Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Cessione d’azienda, deroga all’art. 2560 c.c. e principio di competitività


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Articolo

La “composizione negoziata” nella prospettiva del recepimento della direttiva “insolvency”. Prime riflessioni


Vittorio Minervini

Data pubblicazione
17 ottobre 2021

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Sommario: 1-. Premessa. 2-. Il “cambio di passo” segnato dal Decreto. 3-. I “cambi di cultura”. Insolvenza diffusa ed “earliest warning”. 4-. Il fulcro logico del nuovo istituto: il concetto di “risanabilità”. 5-. Implicazioni ricostruttive “di sistema”: l’oggettivizzazione del diritto della crisi d’impresa e gli interessi “altri”. 6-. Segue: il primato della business rescue culture. 7-. Segue: la prospettiva (anche) macroeconomica (e la necessaria coerenza con i princìpi euro-unitari del diritto della concorrenza e degli aiuti di Stato). 8-. Segue: buona fede, correttezza e solidarietà. 9-. Conclusioni preliminari.

(*) Lo scritto è destinato, con alcune integrazioni e modifiche, a Il diritto fallimentare e delle società commerciali, oltre che a un volume a più mani sulla recente riforma.


1-. Premessa

Le Misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale recate dal D.L. 118/2021 (c.d. “Decreto Pagni”) hanno già suscitato nutrita attenzione da parte della dottrina. I primi commentatori si sono spesi in analisi di vario taglio ed esito[1], che hanno scandagliato in particolare due topoi ricorrenti, vale a dire: da un lato, il nuovo rinvio dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa; dall’altro, il diverso e ulteriore differimento delle misure di allerta, nonché il peculiare rapporto fra queste e la nuova “composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa”, istituita dallo stesso Decreto (cfr. art. 2 ss.).

Pur facendo tesoro delle indicazioni sin qui emerse, in luogo di un (ulteriore) commento “a caldo” che, prima della conversione in legge del Decreto, si addentri nella disamina delle singole disposizioni, sembra utile trasferire l’analisi su un piano differente e apparentemente meno gettonato,  cercando di inquadrare l’intervento normativo in una prospettiva d’insieme, sul piano cioè dello sviluppo diacronico e, direi, culturale.

A tale riguardo, mutuando (e per certi versi rielaborando) la saggia osservazione di chi dice che dietro ogni riforma dell’ordinamento delle crisi d’impresa dovrebbe esservi “un cambiamento di passo al quale spesso dovrebbe corrispondere un cambio di cultura nell’approccio al tema e nella gestione delle soluzioni[2], mi pare di poter dire che il D.L. 118/2021 segni effettivamente, in primo luogo, un importante “cambio di passo”. Il Decreto è infatti espressione di un legislatore che non deve (più) preoccuparsi (soltanto) di dare ossigeno alle imprese ma che, in concomitanza con i prodromi della tanto attesa ripresa economica[3], può (anzi, ritiene di dover) dedicarsi a una più lungimirante attività di ricostruzione normativa, che favorisca il rilancio del sistema produttivo del Paese.

Proprio in questo senso, e nonostante la forma tecnica dell’intervento d’urgenza, il Decreto sembra inaugurare un cantiere di riforme destinato per molti aspetti a radicare anche un rilevante “cambio di cultura” nel diritto della crisi d’impresa, non solo nella sua dimensione emergenziale[4]. La composizione negoziata sembra infatti poggiare solidamente sugli approdi dottrinari che avevano iniziato ad affermarsi ben prima della pandemia e che, a livello euro-unitario, erano culminati nella  direttiva “Insolvency[5].  Questo patrimonio concettuale, che trova espressione anche nel Decreto, parrebbe allora destinato a sopravvivere alla fase emergenziale e a informare di sé il “diritto che verrà”.

È su questo “cambio di cultura”, profondamente innestato nella Direttiva, che vorrei dunque provare a soffermarmi in questa sede, svolgendo alcune rapide considerazioni in merito alle linee evolutive del diritto della crisi d’impresa che sembrano emergere, in nuce, nei nuovi istituti[6].

 

2-. Il “cambio di passo” segnato dal Decreto

Non si può inquadrare fino in fondo il “cambio di cultura” di cui vorrei ragionare senza aver meglio definito in cosa consista il “cambio di passo” da cui esso promana.

Sarebbe forse più corretto parlare di “passi”, al plurale. In primo luogo, sembra davvero tangibile, in tal senso, la cesura che separa l’approccio (inevitabilmente “inseguro y urgido”) dei primi provvedimenti emergenziali da quello (più meditato e consapevole) del Decreto, che dichiara apertamente l’intento di farsi artefice della “seconda fase della reazione […] all’emergenza provocata dalla pandemia[7].

A separare l’una impostazione dall’altra v’è la lucida “presa di coscienza”, esposta nelle pagine iniziali della Relazione Illustrativa, a mo’ di manifesto programmatico. Essa evidenzia infatti come i “sostegni di tipo finanziario ed economico riconosciuti alle imprese” (che, insieme al “congelamento” forzoso delle procedure concorsuali, avevano rappresentato la cifra qualificante degli interventi dei primi mesi di pandemia) abbiano avuto l’indubbio merito di aver “ridotto il peso della crisi sulle attività produttive”; e tuttavia essa rimarca altresì che, nel lungo periodo, questi “non potranno […] contenere e risolvere i profondi mutamenti del tessuto socio-economico provocati dalle restrizioni collegate alla pandemia[8]. Al contempo, quale premessa e giustificazione all’intervento, la Relazione riconosce, expressis verbis[9] che la legge fallimentare, il Codice e, in generale, lo strumentario normativo/concettuale pre-pandemico non sono adatti a garantire la gestione dell’emergenza in atto[10]; che in questo percorso di necessaria riforma degli strumenti per affrontare la crisi d’impresa “occorre dare completa attuazione […] alla Direttiva del Parlamento e del Consiglio, 20 giugno 2019, n. 2019/1023 UE riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva []”;e che, a tale scopo, sarà necessario anche apportare le opportune “integrazioni” alle disposizioni del Codice della crisi[11], ovviamente tenendo conto “dell’emergenza sanitaria[12].

Pur nella sua veste formale di decreto legge, l’intervento normativo sembra tuttavia collocarsi al di là di una normativa squisitamente emergenziale, essendo il frutto di un mutato contesto socio-economico[13], al quale conseguono diversi obiettivi politici e normativi[14], da raggiungere in un orizzonte temporale più disteso[15] e, soprattutto, in un’ottica di piena coerenza con le normative unionali, volte a rafforzare l’efficacia dei mezzi di salvataggio e ristrutturazione precoce delle imprese in crisi.

Sotto questo profilo, il cambio di passo del Decreto è anche di carattere metodologico. L’esigenza di politica normativa, evidentemente, è quella di stabilire una sorta di ponte concettuale che, assimilando le esperienzematurate nel corso della pandemia[16], sia in grado di proiettarle e saldarle con il futuro prossimo del diritto della crisi che, necessariamente, dovrà passare per il recepimento della Direttiva e, a questo fine, anche attraverso la revisione (e talora riscrittura) del Codice già adottato. Saggiamente, allora, l’istituzione di questo new deal è stato affidato a una Commissione che, nella sua stessa composizione[17], è intesa a garantire la realizzazione di quel “circolo virtuoso” fra dottrina, giurisprudenza, tecnici e legislatore emergenziale che era stato da molti auspicato a inizio pandemia[18] e che può leggersi in controluce anche nell’agenda del Governo Draghi, sin dal discorso programmatico d’insediamento pronunciato di fronte al Parlamento[19].

Tale essendo la genesi del Decreto Pagni, l’istituto della “composizione negoziata” quale “nuovo strumento di ausilio alle imprese in difficoltà, di tipo negoziale e stragiudiziale[20] sembra (allora) destinato a segnare non solo un semplice “cambio di passo” nella gestione dell’emergenza pandemica, ma anche – e in modo più perspicuo – a gettare le fondamenta di un più profondo “cambio di cultura” nel trattamento della crisi di impresa, capitalizzando concetti che erano stati già al centro del dibattito scientifico, ulteriormente affinandoli e conferendo loro dignità normativa, alla luce di quanto la Direttiva (ancora) richiede.

 

3-. I “cambi di cultura”. Insolvenza diffusa ed  earliest warning


Occorre avvertire, in limine, che proprio la funzione di “ponte” assunta dal Decreto potrebbe rendere non agevole, almeno in alcuni casi, distinguere i tratti solo “transeunti”, destinati a esaurirsi con il superamento della pandemia, da quelli invece “durevoli”, che qui maggiormente interessano perché incarnano il fenotipo di quello che potrà essere il “nuovo” diritto della crisi e dell’insolvenza riformato alla luce della Direttiva.

In questo senso, un primo concetto di base su cui testare una tale opera di setaccio è quello della cd. “insolvenza diffusa”, con ciò intendendosi quella condizione di illiquidità dilagante e trasversale provocata da uno shock esogeno, che investe simultaneamente più mercati. Dopo essere stata al centro del dibattito dottrinario[21] e delle misure assistenziali nelle prime settimane successive al dilagare del contagio (sotto il profilo del trattamento che richiede anche a fini concorsuali), tale “condizione” rappresenta, ancora oggi, uno dei pilastri portanti del Decreto[22].

Si tratta di un tema che, in sé considerato, potrebbe apparire “tipicamente pandemico” (e dunque, almeno auspicabilmente, “transitorio”); ma la progressiva globalizzazione dell’economia, che amplifica e accelera il diffondersi delle crisi cd. sistemiche[23], dovrebbe indurre a non escludere troppo frettolosamente la possibilità che, nel prossimo futuro, un simile fenomeno non possa, magari per cause diverse, tornare in auge. La storia delle varie “bolle” (finanziarie e immobiliari) del recente passato insegna che da una crisi di liquidità generalizzata in uno o più comparti produttivi possono scaturire ricadute a monte e a valle della filiera che, specie in taluni casi o settori, possono estendersi ad altri comparti e mercati, finanche a livello globale[24] (e d’altra parte, un simile spettro sta tornando ad aleggiare sui mercati, con la crisi del colosso immobiliare cinese Evergrande).

Anche volendo mettere da parte queste considerazioni (inquietanti, ma non peregrine), quel che appare rilevante ai nostri fini è che l’azione di contrasto a una tale condizione di “insolvenza diffusa” (ma reversibile) viene esercitata ora dal Decreto ampliando e affinando ulteriormente l’armamentario concettuale elaborato in epoca pre-pandemica, anche quanto all’emersione precoce della situazione di crisi.

In linea con la dottrina dell’early warning predicata dalla Direttiva (a partire dai Considerando 2-4) e (pur con diversi presupposti e sfumature) dal Codice, l’intento del Decreto è infatti quello di “prevenire l’insorgenza di situazioni di crisi” e di riuscire a “risolvere tutte quelle situazioni di squilibrio economico-patrimoniale che, pur rivelando l’esistenza di una crisi o di uno stato di insolvenza, appaiono reversibili” (così la Relazione). La soglia di rilevanza viene ora abbassata, come è stato giustamente notato, dalla probabilità di insolvenza (art. 1 Direttiva, che tuttavia rimette tale definizione alla normativa nazionale; e in questo senso v. anche l’art. 2 del Codice) alla mera “probabilità della probabilità dell’insolvenza[25]. Dall’early warning codicistico il trattamento della crisi viene qui “anticipato” – ma su base solo volontaria e riservata (almeno fino a quando non si invochino misure protettive che richiedono l’intervento del tribunale fallimentare) – alla cd. twilight zone. A voler coniare un neologismo, si potrebbe dire che il Decreto introduce allora un’earliest warning, una sorta di allerta precocissima, su basi concettuali e procedimentali ben diverse però da quelle delineate dal Codice e assai più affini a quelle della Direttiva (come si dirà meglio a breve).

Non c’è bisogno, in questa sede, di soffermarsi sulla intrinseca problematicità del nesso intercorrente fra la composizione negoziata e le misure di allerta previste dal Codice (trattandosi di tema già autorevolmente e condivisibilmente trattato[26]). A me basta qui evidenziare che l’anticipazione dettata dal Decreto, non ponendosi in contrasto la Direttiva[27] e iscrivendosi in un trend che appare piuttosto definito (ancorché non privo di incertezze[28]), rende lecito ipotizzare che, anche nella “nuova normalità” postpandemica un’earliest warning possa avere diritto di cittadinanza.

In questo senso si potrebbe forse pensare di coordinare opportunamente le discipline al fine di mantenere aperto una sorta di “doppio binario”, attribuendo cioè  all’earliest e all’early warning due funzioni autonome; il che ben potrebbe essere, se non altro perché l’allerta “precocissima”, insita nella composizione negoziata, risulta assai più aderente alla funzione “tipica” preconizzata dalla Direttiva (incrementare la consapevolezza del debitore e promuovere l’accordo spontaneo fra le parti prima che il valore incorporato nell’organizzazione dell’impresa sia  irrimediabilmente disperso, a danno degli stessi creditori), mentre l’early warning codicistico (e in particolare l’allerta esterna) pare invece rivolto a “forzare la mano al debitore rivelando la sua crisi anche a terzi[29].

Se – per come si crede – questa allerta volontaria, riservata e “precocissima” continuerà a trovare applicazione anche successivamente alla pandemia, per agevolare il suo “effetto utile” sarà necessario che anche in futuro siano garantiti i medesimi crismi di celerità, semplificazione e telematizzazione previsti ora nel Decreto (peraltro in coerenza con l’impostazione già rinvenibile al riguardo nella più recente legislazione sul trattamento dell’insolvenza).

 

4-. Il fulcro logico del nuovo istituto: il concetto di “risanabilità”

Ma il vero fulcro logico della nuova composizione negoziata sembra essere quello della “risanabilità”.

La risanabilità costituisce, infatti, il primo e indefettibile requisito che deve ricorrere per poter accedere alla composizione (dovendo essere “[] ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”: art. 2); su di essa sono stati costruiti tanto l’onere probatorio gravante sull’impresa (cfr. art. 3 c. 2 e art. 7 c. 2 lett. e; su entrambi si tornerà meglio infra), quanto il mandato conferito all’esperto, che fin dalla prima audizione è tenuto a “valutare l’esistenza di una concreta prospettiva di risanamento”; soprattutto, da essa dipende l’esito stesso della “procedura”[30], posto che l’istanza deve essere archiviata de plano laddove un tale risultato non sia ragionevolmente ottenibile (v. art. 5 c. 5).

Ho già avuto modo di soffermarmi, nel recente passato, sul concetto di “risanabilità” e sui suoi sfuggenti connotati giuridici[31]. Volendo semplificare, per quanto qui di interesse, un discorso in realtà assai più complesso, si può dire che a partire dalla sua emersione nella disciplina dell’amministrazione straordinaria (art. 27 D.Lgs. 270/1999) e passando per il suo successivo inserimento all’interno della legge fallimentare comune (con l’introduzione dei piani attestati di risanamento ex art. 67 c. 3 lett. d l.f., ora art. 56 del Codice), tale paradigma si è progressivamente consolidato nel diritto della crisi, anche nella disciplina speciale riservata agli intermediari bancari e finanziari[32]. Questo trend si è rafforzato ancor di più negli ultimi anni, in particolare nella cornice giuridica della Direttiva Insolvency, il cui obiettivo  notoriamente è quello di “garant[ire] alle imprese e agli imprenditori sani che sono in difficoltà finanziarie la possibilità di accedere a quadri nazionali efficaci i materia di ristrutturazione preventiva che consentano loro di continuare a operare” (cfr. Considerando 1). Anche nel Codice il giudizio sulla risanabilità dell’impresa in crisi assume del resto un ruolo centrale nell’ambito del procedimento giurisdizionale unitario, ai fini dell’applicazione dell’una o dell’altra disciplina e, dunque, della produzione di effetti giuridici potenzialmente antitetici (conservazione ovvero liquidazione dell’impresa e delle sue attività).

Per questa ragione – oltre che per la sua intrinseca attitudine ad assicurare una tendenziale coerenza e circolarità logica fra le discipline della crisi e i princìpi anche di livello euro-unitario vigenti in materia di concorrenza e di aiuti di Stato[33] – avevo suggerito un utilizzo (anche) in chiave “anti-Covid” del concetto di “risanabilità”, trattandosi di un criterio che per sua stessa natura ben si presta a selezionare, fra le (tante) imprese che per ragioni esogene versano in stato di insolvenza, quelle che hanno una valida chance di restare profittevolmente sul mercato e di continuare a produrre ricchezza e che, dunque, “meritano” di essere salvate e – a seconda dei casi – di accedere alle misure assistenziali pubbliche[34].

A mio avviso il Decreto non solo conferma il ruolo centrale che il concetto la risanabilità dovrà avere anche nel diritto della crisi post-pandemia, ma ha il merito di individuare una soluzione applicativa che, rimettendo l’iniziativa all’impresa, mira a massimizzare le prospettive di risanabilità, incentivando la descritta emersione “precocissima”[35].

Ciò detto, residuano tuttavia non pochi profili di difficoltà e incertezza, di cui si era già dato conto in passato e che solo in parte paiono risolti dal Decreto e dalle norme attuative ad esso correlate.Ritengo infatti che resti ancora privo di risposte univoche l’interrogativo che avevo sollevato tempo addietro in merito al chi,e in base a quali parametri, possa pronunciare – con ragionevoli margini di certezza giuridica – una “prognosi di risanabilità”.

Quanto alla prima questione, il Decreto conferma quanto già richiesto sul punto dalla Direttiva[36], riconoscendoche non esiste in seno alle nostre sezioni fallimentari una classe “professionale” già adeguatamente formata ed esperta, cui una tale valutazione possa essere rimessa.Non a caso, il Decreto prova a costruire da zero tale cerchia di professionisti, istituendo la figura dell’“esperto” (facilitatore e/o garante, a seconda delle opinioni dei primi commentatori) che, sulla base delle proprie specifiche competenze, dovrebbe vagliare i dati messi a disposizione del debitore e, già nell’arco di pochi giorni, trovarsi nelle condizioni di esprimere una prognosi attendibile sulla risanabilità o meno dell’impresa (e, dunque, sul suo destino).

Nel farlo, tuttavia, il Decreto potrebbe non essere riuscito a rinvenire una soluzione del tutto priva di inconvenienti (e intrinseche contraddizioni). A parte l’ingiustificata disparità di trattamento nei requisiti richiesti ad avvocati e commercialisti[37], pare difficilmente conciliabile l’esigenza di intervenire immediatamente (avvalendosi a tal fine dello strumento della decretazione d’urgenza), e quella di istituire percorsi di formazione specifica (che peraltro ad oggi non esistono, come non esiste un registro degli esperti), ciò che verosimilmente non permetterà la concreta applicazione del nuovo istituto per almeno 6-9 mesi, a meno di qualche opportuna disposizione transitoria.

Si tratta di due necessità ben comprensibili, ma inevitabilmente dissonanti. A me pare che una soluzione di buon senso potrebbe essere quella di permettere da subito l’avvio delle procedure di Composizione, delegandole però a un collegio di esperti, quantomeno fino a quando non sarà possibile formare adeguatamente un professionista “a tutto tondo” (ma in realtà credo che, almeno per le fattispecie di maggior rilievo socio/economico, la possibilità di incarichi duali o collegiali dovrebbe essere sempre tenuta in considerazione, come d’altra parte è già di prassi nelle procedure concorsuali dei maggiori tribunali). Probabilmente, nella maggior parte dei casi, sarà sufficiente istituire un collegio composto da un avvocato e un dottore commercialista, ove possibile con specifica esperienza anche nel campo di attività dell’impresa che alla composizione negoziata ricorre. Nulla toglie che, a seconda del caso concreto, si possa arricchire l’expertise del collegio estendendolo a una delle altre figure previste dall’art. 3, c. 3 del Decreto: un consulente del lavoro o un soggetto che, pur non essendo iscritto in albi professionali, documenti di “avere svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in imprese interessate da operazioni di ristrutturazione” concluse con successo. L’innesto di quest’ultima figura tra i soggetti eleggibili mi pare essere una scelta felice, sia perché spesso potrebbe apportare un notevole patrimonio di esperienza pratica (complemento ideale per i professionisti della crisi), sia perché permette di valorizzare al meglio il patrimonio conoscitivo dell’imprenditore (“onesto ma sfortunato”), ciò che ben si coniuga con il credo della second chance[38].

Va da sé che il conferimento di incarichi collegiali dovrebbe indurre ad allentare, proporzionalmente, la soglia-limite stabilita dal Decreto di incarichi simultaneamente attribuibili a ciascun esperto (attualmente pari due: cfr. art. 5 c. 4; tenuto conto del minor onere che andrebbe a gravare su ciascun esperto, si potrebbe pensare di elevare tale valore a cinque o sei incarichi[39]).

L’esigenza di colmare, soprattutto nella fase di start-up della Composizione, il gap cognitivo degli esperti è, d’altra parte, il risvolto soggettivo dell’altro grande problema aperto, che attiene ai parametri sulla base dei quali è possibile affermare la “risanabilità”. L’accertamento di serie e concrete prospettive di recupero dell’impresa è determinante ai fini dell’accesso alla Composizione, ma è ancora oggi ostaggio di quell’alone di incertezza che la connota, essendo la “risanabilità” un concetto tecnico proprio delle scienze aziendalistiche, relativo (in quanto variabile in funzione delle assunzioni di base e delle ipotesi prospettiche) e pertanto intrinsecamente opinabile e spesso anche indeterminabile con certezza a priori.

Va detto che la previa “redazione del piano di risanamento” e lo svolgimento di un “test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento” da parte dell’impresa (art. 3, c. 2 Decreto, che risuona dell’art. 8 della Direttiva) dovrebbe, almeno in teoria, permettere all’esperto di esprimere in maniera più obiettiva un giudizio sulla risanabilità e su quale possa dunque essere il destino dell’impresa in crisi, fondato su elementi specifici, chiari e (almeno in parte) verificabili. In questo senso va aggiunto che le disposizioni di attuazione[40] si caratterizzano per un significativo grado di dettaglio, ma resta da verificare se gli elementi e i dati numerici in cui esse si articolano siano sufficienti a esprimere una valida prognosi di risanabilità di tipo anche “qualitativo” (un’impresa non risanabile secondo un determinato modello di business potrebbe diventarlo modificando l’organizzazione produttiva o mediante una parziale – o anche totale –  riconversione delle attività).

A tal proposito, un tema di non secondaria importanza riguarda l’apporto in “autodiagnosi” dell’impresa, che potrebbe diventare terreno fertile per abusi e strumentalizzazioni.  Provenendo da un soggetto che di certo non è né terzo né disinteressato (avendo viceversa un interesse diretto a ottenere i benefici del regime premiale cui si può accedere attraverso il ricorso alla composizione), non si possono evidentemente escludere dichiarazioni parziali, fuorvianti, eccessivamente ottimistiche, se non addirittura mendaci[41].

La vera sfida starà, dunque, nell’assicurare che sia l’esito del test, sia il piano di risanamento predisposto dall’impresa, sia soprattutto il giudizio dell’esperto (che su questi documenti ed elementi si fonda) restituiscano un’immagine quanto più fedele e obiettiva della situazione in cui versa (e, prospetticamente, potrà versare) l’impresa.

Ho scritto “sfida”, ma si tratta forse di un eufemismo. Come si vedrà meglio anche nel seguito, la selezione delle imprese da risanare (quelle cioè la cui insolvenza risulti “reversibile”, adottando la terminologia del Decreto) rappresenta un’esigenza vitale, a maggior ragione in questo periodo storico di rilancio dell’economia e delle attività produttive, e non ci si può permettere che l’esperto, magari fuorviato da un’autodiagnosi non impeccabile, esprima una prognosi che sbarri la strada a chi ha i numeri per essere rimesso in sesto o, viceversa, che faccia cadere in errore i creditori che partecipano alla negoziazione, inducendoli a sostenere lo sforzo inutile (anzi, dannoso) di tenere in vita un’impresa zombie (ciò che avverrebbe a scapito dell’interesse dei creditori, che ne dovrebbero sopportare i costi, oltre che delle dinamiche competitive del mercato)[42].

5-. Implicazioni ricostruttive “di sistema”: l’oggettivizzazione del diritto della crisi d’impresa e gli interessi “altri”

Il ruolo di “perno logico” assunto dal concetto di risanabilità (dell’impresa in senso oggettivo, intesa cioè come organizzazione produttiva) conferma un ulteriore elemento chiave, nitidamente desumibile dall’evoluzione delle discipline della crisi: la progressiva oggettivizzazione di queste ultime, a superamento del tradizionale “rapporto duale «creditore-debitore»[43], di natura soggettiva ed esecutiva.

Coerentemente con la Direttiva[44], la composizione sottende infatti un’impostazione di stampo prettamente oggettivo, che considera l’impresa come valore giuridico a sé stante, collocato al centro del sistema e intorno al quale gravita la pluralità di interessi eterogenei portati anche dagli altri stakeholder.

È l’impresa in senso obiettivo, intesa dunque come organizzazione (e non il soggetto-imprenditore) a essere al centro del giudizio di risanabilità e, con esso, dell’azione di salvataggio volta a sottrarla alla possibile disgregazione a causa della pandemia. Si potrebbe anzi dire, in questo senso, che l’intera composizione è un “percorso” (secondo la diplomatica qualifica data dalla Relazione) ontologicamente preordinato a commisurare, attraverso il (para)metro della risanabilità, le esigenze di protezione del valore-impresa con tutti gli “altri” interessi coinvolti e, pure, potenzialmente meritevoli di tutela.

Questo nuovo corso, per così dire “oggettivato”, del diritto della crisi d’impresa ha probabilmente alle sue basi anche precisi fattori di carattere storico ed economico: soprattutto in quella che si definisce come new economy, il vero valore di un’impresa non sta, infatti, tanto nei beni materiali di cui l’azienda si compone, quanto in altri elementi, per lo più intangibili (quali ad es. il know-how, l’avviamento, la forza del brand, la reputation sociale e commerciale), che in caso di sua dissoluzione si perderebbero pressoché totalmente, in danno degli stessi creditori (donde, dunque, anche il loro interesse a preservare tali valori, mantenendo vitale l’impresa)[45].

Questa funzione di considerazione e bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti nella vicenda di crisi legata ad un’impresa – intesa appunto in senso obiettivo, come organizzazione e dunque come titolare di contratti, relazioni commerciali, know-how specifico, capitale umano, ecc. – risulta perfettamente consequenziale non solo con le previsioni della Direttiva[46], ma anche con la posizione di chi, in dottrina, aveva (a mio avviso correttamente) evidenziato come anche l’impresa in crisi dovesse continuare ad assolvere agli oneri della responsabilità sociale, mantenendo una considerazione bilanciata anche degli interessi “altri” (dalla tutela del mercato a quella dell’occupazione, passando per quelle del territorio, dell’ambiente, della salute)[47].

In un’ottica sistematica, mettere al centro il valore-impresa (invece del rapporto soggettivo e patrimoniale “debitore/creditore”) va anche a diretto beneficio di tutti gli interessi che intorno ad esso si addensano, incrementandone peso e rilevanza anche nell’ambito della gestione della crisi, come la Relazione illustrativa afferma con chiarezza. Ne segue, all’evidenza, che anche la salvaguardia di questi interessi (“altri”) attraverso l’operazione di risanamento e ristrutturazione aziendale potrà essere tanto più efficace quanto più vitale sia (ancora) l’impresa su cui il tentativo si appunta: donde, anche – e a maggior ragione – l’esigenza di assicurare l’emersione e il trattamento precoce (anzi precocissimo) della crisi.

In senso quasi di ottimo paretiano, secondo quanto emerge dalla Relazione la Composizione dovrebbe far sì che attraverso “il risanamento dell’impresa [si garantisca] il ripristino delle sue capacità solutorie, [ciò che] rappresenta per tutti i creditori la migliore alternativa rispetto alla gestione della crisi in sede concorsuale”.

Il concetto è, in linea di massima, senz’altro condivisibile; ma andrebbe forse formulato in termini meno assoluti e perentori. Non solo perché – per come già altrove scritto – risanare o ristrutturare un’impresa in crisi è certo desiderabile, ma anche assai difficile e, in concreto, non sempre possibile (ragion per cui l’effettiva risanabilità dell’impresa dovrà essere sempre appurata attraverso uno scrutinio obiettivo e rigoroso[48]). In sostanza, non in tutti i casi la conservazione dell’impresa sarà preferibile alla sua liquidazione[49].

Probabilmente quest’ultimo è un tema che risulta difficile sollevare in questo particolare frangente storico in cui, invece, ci si deve affidare a strumenti premianti che incentivino l’emersione precoce delle situazioni di crisi e semplifichino quanto più possibile la tutela dell’intero tessuto industriale. Ma dato ciò per assodato, la Composizione non deve neppure diventare un viatico per tenere in vita imprese decotte e per alimentare il mito del salvataggio “ad ogni costo”, che ovviamente sarebbe incompatibile anche con le previsioni della Direttiva (come già si diceva, la “second chance” di cui al Considerando 1 non è concessa a tutti, ma soltanto “alle imprese e agli imprenditori sani[50]).

 

6-. Segue: il primato della business rescue culture

Le riflessioni appena svolte aprono il ragionamento su un altro caposaldo concettuale della Composizione, quello della cd. “business rescue culture”.

Si tratta, notoriamente, di una filosofia ormai comune a molteplici ordinamenti continentali ed extraeuropei, secondo un percorso ben osservabile a livello globale[51]che, attraverso linee di ragionamento fondate in particolare sul modello concettuale del Chapter 11 statunitense, è stata ormai positivamente accolta nelle fonti euro-unitarie che regolano la materia (a partire dalla Direttiva: cfr., ad es., i primi quattro Considerando),ma che risulta ben identificabile, sia pur come minore nettezza, anche nelle disorganiche leggi di riforma che a partire dal 2005 hanno caratterizzato il diritto fallimentare nazionale[52] e (in modo però non sempre esente da incertezze e contraddizioni) nell’impostazione di fondo seguita dal nuovo Codice[53].

Se la Direttiva privilegia certamente la salvaguardia dell’impresa in crisi, imponendo agli Stati membri di perseguire il tentativo di risanamento ricercando l’“equilibrio” fra i diritti di tutte le parti coinvolte[54], la nuova composizione negoziata appare ancor più chiaramente preordinata a dare priorità al salvataggio dell’impresa (nel senso sopra precisato), tutelando in via diretta la continuità aziendale; e in questo supera nettamente l’assetto di interessi che era stato tracciato sul punto dal Codice.

Infatti – com’è stato infatti già validamente osservato – mentre il Codice ha sposato in sostanza un’impostazione qualificabile come creditor-oriented, nel Decreto la filosofia della business rescue (e della salvaguardia della continuità aziendale che ne è corollario) è stata indubbiamente privilegiata, imprimendo alla Composizione, con la complicità della contingenza pandemica, un orientamento nettamente debtor-oriented[55].

La diversità di approccio rispetto al Codice risulta del resto assai nitida, ove si consideri che l’art. 4, c. 5 del Decreto attribuisce all’imprenditore il dovere di “gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori”, mentre il Codice tra i propri princìpi generali annovera il dovere del debitore di “assumere tempestivamente le iniziative” più opportune a fronteggiare la crisi, “anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori” (art. 4). È evidente che la diversa locuzione – e così la presenza (nel Decreto) o l’assenza (nel Codice) dell’avverbio “ingiustamente” – non è affatto casuale, ma risponde all’esigenza, qui avvertita chiaramente come prioritaria, di dare il maggior spazio di manovra possibile all’operazione di salvataggio e risanamento aziendale.

Non si tratta peraltro di una scelta isolata: basti pensare alle altre divergenze riscontrabili fra i doveri che il Codice e il Decreto assegnano agli amministratori dell’impresa in crisi. Così, mentre ai sensi dell’art. 4 del Codice il debitore ha il dovere di “gestire il patrimonio o l’impresa […] nell’interesse prioritario dei creditori”, il Decreto non ripropone una simile disposizione, ma si limita a stabilire che, in caso di “probabilità di insolvenza”, l’imprenditore “gestisc[a] l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività” (cfr. art. 9 c. 1; evidenze aggiunte). La prospettiva, anche sul piano lessicale, è indubbiamente assai diversa.

Nella stessa direzione va considerata anche la previsione secondo la quale eventuali atti che possano “arrecare pregiudizio ai creditori, alle trattative o alle prospettive di risanamento” (cfr. art. 9, c. 2, 3, 4) sono assoggettati alla moral suasion dell’esperto e, ove questa risulti inefficace, alla pubblicazione sul registro delle imprese. Non si tratta dunque di un divieto sic et simpliciter, ma di una sanzione anzitutto reputazionale, che in buona sostanza rimette alla discrezionalità dell’imprenditore l’opportunità di compiere o meno l’atto potenzialmente pregiudizievole per i creditori, lasciandolo comunque nel frattempo libero di operare sul mercato e di continuare a difendere l’impresa-organizzazione e la sua attività volta (almeno in tesi) alla produzione di ricchezza. Saranno i creditori, in caso, a sanzionare la condotta ex post, facendo naufragare la Composizione laddove l’atto “pregiudizievole” non abbia prodotto gli effetti positivi sperati (anche a loro beneficio).

Ancor più indicativi nel senso appena divisato mi sembrano essere gli artt. 6 e 7 del Decreto, che consentono l’adozione di “misure protettive del patrimonio” tali da impedire, nell’ordine: l’acquisizione di diritti di prelazione “se non concordati con l’imprenditore”; lo svolgimento di azioni esecutive cautelari “sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività d’impresa”; la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento o di accertamento dello stato di insolvenza; che i creditori possano “rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti” ovvero “provocarne la risoluzione”, “anticiparne la scadenza” o “modificarli in danno dell’imprenditore” istante, “per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori”. Ne risulta un vero e proprio “scudo” a tutela della continuità aziendale, operante “dal giorno della pubblicazione” dell’istanza nel registro delle imprese (e, dunque,“a prima richiesta” del debitore), che non si limita alla cristallizzazione delle iniziative giudiziarie dei creditori, ma mira invece ad assicurare, anche da un punto di vista sostanziale, la prosecuzione dei contratti e, dunque, dell’attività d’impresa in senso obiettivo.

La tutela della continuità aziendale è al centro anche delle previsioni dell’art. 10, in particolare ove si contempla la possibilità per il giudice fallimentare di rideterminare il contenuto “dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita” la cui prestazione sia divenuta “eccessivamente onerosa per effetto della pandemia”. Se l’esperto può soltanto “invitare le parti” alla rinegoziazione, secondo buona fede, il tribunale può invece disporre la riconduzione delle prestazioni ad equità anche coattivamente, rideterminando d’imperio le condizioni contrattuali sia pur “per il periodo strettamente necessario e come misura indispensabile ad assicurare la continuità aziendale”, a fronte solo della eventuale “corresponsione di un indennizzo”.

Tornerò a breve sulle previsioni da ultimo richiamate, in quanto ben indicative anche di altre rilevanti sfaccettature del “cambio di cultura” in essere. Qui, con specifico riferimento al tema della business rescue, vorrei invece  svolgere alcune brevissime ulteriori considerazioni.

La disamina normativa che precede restituisce, come chiave di lettura complessiva, una tendenziale recessività delle posizioni dei creditori rispetto alla salvaguardia dell’impresa e della sua organizzazione, che assume centralità e priorità rispetto agli altri interessi coinvolti. Gli unici che, almeno sulla carta, non dovrebbero subire compressioni dei propri diritti sono i lavoratori i quali, oltre al ruolo attivo e di primo rilievo nelle attività di negoziazione (cfr. art. 4, c. 8), sfuggono ad es. all’efficacia dello “scudo” giudiziale sopra descritto (cfr. ad es. art. 6 c. 3; 10 c. 2)[56].

Ci si può chiedere, a tale riguardo, se si tratti di un “cambio di cultura” meramente transitorio, destinato a scomparire con il superamento della pandemia o se, viceversa, il citato approccio consacri un principio (quello del primato della continuità aziendale dell’impresa risanabile) che supera, sul punto, le esitazioni e le contraddizioni del Codice e, come tale, destinato a rimanere come un punto fermo, un’acquisizione del diritto “che verrà”.

A me pare che sia da preferire questa seconda opzione, se non altro perché il maggior favore che il Decreto mostra verso l’impresa debitrice (e dunque: verso il suo salvataggio e la continuità della sua attività in senso oggettivo, ove necessario anche a parziale detrimento degli interessi del ceto creditorio) sembra esprimere una precisa volontà di superare l’approccio più titubante e tradizionalista adottato del Codice, riallacciandosi all’impostazione  che era stata fatta propria dalla prima Commissione Rordorf e che, indubbiamente, risulta(va) assai più coerente con la trama logica e valoriale della Direttiva.

 

7-. Segue: la prospettiva (anche) macro-economica (e la necessaria coerenza con i princìpi euro-unitari del diritto della concorrenza e degli aiuti di Stato)

Personalmente non ho nulla da obiettare sul fatto che, per un periodo transitorio ed entro limiti ben definiti stabiliti da un giudice, per salvaguardare l’integrità dell’organizzazione aziendale (e del valore, anche immateriale, in essa incorporato) gli interessi dei creditori possano essere collocati, specialmente in un contesto come quello attuale, su un piano anche parzialmente recessivo rispetto a quello dell’impresa e della sua continuità: a patto, però, di stare attenti a non incorrere in indebite e semplicistiche generalizzazioni e semplificazioni.

E qui sta un’ulteriore riflessione, che si riaggancia alle due precedenti. L’accentuarsi dei profili della conservazione dell'impresa in crisi porta infatti a rendere più evidente la tensione con i princìpi del diritto della concorrenza, che costituiscono un patrimonio acquisito e indiscusso anche a livello unionale[57], acuendo la problematicità intrinseca di tale relazione che, a mio avviso, può essere stemperata e risolta soltanto intervenendo “a monte”, vale a dire garantendo l’accesso a queste forme di protezione soltanto a chi davvero le meriti, secondo i dettàmi della competition on the merits. In altri termini, soltanto alle imprese che siano davvero risanabili[58].

Tale ultima considerazione (oltre a dare ulteriore riprova, se mai ve ne fosse bisogno, del ruolo cruciale rivestito da tale paradigma normativo), consente un breve (ma oggi quantomai doveroso) excursus su come il diritto della crisi e dell’insolvenza, se correttamente interpretato e applicato alla luce delle regole concorrenziali, possa contribuire a incentivare la crescita e la ripresa economica.

Che (anche) le regole concorsuali possano svolgere un ruolo importante in questo senso non dovrebbe essere ormai dubitabile. È infatti largamente condiviso, a livello internazionale (ed euro-unitario), che una moderna legislazione sull’insolvenza possa contribuire significativamente alla crescita e allo sviluppo economico di un Paese e dei suoi mercati, favorendo la selezione delle imprese migliori (attraverso la fuoriuscita dal mercato di quelle incapaci di competere) e assicurando l’allocazione ottimale delle risorse produttive che, celermente smobilizzate, possono essere reimpiegate in modo più proficuo in nuove e diverse iniziative imprenditoriali[59].

D’altra parte, ho già avuto modo di ricordare supra che una moderna ricostruzione del diritto dell’insolvenza deve spaziare al di là della sola definizione dei rapporti debitori all’interno dell’impresa in crisi (secondo la tradizionale visuale “microeconomica”), per abbracciare (in un senso anche “macroeconomico”) la trama complessiva delle relazioni che si dipanano intorno all’impresa in difficoltà[60].

Questa nuova prospettiva, che vede nella progressiva “apertura al mercato” delle discipline dell’insolvenza uno dei suoi passaggi più significativi e qualificanti, è del resto alla base di molte delle innovazioni apportate negli ultimi 15-20 anni alle nostre discipline concorsuali[61], è stata accolta nell’im­pianto concettuale che caratterizza il nuovo Codice[62] e diventa oggi ancor più evidente e nitida nella composizione negoziata del Decreto Pagni.

In questo più moderno approccio alle leggi sull’insolvenza i risultati delle procedure non sono misurati solo in termini di soddisfazione dei creditori, ma vengono intesi anche in termini di efficienza allocativa (che in prima approssimazione si realizza quando le risorse sono impiegate lì dove possono garantire il ritorno più proficuo, così da massimizzare la capacità complessiva di produzione di beni e servizi e da assicurare il funzionamento ottimale di un sistema economico)[63].

Una tale ricostruzione concettuale delle discipline concorsuali all’in­terno della teoria dell’impresa[64] è peraltro coerente con i più recenti approdi normativi e dottrinari e può anzi osservarsi come la situazione odierna metta sotto gli occhi di tutti l’imprescindibilità di un tale quadro logico[65]. A maggior ragione nei periodi di recessione economica, infatti, l’interesse della collettività non si esaurisce nella sistemazione dei rapporti di dare e avere all’interno della singola impresa in crisi o insolvente, ma richiede l’indi­viduazione di una risposta adeguata di tipo sistemico, in modo da temperare, per quanto possibile, le ricadute negative per il tessuto economico e sociale nel suo complesso.

In quest’ottica, la composizione negoziata introdotta dal Decreto Pagni rappresenta un ulteriore approdo di un percorso evolutivo già in atto, che conferma anche l’accresciuta consapevolezza di come il diritto della crisi costituisca anche un fattore determinante specie in un contesto di crisi diffusa, un volàno indispensabile per favorire (e accelerare) lo sviluppo e il rilancio di un’economia in affanno.

 

8-. Segue: buona fede, correttezza e solidarietà

Prima di concludere, vorrei riprendere il discorso che avevo iniziato a svolgere con riferimento alla possibile rinegoziazione dei contratti ex art. 10 Decreto, essendo questo un tema che merita di essere analizzato anche sotto altra angolatura.

Che tale attività di riconduzione ad equità delle prestazioni contrattuali in funzione della salvaguardia della continuità aziendale debba svolgersi sotto l’egida del principio di “buona fede” costituisce, a mio avviso, la prova del fatto che il Decreto rappresenti anche un’occasione, particolarmente importante in questi delicati frangenti storici, per il riconoscimento della solidarietà sociale quale valore costituzionale imprescindibile[66] e la riaffermazione della rilevanza di tale canone, a livello non solo interpretativo, ma anche applicativo (artt. 1175; 1366; 1375 c.c.).

A tale riguardo, sarebbe forse riduttivo limitarsi a ricordare come sia il Decreto che il Codice facciano un analogo riferimento alla buona fede e alla “correttezza” come asse portante dei “doveri delle parti”, su entrambi i fronti (cfr. art. 4 c. 4 Decreto e art. 4 c. 1 del Codice[67]). Mi sembra però che la previsione dell’art. 10 del Decreto contribuisca anche a chiarire la vis expansiva dei precetti generali enucleati in chiave statica e astratta dall’art. 4 (del Codice e del Decreto), attribuendo loro concretezza, dinamismo e vitalità.

In questo senso va ricordato che l’attitudine della “buona fede” quale strumento per riequilibrare il sinallagma contrattuale non è certo una novità introdotta dall’art. 10 del Decreto. Al contrario, una siffatta previsione sembra piuttosto rappresentare la conferma, a livello normativo, di un ragionamento interpretativo già svolto a più riprese dalla giurisprudenza. Più in particolare, essa sembra riecheggiare il pregevole sforzo ricostruttivo svolto (poco dopo il dilagare del contagio) dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, che ha poi trovato ampia eco applicativa anche nella giurisprudenza di merito.

E infatti, muovendo proprio dal paradigma della business rescue e della continuità dell’impresa, in una prima relazione la Corte notava che “nel contesto dei contratti commerciali, che sono ancillari all’esercizio dell’impresa e ne supportano la continuità”, “[l]’emergenza non si tampona demolendo il contratto. Più che la liberazione del debitore-imprenditore dall’obbligazione, cruciali appaiono l’attenuazione o il ridimensionamento di questa”. Ma de iure condito la parte fragile non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni contrattuali, né può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle concordate[68].

Un tale rilievo sembra aprire il passo verso la successiva affermazione, posta a chiusura di una seconda relazione della Corte, di poco successiva[69], in cui, pur partendo dal presupposto che “la tendenza espansiva del sindacato giudiziale sul regolamento contrattuale può dirsi […] in continua evoluzione”, si evidenziava l’esigenza “di qualche indice normativo più specifico, soprattutto, in tema di tutela invocabile dalla parte lesa”, al fine di “sedare i timori della dottrina e fornire al giudice criteri più certi cui conformare la sua attività di controllo”.

Le due relazioni partono da presupposti diversi: la prima si volge espressamente al “diritto dell’emergenza”, mentre la seconda ha una portata più ampia, che  travalica tale contesto; entrambe però sembrano originare da un medesimo precipitato logico, esito di un percorso interpretativo avviato, ma ancora da definire, anche sul piano squisitamente normativo.

Tutto ciò induce allora anche a chiedersi se le previsioni di cui all’art. 10 del Decreto, proprio in quanto costituiscono un corollario concettuale e applicativo del principio di buona fede e correttezza, non siano destinate, almeno in qualche forma, a permanere anche dopo la pandemia, quale  strumento funzionale a salvaguardare la continuità aziendale e ad aumentare le chances di successo del percorso di risanamento e ristrutturazione dell’impresa in crisi, a tutela del valore dell’impresa-organizzazione obiettivamente considerata.

In questo caso non abbiamo il conforto della Direttiva a guidarci: ma credo che i tempi siano maturi per un’innovazione coraggiosa ed equilibrata in questa direzione.

 

9-. Conclusioni preliminari

Non è possibile, né forse opportuno, dilungarsi oltre in questa sede. Confido comunque che le considerazioni che precedono siano utili a dimostrare come il Decreto, pur gemmando dal diritto “dell’emergenza”, rappresenti in realtà il primo caposaldo della tanto attesa opera di ripartenza e ricostruzione economica e sociale (e dunque, necessariamente, anche normativa).

A mio sommesso avviso, non si può ridurre la Composizione a uno strumento meramente transitorio, al pari dei tanti altri istituti ideati dal legislatore emergenziale in questi mesi convulsi al solo fine di ridare ossigeno al tessuto economico nazionale, come tali effimeri e destinati ad essere presto dimenticati.

Pur adottato nella cornice post pandemica, questo primo frutto del lavoro della Commissione Pagni sembra infatti collocarsi su un piano ben diverso, che sta ad anticipare le linee evolutive dell’impianto concettuale cui anche il Codice dovrà necessariamente conformarsi, in ossequio ai princìpi e alle previsioni della Direttiva.

Si può allora fondatamente pensare che il Decreto rappresenti una sorta di prova generale del “cambio di cultura” che si consoliderà quando i princìpi, le logiche e gli obiettivi della Direttiva, che vediamo applicati alla Composizione, saranno traslati compiutamente anche nel Codice.



[1] Per una disamina di dettaglio sull’articolato cfr. il corposo contributo di Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, in Diritto della Crisi, 25/8/2021. Fra i commenti di sistema si segnalano in particolare quelli di Ambrosini, La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, in Ristrutturazioni Aziendali, 23/8/2021; Id, La “miniriforma” del 2021: rinvio (parziale del CCI, composizione negoziata e concordato semplificato, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2021, p. 901 ss.; Id, Il (doppio) rinvio del CCI: quando si scrive “differimento” e si legge “ripensamento”, in Ristrutturazioni aziendali, 22/9/2021; Fabiani, La proposta della Commissione Pagni all’esame del Governo: valori, obiettivi, strumenti, in Diritto della Crisi, 2/8/2021; Farolfi, Le novità del D.L. 118/2021: considerazioni sparse “a prima lettura” in Diritto della Crisi, 6/9/2021; Jorio, Alcune riflessioni sulle misure urgenti: un forte vento di maestrale soffia sulla riforma!, in Diritto della Crisi, 1/10/2021 ; Leuzzi, Una rapida lettura dello schema di D.L. recante misure urgenti in materia di crisi d’impresa e risanamento aziendale, in Diritto della Crisi, 5/8/2021; Pacchi, Le misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale (ovvero: i cambi di cultura sono sempre difficili), in Ristrutturazioni Aziendali, 9/8/2021; Perrino, Disciplina italiana dell’allerta e Direttiva Insolvency: un’agenda per il legislatore, il Diritto della Crisi, 31/8/2021; Santangeli, Il D.L. 118/2021. Spunti per la conversione, in Diritto della Crisi, 21/9/2021. Questi Autori (chi più, chi meno e con diverse sfumature) hanno salutato con favore le misure varate dal Decreto; di segno contrario, invece, Galletti, è arrivato il venticello della controriforma? Così è, se vi pare, in Il Fallimentarista, 27/7/2021; Id, Breve storia di una controriforma “annunciata”, in Il Fallimentarista, 1/9/2021; e Lamanna, Nuove misure sulla crisi d’impresa del d.l. 118/2021: Penelope disfa il codice della crisi recitando il “de profundis” per il sistema dell’allerta, in Il Fallimentarista, 25/8/2021, che viceversa le considerano un “tradimento” delle ambizioni del Codice. Fra i contributi dedicati al primo approfondimento di profili specifici si segnalano Ciabattoni, Decreto legge 24 agosto 2021 n. 118: le condizioni di accesso alla composizione negoziata della crisi e il ruolo dell’organo di controllo, in Il Caso, 5/10/2021; Guidotti, La crisi d’impresa nell’era Draghi: la composizione negoziata e il concordato semplificato, in Ristrutturazioni aziendali, 8/9/2021; Mancini, Le “imprese sotto soglia” nel D.L. 118/2021: interazioni con il sovraindebitamento”, in Il Caso, 1/9/2021; Riva, Ruolo e funzioni dell’esperto “facilitatore”, in Ristrutturazioni Aziendali, 30/9/2021.

[2] Cfr. Pacchi, Le misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale (ovvero: i cambi di cultura sono sempre difficili), cit..

[3] Sulla ripresa economica registrata nel 2021 cfr., ad es., ISTAT, Le prospettive per l’economia italiana nel 2021-2022, 4/6/2021; International Monetary Fund, World Economic Outlook, Update July 2021; Commissione Europea, Summer 2021 Economic Forecast: Reopening fuels recovery, 7/7/2021.  

[4] Fra i tanti che hanno fatto riferimento a tale nozione, con varietà di sfumature v., per tutti, Abriani – Caselli – Celotto - Di Marzio – Masini – Tremonti, Il diritto e l'eccezione. Stress economico e rispetto delle norme in tempi di emergenza, Roma, 2020 (e ivi, in particolare, il contributo di Abriani, Il diritto delle imprese tra emergenza e rilancio nella sostenibilità); Cossu, Il diritto e l'incertezza. La legislazione d'impresa al tempo della pandemia, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2020, p. 1221 ss.; Fauceglia, La legislazione in tempo di pandemia e la metamorfosi del diritto della crisi, in Giurisprudenza Commerciale, 2021, p. 431 ss.; Pacchi, L’impatto del virus Corona-19 sul diritto della crisi, in Pacchi e Pisaneschi, Finanziamenti e diritto della crisi nell’emergenza, Torino 2020, p. 137 ss.; Stanghellini, La legislazione d’emergenza in materia di crisi d’impresa, in Rivista delle società, 2020, n. 2/3, p. 353 ss.

[5] Per un’analisi dell’impianto concettuale su cui si fonda la Direttiva m. 2019/1023 si rinvia, in particolare, a Stanghellini – Paulus – Mokal – Tirado, Best Practices in European Restructuring Contractualised Distress Resolution in the Shadow of the Law, Milano, 2018 e a Nigro, La proposta di direttiva comunitaria in materia di disciplina della crisi delle imprese, in Riv. dir. comm., 2017, II, p. 201 ss..

[6] Nella presente sede non v’è modo di soffermarsi “sulla modifica [della legge fallimentare] con l’anticipazione di alcune disposizioni [del] Codice ritenute utili ad affrontare la crisi economica in atto” (così la Relazione): e tuttavia anche tali misure, essendo volte ad anticipare l’applicazione di norme e istituti già previsti dal Codice, appaiono contribuire a tale cambio culturale.

[7] La prima citazione è riportata da Pacchi, L’impatto del virus Corona-19 sul diritto della crisi, cit., p. 151; la seconda invece è di Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, cit.

[8] Il tema era stato al centro delle riflessioni della più attenta dottrina fin dalle prime settimane successive al dilagare del contagio. V. per tutti Abriani - Palomba, Strumenti e procedure di allerta: una sfida culturale (con una postilla sul Codice della crisi dopo la pandemia da Coronavirus), in Diritto ed economia delle crisi aziendali, Rimini, 2020, pp. 33-51.

[9] La Relazione dichiara infatti che l’esigenza di tutela delle imprese non è attualmente perseguibile né attraverso lo strumentario del Codice della crisi e dell’insolvenza, data “la natura fortemente innovativa e la complessità dei meccanismi previsti dal Codice della crisi e dell’insolvenza” (che pur vanta “istituti per l’emersione precoce della crisi […] e strumenti di soluzione negoziata”), né attraverso la (a più riprese novellata) legge fallimentare, “pensata e strutturata in relazione ad una situazione economica e industriale del tutto diversa dall’attuale” e sostanzialmente priva di “strumenti che incentivano l’emersione anticipata della crisi”.

[10] Su questi argomenti, anche per non ripetere cose già dette, sia consentito il rinvio a Il (necessario) ripensamento delle procedure concorsuali dopo il “lockdown”: dal concetto di “insolvenza” a quello di “risanabilità”?, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2020, p. 965 ss.. Questi temi stati autorevolmente ripresi, più di recente, ad es. da Fabiani – Pagni – Ranalli – Stanghellini, Come prepararsi all’urto delle crisi aziendali, in La Voce, 15/2/2021.

[11] In questi termini v. anche il secondo Considerato del decreto della Ministra delle Giustizia del 22 aprile 2021, istitutiva della “Commissione Pagni”.

[12] Così, ancora, il decreto della Ministra Cartabia del 22 aprile 2021.

[13] Se ora ci troviamo all’inizio di un ciclo di ripresa, i primi provvedimenti dovevano fronteggiare una crisi appena deflagrata e dai connotati e risvolti del tutto imprevedibili.

[14] Oggi, favorire l’ordinata ripresa economica; ieri, impedire la “desertificazione del tessuto industriale” (le parole sono di Ambrosini, La “falsa partenza” del Codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, in Il Caso, 21/04/2020, p. 8).

[15] Se il Decreto può muoversi oggi in un orizzonte di medio-lungo periodo, i primi interventi, dettati dall’emergenza, erano intesi ad assicurare il ripristino del cash flow delle imprese nell’arco di pochi giorni.

[16] Eloquente è al riguardo il titolo dello scritto di Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, cit., che non a caso associa il Decreto all’idea di una lesson learned tratta dalla pandemia.

[17] La Commissione Pagni si compone notoriamente di accademici, magistrati e alti dirigenti  ministeriali e della Banca d’Italia; non può sfuggire peraltro come alcuni componenti siano stati anche membri della Commissione Rordorf o del gruppo di esperti cui sono dovuti i lavori preparatori della Direttiva.

[18] Ero anch’io tra quanti lo avevano suggerito (v. ad es. Il “nuovo” azionariato di Stato. Lineamenti delle ricapitalizzazioni emergenziali, Torino, 2020, in particolare p. 19).

[19]Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo, che richiede tempo e competenza” (così il discorso di insediamento del Presidente Draghi).

[20] Così la Relazione.

[21] In argomento, anche per una ricostruzione delle posizioni espresse in dottrina, v. Pacchi - Ambrosini (a cura di), Crisi d’impresa ed emergenza sanitaria, Bologna 2020, nonché il volume collettaneo Dalla crisi all’emergenza: strumenti e proposte anti-Covid al servizio della continuità d’impresa, Mantova, 2020 (con Introduzione a cura di Fabiani). Sia consentito anche un rinvio al mio Il rischio di “insolvenza diffusa”. Spunti di riflessione per la “fase 2” (e una proposta operativa), in Il Caso, 4/5/2020 

[22] La Relazione è chiara in tal senso, specificando che “Il Capo I del presente schema interviene nella attuale situazione di generalizzata crisi economica causata dalla pandemia da SARS-CoV-2 per fornire alle imprese in difficoltà nuovi strumenti per prevenire l’insorgenza di situazioni di crisi o per affrontare e risolvere tutte quelle situazioni di squilibrio economico-patrimoniale che, pur rivelando l’esistenza di una crisi o di uno stato di insolvenza, appaiono reversibili”.

[23] Su tale concetto vedi in particolare la riflessione di Brancadoro, Società di capitali e crisi sistemiche, Torino, 2019.

[24] Questa è, del resto, la ratio del diverso trattamento riservato al trattamento della crisi e all’insolvenza degli intermediari bancari e finanziari (per maggiori dettagli sul punto sia consentito il rinvio a Interesse pubblico, concorrenza e concorsualità nella disciplina delle crisi bancarie, in Riv. dir. comm., 2021, II, p. 119 ss.); sulla necessità di adottare una disciplina normativa, anche concorsuale, capace di contrastare efficacemente le crisi “sistemiche” v. anche Brancadoro, Società di capitali e crisi sistemiche, cit., passim (e in partic. p. 85 ss.).

[25] Così Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, cit., p. 10.

[26] Su tutti cfr. Ambrosini, Il (doppio) rinvio del CCI: quando si scrive “differimento” e si legge “ripensamento”, cit.; Pacchi, Le misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale (ovvero: i cambi di cultura sono sempre difficili), cit.; Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, cit..

[27] Come detto, la definizione del concetto di “probabilità di insolvenza” è rimessa al legislatore nazionale. Sul rapporto fra Decreto, allerta codicistica e previsioni della Direttiva v. in particolare Perrino, Disciplina italiana dell’allerta e Direttiva Insolvency: un’agenda per il legislatore, cit..

[28] Evidenziate ad es. da Fauceglia, La legislazione in tempo di pandemia e la metamorfosi del diritto della crisi, cit., anche con riferimento alle modifiche apportate dal D.Lgs. 147/2020 alla definizione di crisi di cui all’art. 2 c. 1 lett. a) del Codice.

[29] Così, autorevolmente, Stanghellini, La proposta di Direttiva UE in materia di insolvenza, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2017, p. 875: “lo scopo della direttiva è, evidentemente, quello di aumentare l’autoconsapevolezza del debitore, facendo leva sugli strumenti c.d. di allerta interna e di assistenza al debitore. Essa non ha invece lo scopo di forzare la mano al debitore rivelando la sua crisi anche a terzi, come è invece l’impostazione del DDL AS 2681”. In argomento cfr. più recentemente Panzani, Il preventive restructuring framework nella Direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze, in Il Caso, 14/10/2019.

[30] Il termine è usato qui in senso volutamente atecnico; per la tesi che la composizione negoziata non sia, infatti, in senso proprio, una procedura concorsuale v. Ambrosini, La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, cit. .

[31] Oltre ai lavori citati nelle note precedenti, sia permesso il rinvio sul punto a Disciplina delle crisi e diritto della concorrenza, in Riv. dir. comm., 2019, I, p. 299 ss..

[32] In argomento si vedano, tra i tanti, Pellegrini, Piani di risanamento e misure di early intervention, in La gestione delle crisi bancarie, a cura di Troiano e Uda, Milano, 2018, p. 203 ss. e, più di recente, Bonfatti, La disciplina delle situazioni di “crisi” degli intermediari finanziari, Milano, 2021.

[33] Su questo tema, su cui v. anche infra nel testo, cfr. ora, per tutti, Libertini, Crisi d’impresa e diritto della concorrenza, in Mercato Concorrenza Regole, 1/2201, p. 9 ss. (cui adde, da ultimo, il mio Insolvency, Competition, and the Theory of the Firm, in European Business Law Review 32, 4/2021, p. 743 ss.).

[34] Sul punto, per più ampi tratti e per la giustificazione in termini giuridici del ragionamento (che qui per brevità si omette) si rinvia a Le procedure concorsuali dopo il “lockdown”: dal concetto di “insolvenza” a quello di “risanabilità”, in Crisi d’impresa ed emergenza sanitaria, a cura di Ambrosini e Pacchi, Bologna, 2020, p. 595 ss., e, per altro verso (vale a dire, nell’ottica delle ricapitalizzazioni pubbliche emergenziali ex art. 27 Decreto Rilancio), in Il “nuovo” azionariato di Stato. Lineamenti delle ricapitalizzazioni emergenziali, cit..

[35] Mi pare che la soluzione adottata nel Decreto riesce anche a superare le perplessità “procedimentali” espresse da Fauceglia, La legislazione in tempo di pandemia e la metamorfosi del diritto della crisi, cit., al quale (appunto, prima del Decreto) non sembrava possibile “pervenire ad un giudizio di “risanabilità” dell'impresa, che possa svilupparsi esclusivamente nell'ottica del procedimento giudiziario connesso all'accertamento dello stato di insolvenza, in assenza di una domanda dell'impresa finalizzata all'accesso delle procedure negoziali di risoluzione della crisi”.

[36] Cfr. ad es. Considerando 87, ai sensi del quale “gli Stati membri dovrebbero inoltre provvedere affinché i professionisti nel campo della ristrutturazione, dell'insolvenza e dell'esdebitazione, nominati dall'autorità giudiziaria o amministrativa («professionisti»), siano adeguatamente formati; siano nominati in modo trasparente tenendo debitamente conto della necessità di garantire l'efficacia delle procedure; siano sottoposti a vigilanza nell'esercizio dei loro compiti; e svolgano i loro compiti con integrità. È importate che i professionisti si conformino agli standard per tali loro funzioni, come ad esempio provvedere alla assicurazione per responsabilità professionale. I professionisti potrebbero acquisire un livello adeguato di formazione, qualifiche e competenze anche durante l'esercizio della loro professione. Gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a fornire la necessaria formazione, che potrebbe invece essere impartita, ad esempio, da associazioni professionali o altri organismi. I professionisti delle procedure di insolvenza ai sensi del regolamento (UE) 2015/848 dovrebbero essere inclusi nell'ambito di applicazione della presente direttiva.

[37] Correttamente rilevata da Ambrosini, La “miniriforma” del 2021: rinvio (parziale) del CCI, composizione negoziata e concordato semplificato, cit., p. 907.

[38] Per ulteriori riferimenti sul punto, in particolare nell’ordinamento nordamericano e in quello europeo, mi permetto di rinviare a Insolvenza e mercato. Itinerari per la modernizzazione delle discipline sulla crisi d’impresa, Napoli, 2018 (ma vedi anche infra, testo e note del par. 6).

[39] Si assicurerebbe così anche una maggior disponibilità di esperti a curare le procedure di composizione: sarebbe infatti paradossale provocare un blocco, anche solo temporaneo, causato dalla saturazione delle disponibilità degli iscritti all’elenco.

[40] Adottate con decreto dirigenziale del 28/9/2021.

[41] A tal riguardo si veda, a maggior ragione, la “dichiarazione avente valore di autocertificazione” di cui all’art. 7 c. 2 lett. e), attestante, “sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità, che l’impresa può essere risanata”. Non si vuol dire che l’autodiagnosi fornita dall’imprenditore non sia necessaria (essendo questa l’unica strada, quantomeno in sede di istanza, per assolvere all’esigenza di avviare celermente la composizione);quel che si intende evidenziare è che l’autodiagnosi non è affatto sufficiente, in quanto le prospettive di risanabilità devono essere vagliate sulla base di tutte le informazioni che, nel caso concreto, è possibile reperire aliunde (in primis i dati in possesso dei creditori).

[42] Ho sviluppato questi concetti in particolare in Insolvency, Competition, Economic Growth (and Recovery), in Federalismi, n. 16/2020, p. 249 ss. (cui per brevità si fa rinvio); sul nesso tra selezione delle imprese meritevoli di salvataggio, diritto della concorrenza e tutela dell’efficienza dei mercati v. anche, autorevolmente, Libertini, Crisi d’impresa e diritto della concorrenza, cit., p. 9 ss. (nonché testo e note del par. 6).

[43] Cfr. Fabiani, Imprese in crisi e complessità degli interessi tutelabili, in Diritto della Crisi, 27/8/2021; v. pure G. Scognamiglio, Le trasformazioni del diritto fallimentare, in L’impresa italiana. Il contesto, a cura di Amatori e D’Alberti, Roma, 2020, p. 565 ss. (in partic. 572-573); Di Marzio, Fallimento. Storia di un’idea, Milano, 2018 (v. in partic. p. 32). Sull’oggettivizzazione del diritto commerciale in senso più generale cfr. invece, per tutti, Libertini, Principio di adeguatezza organizzativa e disciplina dell’organizzazione delle società a controllo pubblico, in Giurisprudenza commerciale, 2021, I, p. 5 ss..

[44] Cfr. Pacchi, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2019/1023, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, 2019, p. 1259 ss.: “La Direttiva […] pone sul tappeto i nodi di una “moderna” concezione della crisi d’impresa che sta spostando l’asse di costruzione della disciplina dal rapporto debitore-creditori a quello impresa in crisi-parti interessate, con ciò da una parte ampliando l’orizzonte entro cui collocare la vicenda “crisi” e dall’altra ricomponendo la scala di priorità.

[45] Per più ampi riferimenti (e per brevità) sia consentito il rinvio al mio Insolvenza e mercato. Itinerari per la modernizzazione delle discipline sulla crisi d’impresa, cit., p. 45 ss.. In questa direzione è agevole richiamare anche la Direttiva, ad es., il Considerando 16, ove si prevede che “La rimozione degli ostacoli alla ristrutturazione preventiva efficace dei debitori sani in difficoltà finanziarie contribuisce a ridurre al minimo le perdite di posti di lavoro e le perdite per i creditori nella catena di approvvigionamento, preserva il know-how e le competenze; di conseguenza giova all'economia in generale”.

[46] Cfr. ad es., oltre a quanto già richiamato supra nel testo, il Considerando 10: “Tutte le operazioni di ristrutturazione […] dovrebbero basarsi su un dialogo con i portatori di interessi. tale dialogo dovrebbe riguardare la scelta delle misure previste in relazione agli obiettivi dell'operazione di ristrutturazione, come pure sulle opzioni alternative, e dovrebbero garantire l'adeguata partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori come previsto dal diritto dell'Unione e nazionale”. Per un ulteriore spunto de iure condendo sull’eventuale partecipazione dei lavoratori alla crisi d’impresa, secondo le indicazioni della Direttiva, cfr. Ambrosini, Il (doppio) rinvio del CCI: quando si scrive “differimento” e si legge “ripensamento”, cit..

[47] Cfr. D’Attorre, La responsabilità sociale dell’impresa insolvente, in Rivista di diritto civile, 1/2021, p. 60 ss.; Id, Sostenibilità e responsabilità sociale nella crisi d’impresa, in Diritto della Crisi, 13/4/2021. L’Autore bene mette in rilievo come la situazione di crisi dell’impresa, quale fase del suo ciclo vitale, non dovrebbe alterare “il quadro di valori” cui la stessa deve confermarsi quando si trova in bonis; cfr. anche Pacchi, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2019/1023, cit., secondo la quale “la Direttiva, sensibile alla dimensione sociale dell’impresa, pur non abbandonando l’obiettivo che tradizionalmente ha plasmato le nostre leggi concorsuali, - la tutela dei creditori – non lo pone come condizione assoluta per la ristrutturazione”. Più recentemente cfr. la riflessione sul punto di Fabiani, Imprese in crisi e complessità degli interessi tutelabili, cit..

[48]Si deve tentare di risanare solo ciò che sia effettivamente recuperabile, rinunciando a tentativi velleitari che alla fine danneggiano i creditori e non portano alcun beneficio sotto il profilo dell’interesse generale (così Disciplina delle crisi e diritto della concorrenza, cit.,; ma vedi già, assai chiaramente, anche Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, in partic.p. 49 e, prim’ancora, Libonati, La crisi dell’impresa, in AA.VV., L’impresa, Milano, 1985, in partic. pp. 221-222).  

[49] Per un’analisi relativa alle implicazioni economiche negative delle cd. barriere all’uscita (delle imprese dai mercati) si veda ad es. il documento OCSE, Barriers to Exit – Background Note, del 3-4/12/2019 (per l’Italia, si veda il corrispondente documento Barriers to Exit – Note by Italy, del 4/12/2019).

[50] In tal senso si può richiamare anche quanto dichiarato nel Considerando 3: “Nel contempo, le imprese non sane che non hanno prospettive di sopravvivenza dovrebbero essere liquidate il più presto possibile. Se un debitore che versa in difficoltà finanziarie non è sano o non può tornare a esserlo in tempi rapidi, gli sforzi di ristrutturazione potrebbero comportare un'accelerazione e un accumulo delle perdite a danno dei creditori, dei lavoratori e di altri portatori di interessi, come anche dell'economia nel suo complesso”.

[51] Per una disamina del concetto e del suo progressivo riconoscimento a livello internazione v. ad es. Flessner, La conservazione delle imprese attraverso il diritto fallimentare. Uno sguardo di diritto comparato, in Il diritto fallimentare, 2009, I, p. 1 ss.; Bridge, Insolvency – A second chance? Why Modern Insolvency Laws Seek to Promote Business Rescue, in Law in Transition, 2013, p. 28 ss.; in senso tuttavia critico cfr.ad es.Verdoes – Verweij, The (Implicit) Dogmas of Business Rescue Culture, in International Insolvency Review, 2018, p. 398 ss., i quali rimarcano le rilevanti incognite che il salvataggio di un’impresa in crisi inevitabilmente presuppone, ricordando altresì che alla base stessa del capitalismo c’è l’idea di un processo che, nella competizione, determina vincitori e vinti, sicché solo alcune imprese meritano di sopravvivere, e non certo indefinitamente; su questa linea v. anche Pezzoli – Tonazzi, La sfida della normalità. Concorrenza e intervento pubblico nel post-Covid. È possibile andare oltre l’intreccio tra monopolio e assistenzialismo?, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2/2020, p. 387 ss., i quali osservano che consentire alle imprese zombie di permanere indefinitamente sul mercato ha effetti nocivi per un sistema economico, riducendo la propensione all’investimento e all’innovazione anche per le imprese sane.

[52] Per un’efficace (e condivisibile) sintesi v. ad es. G. Scognamiglio, Le trasformazioni del diritto fallimentare, in L’impresa italiana. Il contesto, cit., p. 565 ss..

[53] Il punto è più ampiamente trattato in Disciplina delle crisi e diritto della concorrenza, cit., p. 299 ss., cui per brevità si rinvia; in linea mi pare, anche Ambrosini, La “falsa partenza” del Codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, cit., p. 8. Sulle accennate contraddizioni rinvenibili nel Codice cfr. NigroVattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, V ed., Bologna, 2021, p. 57 ss.; Nigro, I principi generali della nuova riforma “organica” delle procedure concorsuali, in Diritto della banca e del mercato finanziario, 1/2020, p. 11 ss.; v. anche D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2019, p. 1084 ss..

[54] Cfr. Considerando 3: “Nei quadri di ristrutturazione i diritti di tutte le parti coinvolte, compresi i lavoratori, dovrebbero essere tutelati in modo equilibrato”.

[55] Così, in modo molto chiaro, Ambrosini, Il (doppio) rinvio del CCI: quando si scrive “differimento” e si legge “ripensamento”, cit.. E sul punto si veda anche Jorio, Alcune riflessioni sulle misure urgenti: un forte vento di maestrale soffia sulla riforma!, in Diritto della Crisi, 1/10/2021.

[56] Tornano in mente, sul punto, come un monito che ha precorso i tempi, le parole del discorso di insediamento del Presidente Draghi: “Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche”.

[57] Per l’inquadramento del diritto della concorrenza tra i capisaldi del diritto dell’Unione Europea cfr. ad es. Libertini, Diritto della concorrenza dell’Unione Europea, Milano, 2014, in partic. pag. 57 ss.; G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2012, in partic. pp. 161 ss e 619 ss..

[58] Per una più compiuta illustrazione e argomentazione di tale affermazione sia consentito il rinvio a Insolvenza e mercato. Itinerari per la modernizzazione delle discipline sulla crisi d’impresa, cit e Insolvency, Competition, and the Theory of the Firm, cit., p. 743 ss.; ma v. anche Libertini, Crisi d’impresa e diritto della concorrenza, cit..

[59] In questa prospettiva il tema è stato più diffusamente affrontato in particolare in Insolvency, Competition, Economic Growth (and Recovery), cit., ove più ampi riferimenti, anche alle fonti internazionali; in senso conforme v. ora, autorevolmente, anche Libertini, Crisi d’impresa e diritto della concorrenza, cit..

[60] Cfr. ad es., autorevolmente, Portale, Dalla “pietra del vituperio” al “bail-in,in Riv. dir. comm.,2017, I, p. 21 ss. o Pulgar Ezquerra, Holdout” degli azionisti, ristrutturazione di impresa e dovere di fedeltà del socio,in Dir. fall.,2018, 1, p. 13 ss.; v. anche Di Marzio, Fallimento. Storia di un’idea, cit., passim e Libertini, Crisi d’impresa e diritto della concorrenza, cit. L’evidenza del fenomeno è massima nella disciplina della crisi delle imprese grandi e grandissime, così come nella regolazione delle crisi bancarie.

[61] V. ancora G. Scognamiglio, Le trasformazioni del diritto fallimentare, in L’impresa italiana. Il contesto, cit., p. 565 ss..

[62] Si rinvia sul punto a quanto più ampiamente argomentato in Insolvenza e mercato. Itinerari per la modernizzazione delle discipline sulla crisi d’impresa,cit.

[63] È evidente in questo senso che l’introduzione di strumenti “concorrenziali e competitivi” all’in­terno delle procedure di gestione della crisi d’impresa risponde non solo all’interesse dei creditori a massimizzare i ricavi conseguibili dalla liquidazione dell’attivo aziendale, ma anche a un interesse, di carattere più generale, volto a realizzare, proprio in ragione e in occasione della crisi, la più ampia contendibilità delle imprese soggette a procedura concorsuale e dei loro asset produttivi per garantirne, in tal modo, (la possibilità di) un’allocazione alternativa (e più) efficiente. Sul punto v. ancora il mio Insolvenza e mercato. Itinerari per la modernizzazione delle discipline sulla crisi d’impresa,cit., passim e, soprattutto, Libertini, Crisi d’impresa e diritto della concorrenza, cit.. Di un “mercato del controllo delle imprese in stato di difficoltà o addirittura di dissesto” parla anche Cabras, L’impresa al tempo della crisi, davanti alla Legge, Padova, 2018 (si veda in particolare il cap. VIII).

[64] Per brevità si rinvia sul punto a quanto più diffusamente argomentato in Insolvency, Competition, and the Theory of the Firm, cit., p. 743 ss..

[65] Il punto è stato colto con la consueta lucidità da Fabiani, Introduzione, cit., nonché Prove di riflessioni sistematiche per le crisi da emergenza COVID-19, in Fall., 2020, p. 589 ss: “pur nella emergenza, non si può fare a meno di avere una visione di sistema e, soprattutto, una visione prospettica e periferica: bisogna riattivare […] i presìdi che consentano da un lato di offrire ossigeno alle imprese, ma dall’altro lato riconvertano le imprese non salvabili ad un mercato delle crisi che non immobilizzi ricchezze”. Si vedano anche Galletti, Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra,in www.ilFallimentarista.it; e Libertini, Crisi d’impresa e diritto della concorrenza, cit.

[66] Il tema è stato colto fin da subito ad es. da Caravita, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in Federalismi, 6/2020, p. iv ss..

[67] Il Decreto richiama anche gli altri princìpi che il Codice annovera, a mo’ di corollario (“in particolare”), allo stesso articolo 4, quali la trasparenza (art. 4 c. 2 lett. a) Codice; art. 4 c. 5 del Decreto), la tempestività (art. 4 c. 2 lett. b) Codice; art. 4 c. 7 Decreto), la lealtà (art. 4 c. 3 Codice; art. 4 c. 7 Decreto) e la riservatezza (art. 4 c. 3 Codice; art. 4 c. 2 e 7 Decreto).

[68] Cfr. Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale (Rel. n. 56, 8/7/2020). La relazione si conclude suggerendo un’applicazione estensiva dell’art. 2932 c.c. Il Redattore della Nota è Leuzzi, autore anche di Sopravvenienze perturbative e rinegoziazione dei contratti d’impresa, in Diritto della Crisi, 4/6/2021.

[69] Cfr. Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, “Buona fede come fonte di integrazione dello statuto negoziale: Il ruolo del giudice nel governo del contratto” (Rel. n. 116, 10/09/2021).