò chiarito, l’attributo più rilevante che la giurisprudenza e la dottrina prevalenti hanno assegnato alla nozione di “insolvenza” è quello della “irreversibilità”.

L’impresa insolvente, infatti, è quella divenuta incapace di adempiere le proprie obbligazioni a causa di motivi strutturali ormai irreversibili. A tal proposito, tuttavia, è stato ritenuto che, in termini puramente teorici, nessuna insolvenza potrebbe definirsi assolutamente irreversibile, si pensi al caso in cui vi siano dei creditori disposti a concedere dilazioni di pagamento. Più precisamente, dunque, l’insolvenza sarà irreversibile quando qualsiasi azione di recupero economico dell’impresa risulterà irragionevole[16].

L’insolvenza commerciale quindi si misura su di un piano relazionale[17]. Oggetto di attenzione è il rapporto intercorrente tra debitore e creditori; tuttavia, l’analisi non può essere condotta isolando i singoli rapporti obbligatori, bensì deve essere orientata a una visione complessiva dell’intera rete di relazioni giuridiche che fanno capo al medesimo soggetto debitore. La solvenza è data non dalla fiducia di un singolo creditore, o dal regolare adempimento di una singola obbligazione, ma dalla fiducia della generalitàdei creditori e dal regolare adempimento delle obbligazioni assunte; altro allora non sarebbe che la capacità dell’impresa di essere in grado di “continuare ad operare proficuamente sul mercato[18].

Ora, proprio perchè l’insolvenza è una situazione di impotenza patrimoniale non transitoria, essa non si deve necessariamente identificare con l’eccedenza delle passività rispetto alle attività (c.d. squilibrio patrimoniale). Il passivo può superare l’attivo senza che vi sia insolvenza, se l’imprenditore ispira ancora fiducia e riesce a procurarsi normalmente i mezzi finanziari per pagare i debiti. La Suprema Corte di Cassazione[19]ha da tempo rilevato che, ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza va desunto, più che dal rapporto tra attività e passività, dalla possibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni.

 

5. (segue) Rapporto tra stato di insolvenza e inadempimento.

 Alla luce di quanto precede e al fine di fornire un’adeguata definizione del concetto di insolvenza”, è necessario soffermarsi sulla differenza rispetto all’ulteriore concetto di inadempimento”.

 L’insolvenza presuppone l’esistenza di un rapporto obbligatorio[20].

 Ora, l’inadempimento delle obbligazioni, contrariamente all’insolvenza, non costituisce uno stato” bensì un fatto”[21]. Esso rappresenta, più specificamente, uno dei “fatti esteriori” (e certamente quello più importante essendo, infatti, l’unico espressamente menzionato già dall’articolo 5 della L.Fall. e dall’articolo 2 CCI) attraverso il quale può manifestarsi lo stato di insolvenza[22].

 Ad ogni modo, l’inadempimento non fornisce aprioristicamente e in qualsiasi caso un indice rivelatore dell’insolvenza. Ciò accade, ad esempio, quando l’inottemperanza agli obblighi deriva da un atto di volontà proprio del debitore (nel caso in cui ritiene di non dover pagare) ovvero quando l’entità dell’inadempimento è così irrisoria da renderlo privo di rilevanza sintomatica.

 Sul punto, infatti, la Suprema Corte ha recentemente ricordato che lo stato di insolvenza “non suppone, necessariamente, l’esistenza di inadempimenti, né è da essi direttamente deducibile, essendo gli stessi, se effettivamente riscontrati, equiparabili agli altri fatti esteriori idonei a manifestare quello stato, con valore, quindi, meramente indiziario, da apprezzarsi caso per caso, e con possibilità di escludere la rilevanza ove si tratti di inadempimento irrisorio[23].

 La previsione contenuta all’art. 3 del CCII prevede specifici doveri del debitore, l’assunzione e poi l’adempimento dell’obbligazione vengono arricchiti di nuovi contenuti consistenti nell’adozione di un comportamento c.d. “proattivo”. Tali doveri costituiscono le regole tecniche attraverso le quali il debitore deve rendere effettiva la responsabilitàpatrimoniale, con la quale garantisce la soddisfazione dei creditori, come prescritto dall’art. 2740 c.c. Il CCII ha quindi introdotto una nuova prospettiva di operativitàdel principio della responsabilitàà patrimoniale del debitore. Essa non può essere più concepita come semplice assoggettamento del patrimonio del debitore inadempiente all’esecuzione forzata nell’interesse del creditore, al contrario, al debitore viene “addossato” ora l’onere di salvaguardare sul piano funzionale la garanzia patrimoniale offerta ai creditori e ciò si realizza attraverso l’attuazione dei doveri di rilevazione tempestiva della crisi ed adozione degli strumenti idonei a evitare o circoscrivere il pregiudizio che dalla insufficienza patrimoniale può derivare ai creditori.

 Tali principi calati nell’ambito dell’insolvenza e del corretto adempimento delle obbligazioni fanno emergere come la diligenza richiesta al debitore deve oggi essere valutata in relazione all’avvenuta osservanza degli accennati doveri di comportamento.

 Ed infatti, accanto ai nuovi doveri del debitore come si ricava dal nuovo articolo 2086, comma 2, c.c. in combinato disposto con l’art. 3 CCII, il nuovo Codice ha costruito un articolato sistema di vigilanza volto ad assicurare l’adempimento da parte del debitore dei doveri di prevenzione, attraverso pervasivi sistemi di controllo e intervento che muovono sia dall’interno che dall’esterno dell’impresa. Ciò nella consapevolezza, da un lato, che i nuovi doveri imposti al debitore non si sostanziano in una immediata e diretta attribuzione patrimoniale a vantaggio di un determinato creditore, ma piuttosto in una articolata attività di organizzazione, di monitoraggio e di intervento per tutelare complessivamente le ragioni dei creditori e dei terzi per i rapporti man mano instaurati con l’impresa, dall’altro, che i meccanismi risarcitori non sarebbero comunque idonei a rimediare al pregiudizio derivante dalla mancata prevenzione della crisi e dal verificarsi della conseguente insolvenza[24].

 Ritornando poi al concetto di insolvenza può dirsi, in altre parole, che si risolve in una “condizione di impotenza” che lede profondamente il debitore. In quanto condizione intrinseca essa non si presta ad osservazione diretta, ma si manifesta attraverso fatti esteriori che ne costituiscono indizi e ne indicano la presenza, primo fra tutti, l’inadempimento[25].

È evidente perciò che altro è lo stato di insolvenza altro è l’inadempimento. Il primo è una situazione del patrimonio del debitore; il secondo è un fatto che rileva come uno dei (possibili) indici dello stato di insolvenza. Così è possibile che un imprenditore può aver soddisfatto tutti i suoi debiti ed essere ciò nonostante insolvente, se lo ha fatto con mezzi anormali diretti ad esempio a mascherare l’insolvenza. Viceversa l’imprenditore può essere inadempiente senza essere insolvente: non è insolvente chi ha mezzi patrimoniali liquidi e non paga perché ritiene di non dover pagare o trascura per negligenza di pagare[26].

Al proposito, viene innanzitutto in questione il requisito della regolarità, dal quale deriva che potrebbe ben esservi un’incapacità ad adempiere “regolarmente” anche quando non consti (ancora) alcun inadempimento. La “regolarità” dei pagamenti riguarda infatti non solo l’integralità e la puntualità dei singoli adempimenti, ma anche le modalità attraverso cui li si effettua o ci si procura il denaro necessario (ad esempio si consideri la situazione in cui si danno in pagamento i beni strumentali oppure si svendono le merci per procurarsi liquidità).

In definitiva, l’insolvenza si configura come una condizione patologica della struttura finanziaria del debitore, che si rivela attraverso elementi sintomatici esteriori — tra cui l’inadempimento — ma non si esaurisce in essi, rendendo necessaria una valutazione complessiva della regolarità e sostenibilità dell’assetto patrimoniale e finanziario, al di là delle mere apparenze contabili o dell’inadempimento occasionale.

 

6. Brevi riflessioni conclusive.

Nel solco delle precedenti riflessioni si inserisce la sentenza del Tribunale di Salerno che nel caso esaminato ha rigettato il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale rammentando come lo stato di insolvenza dell’imprenditore commerciale – quale presupposto per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale – si realizza in presenza di una situazione di impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni.

 L’analisi condotta consente di confermare che, nonostante l’ampio intervento riformatore operato con l’adozione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, il concetto di insolvenza ha mantenuto una sostanziale continuità rispetto alla formulazione storicamente consolidata nella legge fallimentare del 1942. Il legislatore delegato ha infatti recepito, pressoché testualmente, la definizione già contenuta nell’art. 5, comma 2, L. Fall., delineando lo stato di insolvenza come una condizione di incapacità oggettiva del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, manifestata attraverso inadempimenti o altri fatti esteriori.

 Tale impostazione evidenzia chiaramente come l’inadempimento rappresenti un indice, ma non coincida con lo stato di insolvenza, che costituisce una condizione giuridica ben più articolata, sistemica e strutturale. Come riconosciuto da consolidata giurisprudenza di legittimità e messo a punto dalla dottrina, l’insolvenza non può mai essere desunta automaticamente da un inadempimento, ancorché reiterato o grave. L’inadempimento, dunque, può al più fungere da “spia esterna” di una difficoltà economico-finanziaria, ma non ha efficacia dimostrativa automatica né decisiva.

 Il CCII si pone, dunque, in linea di continuità con la disciplina previgente: non introduce un mutamento definitorio, bensì riformula l’architettura normativa intorno all’insolvenza, attribuendole centralità come criterio selettivo per l’accesso alla liquidazione giudiziale. Il nuovo impianto codicistico – che distingue concettualmente la crisi dall’insolvenza e rafforza gli obblighi di prevenzione e di rilevazione precoce – non intacca dunque il cuore dell’istituto, ma lo colloca in una dimensione di maggiore consapevolezza e responsabilizzazione gestionale imponendo specifici obblighi in capo all’imprenditore.

 La sentenza del Tribunale di Salerno rappresenta, in questo contesto, un’applicazione rigorosa e condivisibile dei principi sostanziali in materia. Il Giudice ha correttamente escluso la sussistenza dello stato di insolvenza, evidenziando come la posizione creditoria allegata non fosse assistita da titoli certi e come la condotta della società resistente non fosse riconducibile ad alcuna situazione di dissesto economico irreversibile. La decisione riafferma, in tal modo, un principio fondamentale del diritto concorsuale: non ogni inadempimento è insolvenza.

 In conclusione, l’insolvenza – (anche) nel diritto della crisi d’impresa – continua a essere concetto tecnico, oggettivo, che resiste alle semplificazioni riduttive basate su singoli inadempimenti.


(*) Il presente lavoro verrà proposto, con le modifiche e integrazioni del caso, per la pubblicazione sulla Parte II della rivista Il diritto fallimentare e delle società commerciali.

* Il presente lavoro verrà proposto, con le modifiche e integrazioni del caso, per la pubblicazione sulla Parte II della rivista Il diritto fallimentare e delle società commerciali.

[1] Decreto del Tribunale di Salerno, Sez. III, 19 aprile 2024, procedura di liquidazione giudiziale n. 47, in Gazzetta Forense, con notadiL. Cupaioli, p. 604.

[2] Nella Relazione Illustrativa si legge come “Il decreto legislativo di attuazione della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, pubblicata sulla G.U. n. 254 del 30 ottobre 2017, è espressione dell’esigenza, ormai indeferibile, di operare in modo sistematico ed organico la riforma della materia dell’insolvenza e delle procedure concorsuali.[… ] In quest’ottica sono stati dettati i principi generali e sono state definite alcune nozioni fondamentali nella materia in esame, a cominciare da quella di “crisi” (che non equivale all’insolvenza in atto, ma implica un pericolo di futura insolvenza) e di “insolvenza” (ribadendo in realtà la nozione già sufficientemente collaudata da molti decenni di esperienza giurisdizionale). Sempre sul piano definitorio, il legislatore ha abbandonato la tradizionale espressione “fallimento”(e quelle derivate), in conformità ad una tendenza già manifestata nei principali ordinamenti europei di civil law (tra cui quelli di Francia, Germania e Spagna), volta ad evitare l’aura di negatività e di discredito, anche personale che storicamente a quella parola si accompagna.” (cfr. Relazione Illustrativa al Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, pp. 1-3). La novità forse più rilevante, dal punto di vista semantico, del nuovo Codice è rappresentata dalla definitiva scomparsa del termine “fallimento” e della relativa aggettivazione “fallimentare” dalla disciplina della gestione giudiziale della crisi, con conseguente eliminazione anche del termine “fallito” per indicare il debitore insolvente.

[3] La lettura del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza mette in evidenza come le norme relative alla procedura di liquidazione giudiziale siano state collocate successivamente a quelle che regolano gli altri strumenti concorsuali. Questa è stata una precisa scelta del legislatore che in tal modo ha voluto prediligere le altre procedure, che notoriamente favoriscono la continuità e il risanamento aziendale, piuttosto che lo strumento diretto alla vendita dell’assets dei beni.

[4] C. Amatucci, Lessico e semantica nelle procedure concorsuali”, in Giur. Comm., 2021, p. 365: Con riferimento all’art. 2, la Relazione spiega che le definizioni hanno finalità “meramente esplicative e di sintesi” e che si è mantenuta la vigente [art. 5 l. fall.] definizione di insolvenza” sulla quale, dopo cinquant'anni di nomadismo dottrinario e giurisprudenziale, s’è finalmente capito che il fallimento è lo stato definitivo di non reattività. Dal punto di vista logico e normativo è un punto d'arrivo oltre il quale non può pensarsi progresso o regresso: è un assoluto, una immobilitàche non ha capacità di tramutarsi in alcunché, ma solo d'esser rilevata e disciplinata”.

G. Fauceglia, “Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza”, Torino, 2019, p. 106: “Le norme della liquidazione giudiziale, quindi, ripetono sostanzialmente quanto già disposto nella legge fallimentare riformata e coerentemente con la legislazione dell’Unione Europea in materia di insolvenza”.

Sul punto, invero, non ci si attendono grandi evoluzioni giurisprudenziali e dottrinali, essendo, ormai, la nozione di insolvenza stata già ampiamente esplorata dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Infatti, la Suprema Corte con la sent. n. 3488 del 1969 aveva definito “l’insolvenza come una situazione oggettiva di impotenza economica, determinata dal fatto che l’imprenditore non sia in grado di adempiere regolarmente, e con mezzi normali, alle proprie obbligazioni ed alle scadenze pattuite”; Cass. 24 luglio 2003, n. 11470, in Impresa 2004, 307; Cass. 28 gennaio 2008, n. 1760; Cass. 27 marzo 2014, n. 7252 seguite poi da sentenze più recenti: Cass. 14 ottobre 2022, n. 30284; Cass. 6 maggio 2024, n. 12156; Cass. 1° maggio 2025, n. 11484. Quanto alla dottrina, si veda G. Terranova, “Lo stato d’insolvenza”, in “Le procedure concorsuali. Il Fallimento”, Trattato diretto da G. Ragusa Maggiore e C. Costa, Torino, I, 1996, p. 239 ss.; Satta, “Diritto fallimentare”, Padova, 1996, p. 52, affermava che “l’insolvenza è un fenomeno generale che abbraccia tutto il patrimonio del debitore e può pertanto essere rilevata da qualunque fatto esteriore”. In questo senso anche G. Ragusa Maggiore, “Istituzioni di diritto fallimentare”, Padova, 1994, p. 62; A. Azzolina, “Il fallimento e le altre procedure concorsuali”, Torino, I, 1961, p. 273, il quale ha osservato che “L’espressione stato di insolvenza indica […] la situazione in cui viene a trovarsi chi, dovendo pagare, non ama malgrado la consapevolezza di questo suo dovere. Essa non designa quindi uno stato patrimoniale, ma un modo di comportarsi del debitore, considerato, per traslato improprio, come situazione, anziché sotto l’aspetto dinamico caratteristico dell’azione”. Puntualmente si veda: P.F. Censoni, “I presupposti del fallimento, in Manuale di diritto fallimentare, IIed., Padova, 2007, p. 25; N. AbrianiS. AmbrosiniO. CagnassoP. Montanalenti, “Le società per azioni”, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, IV, 1, Padova, 2010 e più recentemente P. Benazzo, “Il codice della crisi di impresa e l'organizzazione dell'imprenditore ai fini dell'allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?”, in Riv. soc., 2019, p. 150; S. Ambrosini, “Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche”, in Il dir. Fall. e delle società commerciali, 2019; F. De Santis, “Dall’autofallimento all’autoliquidazione giudiziale nel prisma dei sistemi di soluzione della crisi d’impresa”, in Dirittodellacrisi.it, 25 marzo 2021; D. Manente, “Lineamenti del diritto della crisi d’impresa”, e già (S. Pacchi -) S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, 2022, p. 588; V. D'Antonio, “Prolegomeni al diritto della crisi dell'impresa. Crisi irreversibile e soluzioni preconcorsuali” in Dir. fall., 1994, p. 1113; G. Lo Cascio, “Controllo giurisdizionale dell'insolvenza e forme di tutela dei creditori”, in Fallimento, 1995, p. 5.

[5] Nel nuovo Codice lo stato di crisi - che non viene più configurato come un genus all’interno del quale è ricompresa la “speciesdell’insolvenza (secondo lo schema del vecchio art. 160, comma 3, l.fall.) - si differenzia dallo stato di insolvenza; le due situazioni sono delineate come differenti e autonome, entrambe rilevanti per l’ammissione a procedure di soluzione della crisi quali il concordato preventivo (art. 85, comma 1, CCII), gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 57, comma 1, CCII) o i piani di risanamento (art. 56, comma 1, CCII), mentre per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale l’unico presupposto rilevante è quello dell’insolvenza, non potendosi quindi ammettere alla procedura il debitore che si trovi solo in stato di crisi. Per una visione più ampia del tema si consulti: G. Terranova, “Insolvenza, stato di crisi, indebitamento”, Torino, 2013, in Quaderni di Ristrutturazione Aziendale; G. Presti, “Stato di crisi e stato di insolvenza”, in Crisi d'impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, I, Milano, 2016, p. 400 ss.; Fortunato, “Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci”, in Crisi d'impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso, 2021, I, p. 3 ss.; P. Inzitari, “Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, allerta: nuovi confini della diligenza del debitore, obblighi di segnalazione e sistema sanzionatorio nel quadro delle misure di prevenzione e risoluzione”, in AA.VV., A. Quagli, “Sulla necessaria rimodulazione nel Codice della Crisi degli indicatori e indici della crisi”, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2021, p. 3;

[6] L’articolo 121 CCII è la prima norma del Titolo V. Com’è noto la liquidazione giudiziale è la che, come in passato il fallimento, è finalizzata a liquidare il patrimonio dell’imprenditore insolvente, ripartendo il ricavato in favore dei creditori sulla base della graduazione dei loro crediti. La mancata riuscita dell’attività imprenditoriale non è dunque valutata quale esclusiva conseguenza di colpevole inettitudine o di attività fraudolente, ma quale possibile evento che può interessare un’attività intrinsecamente connotata dal rischio economico.

[7] Ciò che emerge è l’idea secondo cui la funzione di tali presupposti è quella di riservare tale procedura alle sole imprese non piccole, appunto secondo la definizione contenuta nell’art. 2 CCII di impresa non minore.

[8] Sul punto, A. Benocci, “Dal fallimento alla liquidazione giudiziale: rivoluzione culturale o make-up di regolamentazione?”, in Giur. Comm. 5, 2017, p. 759, ha considerato che “per usare la fraseologia del progetto di riforma non solo in caso di insolvenza manifesta, ma anche in caso di pericolo o di probabilità di insolvenza, si è introdotta una soluzione tanto dirompente, quanto coerente con la ratio della riforma che, sia pur limitatamente all'iniziativa del debitore, ammetterebbe alla procedura di liquidazione giudiziale non solo l'imprenditore insolvente, ma anche quello solo in crisi e darebbe in tal modo un ulteriore contributo alla demitizzazione” dell'impatto della procedura sulla persona del debitore”.

[9] Sul punto si veda: M. Fabiani, Diritto della crisi e dell'insolvenza, Zanichelli, 2022; S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel nuovo Codice della crisi, Zanichelli, 2021; G. Terranova, Commentario alla Legge Fallimentare, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, a cura di C. Cavallini, Giuffrè, 2020, sub art. 5 L.F.; G. Fauceglia, Le crisi d’impresa e il diritto fallimentare, Milano, ultima ed. 2022; A. Zorzi, Crisi e insolvenza. Lineamenti sistematici e profili operativi, Pisa, 2021; G. Lo Cascio, L’insolvenza nel diritto della crisi, Milano, 2019.

Nel panorama giuridico italiano la nozione di crisi d'impresa si è progressivamente delineata come categoria autonoma rispetto all’insolvenza, configurandosi quale concetto anticipatorio e funzionalmente orientato alla prevenzione del dissesto. Tale evoluzione si colloca lungo un percorso interpretativo e normativo che ha condotto a distinguere la crisi dall’insolvenza in senso stretto, riconoscendole una funzione segnaletica e prognostica. In questa prospettiva, il binomio crisi-insolvenza ha assunto valenze differenti, abbandonando la visione tradizionale meramente patologica per aprirsi a una logica gestionale e preventiva, volta a intercettare tempestivamente le situazioni di squilibrio economico-finanziario e a favorire il ricorso a strumenti di risanamento, in primis di natura stragiudiziale. In tale contesto, la crisi e l’insolvenza sono considerate una fase, sia pure delicata, della vita economica o imprenditoriale del debitore. Di questa fase, oggi, il legislatore ne disciplina allo stesso tempo la pianificazione, la gestione e l’esito, assicurando un ragionevole equilibrio tra le esigenze, talvolta (o per meglio dire nella maggior parte dei casi) contrapposte, del debitore, dei creditori, dei terzi e della collettività. Va rilevato come il legislatore del ’42, nell’ambito della disciplina previgente di cui al Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare), non abbia inteso fornire una definizione positiva ed univoca dello stato di crisi”, limitandosi piuttosto a collocare tale concetto in un’area funzionalmente prodromica rispetto all’insolvenza, considerata quest’ultima il presupposto oggettivo per l’apertura delle procedure concorsuali. È stato solo in sede di elaborazione e successiva approvazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), che il legislatore ha avvertito l’esigenza di tipizzare e definire in maniera autonoma lo stato di crisi. Brevemente si ricordi che la definizione proposta dal D.Lgs 14/2019, modificato dal Decreto Legislativo 147/2020, individuava la crisi come lo stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. La sostanziale modifica apportata dal Decreto Legislativo emanato nel 2020 riguarda la sostituzione del troppo ampio termine difficoltà” con la più specifica espressione di squilibrio economico-finanziario”, andando in questo modo a posticipare il momento in cui l’imprenditore (e l’organo amministrativo) dovranno intervenire ad un momento in cui la difficoltà sia maggiormente significativa ma non irreversibile. Nel Codice entrato in vigore nel 2022, invece, il legislatore propone una definizione semplificata e alleggerita di alcuni elementi, si pone maggiore attenzione nel definire la crisi come stato prodromico dell’insolvenza riprendendo l’approccio iniziale della legge fallimentare, ampliandolo tramite l’introduzione di un orizzonte temporale pari a dodici mesi che rappresentano il termine a cui i flussi di cassa devono far fronte al fine di adempiere alle obbligazioni assunte dall’imprenditore e provvedendo ad eliminare dal testo normativo lo squilibrio di natura economico-finanziaria tra i presupposti che determinano tale stato.

[10] Fra la vasta bibliografia, si segnala la monografia di F. Aguglia, “Il processo per la dichiarazione di fallimento”, Padova, 2001, e quella di F. Ferro, “L’istruttoria prefallimentare”, Torino, 2001, p. 67 ss.; oltre ai contributi di M. Fabiani, “L’istruttoria prefallimentare”, in Fallimento, 1994, p. 491; e S. Patti, “Istruttoria prefallimentare e poteri di controllo sulla crisi dell’impresa, in Fallimento, 1998, 939; S. Satta, Diritto fallimentare, III ed. aggiornata Padova, 1996, p. 53. Nel medesimo senso anche A. Bonsignori, “Tutela giurisdizionale dei diritti”, in Commentario Scialoja- Branca, Bologna-Roma, 1999, p. 25; R. Tiscini, “Potere di azione per la dichiarazione di fallimento e potere di segnalazione dello stato d’insolvenza: entità eterogenee a confronto”, in Fall., 2011, p. 333; Giannelli, Il fallimento, in AA.VV., Dir. Fall., Milano, 2008, p. 185 ss.; si veda anche P. F. Censoni, La dichiarazione di fallimento, in Bonfatti-Censoni, Manuale di diritto fallimentare, III ed., Padova, 2009, p. 49 ss.; F. De Santis, “La domanda di fallimento”, in Trattato di diritto fallimentare, Padova, 2016, p. 217 ss.; C. Amatucci, “Temporanea difficoltà e insolvenza”, Napoli, 1979, p. 64 ss.; V. Buonocore, "Fallimento e impresa”, 2007, p. 832 ss.; P.F. Censoni, “Il presupposto oggettivo del fallimento. Lo stato di insolvenza”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali”, Tr. Fauceglia-Panzani, p. 16; G. Ferri jr., “Il presupposto oggettivo del fallimento”, Riv. Comm., 2010, I, p. 765 ss.; C. Ibba, “Sul presupposto oggettivo del fallimento”, Riv. Civ, 2007, I, p. 797 ss.; G. Pellegrino, “Lo stato di insolvenza”, Padova, 1980, p. 378 ss.

[11] B. Inzitari, “Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, allerta”, in Diritto della Crisi, 2021, il quale osserva come il carattere unitario della disciplina del codice civile e della legge fallimentare “consente di applicare la categoria dell’insolvenza secondo il medesimo contenuto e con la medesima portata in tutti i rapporti obbligatori sia di fonte legale (artt. 384, 562, 753, 755, 760) che contrattuale (artt. 1186, 1267, 1274, 1313, 1626, 1715, 1764, 1833, 1868, 1910, 1943, 1239, 1974, 1953, 1954, 1959, 2220, 2221, 2255, 2325, 2462, 2545 terdecies, 2614 c.c.)”; l’Autore aggiunge inoltre che “il manifestarsi dell’insolvenza comporta rilevanti effetti e modificazioni nei diversi rapporti obbligatori. [...] Il mantenimento della capienza patrimoniale costituisce infatti la premessa dell’operatività e dell’efficiente esecuzione dei rapporti obbligatori e contrattuali, in quanto sulla capacità reddituale, finanziaria e patrimoniale si alimentano le aspettative del creditore e si fonda la concreta capacità di adempiere l’obbligazione e di dare esecuzione alle prestazioni contrattuali”.

[12] P. Bastia, “Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese: criteri di progettazione”, in Ristrutturazioni Aziendali, 2021, secondo cui l’insolvenza prospettica è il pericolo della decozione “ossia dell'insolvenza prevedibile e di probabile verificazione nell'immediato futuro”, definita anche come stato in cui potrebbe versare l’imprenditore, e che si verifica «ogniqualvolta risulti che il debitore è destinato, nell’immediato futuro, a essere incapace di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni, ancorché non lo sia all’attualità”. Secondo l’Autore poi “Si introduce così un concetto probabilistico di insolvenza, che implica una vigilanza preventiva su questo rischio, sollevando l’esigenza da parte dell’organo amministrativo di contrastare un rischio di insolvenza, che può essere previsto sulla base di opportuni parametri e indizi rivelatori. Si vuole quindi internalizzare, con l’istituzionalizzazione di un nuovo profilo di rischio (il rischio” di insolvenza futura), un’attività di presidio rafforzata, condotta dall’imprenditore o dall’organo amministrativo, con la vigilanza, ai fini di eventuali segnalazioni, degli organi di controllo”.

[13] Così la sentenza della Cass. 14 gennaio 2022, n. 1053: Se è pur vero che anche un solo inadempimento può assurgere ad indice della situazione oggettiva di insolvenza occorre tuttavia considerare che lo stato di insolvenza dell’imprenditore commerciale, consistendo nell’impossibilità per quest’ultimo di soddisfare regolamentate le sue obbligazioni, non suppone, necessariamente, l’esistenza di inadempimento, né è da essi direttamente deducibile, essendo gli stessi, se effettivamente riscontrati, equiparabili agli altri fatti esteriori idonei a manifestare quello stato, con valore, quindi, meramente indiziario, da apprezzarsi, caso per caso [...] l’inadempimento quindi non rileva in sé ai fini della dimostrazione della condizione di insolvenza, ma può costituire un elemento sintomatico espressivo dello stato di impotenza funzionale non transitoria dell’impresa a soddisfare le proprie obbligazioni”.

[14] La giurisprudenza della Corte di Cassazione è costantemente orientata nel senso che l'insolvenza di una società in liquidazione - al contrario di quanto avviene per le società in piena attività - deve escludersi ogniqualvolta l'ammontare dell'attivo patrimoniale sia superiore all'ammontare dei debiti e ciò perché la società in liquidazione non è più destinata ad operare sul mercato, sicché non è più necessario che disponga di credito e risorse, e quindi di liquidità, dovendo solo liquidare il proprio attivo per estinguere le obbligazioni pendenti (cfr. Cass. 10 aprile 1996, n. 3321, in Fallimento, 1996, p. 1177; Cass., 26 giugno 1992, n. 8012, in Fallimento, 1992, p. 1026; Cass., 11 aprile 1992, n. 4403, in Giust. civ., 1993, p. 1027; Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, in Fallimento, 1990, p. 495).

[15] In particolare, l’ordinanza Corte di Cassazione, 17 ottobre 2022, n. 30435 ha ribadito il principio secondo cui, per le società in liquidazione, l’insolvenza va accertata in chiave patrimoniale: rileva lo sbilancio tra attivo e passivo, considerando non solo il valore nominale delle attività, ma anche la loro concreta capacità di realizzo e i tempi necessari per la liquidazione. La pronuncia assume rilievo non solo perché conferma un orientamento ormai consolidato, offrendo maggiore certezza interpretativa, ma anche per l'applicazione di tali principi a una fattispecie complessa e tutt’altro che infrequente, in cui lo stato patrimoniale della società era oggetto di contestazione tra le parti. E più recentemente si veda: Cass. 2 luglio 2025, n. 18012

[16] A tal riguardo, con l’entrata in vigore del CCII si parla anche di “insolvenza reversibile” con riguardo alla composizione negoziata della crisi. Tale nuovo strumento non è una procedura concorsuale, bensì viene definito come un percorso che il debitore compie. La composizione negoziata, ancorché distinta dalle procedure concorsuali, valorizzando un presupposto qualitativo dell’insolvenza: la sua sanabilità. Il d.l. n. 136/2024 ha chiarito che l’accesso alla composizione è ammesso anche in presenza di insolvenza, purché compatibile con concrete prospettive di risanamento. In tale ottica, si preferisce oggi il riferimento a un’insolvenza “sanabile” piuttosto che “reversibile”, essendo quest’ultima nozione riferibile propriamente all’imprenditore, non all’impresa. Pertanto, si ammette anche un concetto di insolvenza reversibile intesa quale situazione temporanea di difficoltà finanziaria, in cui l’impresa non è in grado di adempiere regolarmente le obbligazioni, ma esistono concrete prospettive di risanamento attraverso misure di riorganizzazione o accordi con i creditori.

[17] Cfr. Cass. 20 novembre 2018, n. 29913.

[18] Cfr. Cass. Ord. 3 gennaio 2023, n. 64.

[19] Cfr. Cass. 20 novembre 2018, n. 29913, conforme a Cass. 1° dicembre 2005, n. 26217.

[20] Con riguardo al profilo dell’adempimento delle obbligazioni si è sostenuto che occorrerebbe avere riguardo alle regole sull’adempimento delle obbligazioni in generale, che definiscono in senso lato l’esatto adempimento”. Sul punto si segnala una non uniformità di vedute. C. Avolio, “Art. 2 CCII” in Commentario Breve alle leggi su Crisi d’Impresa e Insolvenza, (M. Alberti), VII Ed., Padova, 2023, p. 11-17, secondo cui “un primo orientamento l’adempimento sarebbe regolare quando effettuato impiegando mezzi tratti dall’ordinario esercizio dell’impresa; secondo altro orientamento, al contrario, la regolarità dovrebbe essere invece valutata alla luce dell’idoneità del patrimonio del debitore al soddisfacimento delle ragioni dei creditori nel rispetto della loro par conditio creditorum”.

[21] Cfr. Cass. 20 novembre 2018, n. 29913, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it, secondo cui ”l’insolvenza differisce dall’inadempimento, poichè non indica un fatto, e cioè un avvenimento puntuale, ma appunto uno stato, e cioè una situazione dotata di un certo grado di stabilità: una situazione risolta in una inidoneità” di dare regolare soddisfazione delle proprie obbligazioni“ continua poi la Corte: “è fuor di dubbio, infatti, che l’accertamento dell’insolvenza [...] non s’identifica in modo necessario e automatico con il mero dato contabile fornito dal raffronto tra l’attivo ed il passivo patrimoniale dell’impresa; ed è parimenti indubbio che in presenza di un eventuale sbilancio negativo è pur possibile che l’imprenditore continui a godere di credito e sia di fatto in condizione di soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, configurandosi l’eventuale difficoltà in cui egli versa come meramente transitoria. Al tempo stesso ove – all’opposto – l’eccedenza di attivo dipenda dal valore di beni patrimoniali non agevolmente liquidabili, o la cui liquidazione risulterebbe incompatibile con la permanenza dell’impresa sul mercato e con il puntuale adempimento di obbligazioni già contratte, il presupposto dell’insolvenza può esser egualmente riscontrato. Nondimeno è un fatto logicamente incontrovertibile che l’eventuale eccedenza del passivo sull’attivo patrimoniale costituisce, pur sempre, e nella maggior parte dei casi, uno dei tipici fatti esteriori” che dimostrano l’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni”.

[22] Tali evidenze, sono comunque possibili molti (tendenzialmente illimitati) altri fatti esteriori” capaci di rivelare l’insolvenza del debitore. Alcuni di questi fatti sono presi in considerazione dalla stessa legge, attingendo peraltro da una casistica che si presentava con frequenza soprattutto nei secoli scorsi, quando forte era il timore della valenza afflittiva della procedura fallimentare. Al di là di tali fatti, non v’è dubbio che particolarmente eloquenti possano rivelarsi – sempre, ovviamente, a livello indiziario – le risultanze contabili (e specialmente il bilancio) che, se regolarmente tenute, possono ben rappresentare la situazione economico – finanziaria della società. Sarebbe però errato affrettarsi ad affermare l’insolvenza sulla base di una situazione di mero sbilancio” patrimoniale, poichè́ una situazione pur di grave sovraindebitamento non pregiudica di per sé la regolarità degli adempimenti, almeno sin quando l’impresa possa contare sul credito (soprattutto bancario) o su garanzie altrui (spesso prestate dai soci); tanto più̀, poi, se tali elementi risultino rafforzati da un’aspettativa di alti flussi di reddito futuro.

[23]È da tempo inoltre principio consolidato quello secondo il quale l’insolvenza non è esclusa dall’eccedenza delle attività sulle passività quando l’imprenditore si trova in una crisi risolvibile di liquidità (esempio classico è quello per cui l’attivo non è liquidabile a breve termine senza ricorrere a vendite rovinose). E v., in particolare, F. Nigro, “La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese”, in Trattato di diritto privato, Torino, 2015, p. 123 ss.

[24] Le ragioni di questa diversa scelta possono derivare dal fatto che l’introduzione dei doveri del debitore ha prodotto un effettivo e definitivo rinnovamento degli obblighi di comportamento nell’adempimento delle obbligazioni che ha reso necessario, anche sul piano sistematico, l’adeguamento delle norme che regolano i principi generali e definitori della disciplina dell’impresa.

[25] In questo quadro si inserisce la sentenza della Suprema Corteche ha chiarito come “se è pur vero che anche un solo inadempimento può assurgere ad indice della situazione oggettiva di insolvenza (Cass. 9297/2019), occorre tuttavia considerare che lo stato di insolvenza dell’imprenditore commerciale, consistendo nell’impossibilità per quest’ultimo di soddisfare regolarmente le sue obbligazioni, non suppone, necessariamente, l’esistenza di inadempimenti, né è da essi direttamente deducibile, essendo gli stessi, se effettivamente riscontrati, equiparabili agli altri fatti esteriori idonei a manifestare quello stato, con valore, quindi, meramente indiziario, da apprezzarsi caso per caso”.

[26] Cfr. Cass. 13 agosto 2004, n. 15769, in Dir. Fall. 2005, II, p. 395, ha affermato “Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio secondo cui, ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza deve essere valutato secondo dati oggettivi, prescindendo da qualsiasi indagine in ordine alle relative cause (v. ex multis Cass. 19 novembre 1992, n. 12383, in tanta di inadempimento di un pactum de non petendo, da parte di creditori del ceto bancario; Cass. 20 giugno 2000, n. 8374). Pertanto, l'interruzione brutale del credito, se anche può essere causa di risarcimento del danno "ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; (Cass. 21 maggio 1997, n. 4538; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321), non consente, tuttavia, di ritenere insussistente lo stato di insolvenza se da tale condotta, ancorchè illegittima, sia derivato uno stato di impotenza economica dell'imprenditore. La conclusione potrebbe essere diversa soltanto nel caso in cui l'imprenditore fosse inadempiente esclusivamente nei confronti della banca o delle banche che avessero illegittimamente esercitato il recesso dal rapporto di apertura di credito”; si vedano anche Cass. 7 giugno 2012, n. 9253; Cass. 24 settembre 2013, n. 21802.