, 21 ottobre 2021, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Abstract: La Corte di Cassazione declina, con riferimento al caso giudiziario Alitalia, le caratteristiche della responsabilità derivante da abuso di direzione e coordinamento di società quotate a partecipazione pubblica dello Stato. L’autore ricostruisce la fenomenologia complessiva con riferimento ai temi della giurisizione, della legittimazione passiva dello Stato, dei criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale, della natura della responsabilità e degli effetti ordinamentali del controllo, alla luce del T.u.s.p., sopravvenuto nel 2016 alla vicenda giudiziaria esaminata.
Sommario: 1. La vicenda processuale e le questioni di giurisdizione; - 2. L’inammissibilità dell’azione ex art. 2497 c.c. nei confronti dello Stato; - 3. La responsabilità da eterodirezione tra diritto comune e diritto speciale; - 4. Gli effetti del controllo sulla società partecipata pubblica; - 5. L’abuso della personalità giuridica della partecipata; - 6. La responsabilità dell’ente-holder nella giurisprudenza di merito; - 7. L’applicazione del sistema di cui agli artt. 2497 ss. c.c. alle società pubbliche; - 8. La concorrenza dell’azione contabile da abuso di dominio; - 9. La responsabilità da attività di eterodirezione in caso di crisi della partecipata; - 10. Interesse sociale ed interesse pubblico; - 11. La violazione dei criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nel caso Alitalia. 1. La vicenda processuale e le questioni di giurisdizione
1. La vicenda processuale e le questioni di giurisdizione
Il Tribunale di Lecce con sentenza del 7 maggio 2015, n. 2391, aveva condannato il Ministero della Economia e Finanze (MEF) a risarcire il danno subito da alcuni soci di “Alitalia- Linee Aeree s.p.a.” per la perdita di valore dei titoli azionari dagli stessi detenuti, in conseguenza dell’illecita condotta tenuta dal MEF che, in qualità di socio di maggioranza, aveva leso – secondo i giudici – l’affidamento incolpevole degli investitori, diffondendo assicurazioni, rivelatesi poi infondate, in ordine al risanamento aziendale di una impresa che era da ritenere ormai irreversibilmente decotta, nonché per avere indotto gli stessi socirisparmiatori a conservare le azioni in loro possesso e ad acquistare nuovi titoli della società, garantendo la continuità industriale, nonostante mancasse un fattibile progetto di salvataggio della azienda, assicurazioni tutte successivamente smentite dalla decisione assunta da Borsa italiana, in data 5 giugno 2008, di sospendere e poi di non riammettere definitivamente i titoli della società alla quotazione.
La Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 15 ottobre 2018 n. 1018, una volta rigettata la eccezione di giurisdizione proposta dal MEF e delimitato il materiale probatorio documentale utilizzabile a quello solo ritualmente prodotto in primo grado, riteneva al contrario insussistente la prova della condotta illecita del MEF, denunciata dai danneggiati, non trovando riscontri[1] dell’attività informativa decettiva asseritamente svolta dal MEF per ingenerare negli investitori indebite assicurazioni sul risanamento della società. I giudici escludevano, altresì, che fosse stata fornita la dimostrazione di una incidenza causale dell’attività informativa svolta dal MEF, in ordine sia alla induzione all’acquisto di nuovi titoli da parte degli investitori[2], sia rispetto alla scelta dei soci-risparmiatori di non dismettere gli investimenti già effettuati. La Corte territoriale , inoltre, riteneva di escludere, oltre alla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., anche la responsabilità per danni derivata dalla attività di “direzione e coordinamento” svolta, secondo la tesi dei pretesi danneggiati, dal MEF in qualità di azionista di maggioranza, rilevando che ogni indagine al riguardo rimaneva preclusa in considerazione della norma di legge di interpretazione autentica - alla quale doveva riconoscersi efficacia retroattiva che limitava espressamente l’applicazione dell’art. 2497, comma 1, c.c., ai soli casi in cui l’attività di direzione della controllata fosse riferibile a società od “altri enti”, comunque diversi dallo Stato, che agissero nell’ambito della propria attività imprenditoriale o per finalità di natura economica o finanziaria[3].
Con sentenza n. 15276 del 1 giugno 2021 si pronunciava, infine, la Suprema Corte di Cassazione che, pur dichiarando inammissibile il gravame, faceva una serie di considerazioni che meritano di essere analizzate, a cominciare dalla giurisdizione, riconosciuta nella fattispecie per ragioni meramente processuali[4]. Invero, come noto, esiste un rilevante precedente delle Sezioni Unite, le quali hanno affermato che persino nelle società in house sussiste il concorso in tema di responsabilità fra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, in quanto laddove sia prospettato anche un danno erariale, al di là di una semplice interferenza fra i due giudizi, deve ritenersi ammissibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio[5], non sussistendo la violazione del principio del ne bis in idem, per la tendenziale diversità di oggetto e di funzione fra i due giudizi. Ed anzi anche rispetto all’azione ex art. 2497 c.c., sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, poiché, la subordinazione gerarchica degli amministratori della società in house non è inconciliabile con l’alterità della società controllata, e peraltro anche in tale ipotesi, la responsabilità è sancita, oltre che nei confronti dei soci, anche dei creditori sociali “per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società”. Il pronunciamento sul punto reso dalle Sezioni Unite peraltro rimaneva definitivamente cristallizzato nella sentenza del Tribunale di merito in quanto “la statuizione pronunciata sul ricorso proposto ai sensi dell’art. 41 c.p.c. per il regolamento preventivo di giurisdizione costituisce giudicato con efficacia vincolante nel processo nel corso del quale tale statuizione sia stata domandata” [6].
2. L’inammissibilità dell’azione ex art. 2497 c.c. nei confronti dello Stato
I ricorrenti inoltre avevano impugnato la statuizione della sentenza di appello nella parte in cui aveva ritenuto inapplicabile alla Amministrazione dello Stato, azionista di maggioranza, la norma di cui all’art. 2497 c.c., in virtù della citata norma di interpretazione autentica (che ha espressamente escluso lo “Stato-azionista” dalla nozione di “ente”), che, se applicata retroattivamente, e dunque con incidenza sui diritti al risarcimento danni già insorti, sarebbe stata costituzionalmente illegittima per violazione dei principi dettati in materia di tutela del risparmio dall’art. 47 Cost., e dei principi generali in materia di risarcimento del danno[7].
La Cassazione non ha affrontato la tematica, bypassandola con una pronuncia che rileva la omissione ad opera del ricorrente della puntuale indicazione delle condotte ascrivibili alla “attività di direzione e coordinamento” di cui all’art. 2497 c.c. e limitandosi a rilevare che “alla stregua delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con la ordinanza in data 10.4.2014 n. 92, secondo cui, fatto salvo il limite previsto dall’art. 25, comma 2, Cost., non è dato ravvisare ostacoli alla retroattività delle norme di legge interpretative, se dettata, come nel caso di specie, da esigenze imposte da motivi di interesse generale”.
In verità, al netto di eventuali questioni di costituzionalità, il legislatore ha sancito chiaramente che «per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria». Quindi l’azione è esperibile nei confronti dell’ente pubblico locale che controlli una società di diritto privato, per «finalità di natura economica o finanziaria», imponendole una condotta contraria ai principi di corretta gestione societaria. La giurisprudenza di merito [8] ha correttamente evidenziato che la norma ha superato ogni contrasto interpretativo in quanto la genericità dell’espressione «finalità di natura economica o finanziaria» è tale da ricomprendere gli obiettivi che l’ente pubblico territoriale persegue attraverso la costituzione delle c.d. società in house o, comunque, delle società cui partecipa.[9] La norma, pur se volesse essere letta nel senso che l’«interesse imprenditoriale», quale criterio per individuare i soggetti attivi dell’attività di dominio, è riscontrabile in capo agli enti pubblici che esercitano, per il tramite di una o piu` società, l’attività di produzione di beni o servizi secondo un «criterio di obiettiva economicità», lascerebbe nell’area della responsabilità la maggior parte degli enti. Difatti anche così inteso, l’interesse imprenditoriale si riscontra (oltre che negli enti pubblici economici) anche negli enti pubblici locali, le cui attività definibili «economiche» sono dirette a realizzare pubbliche finalità[10]. Un simile interesse non è invece ravvisabile nei confronti dello Stato, in quanto portatore di un interesse «politico» attinente al governo dell’economia, nonchè degli altri enti pubblici che agiscono secondo criteri di pura erogazione (c.d. enti pubblici di protezione sociale)[11].
I giudici di legittimità hanno affermato che è ben vero che la sentenza di appello aveva risolto la controversia applicando la norma di legge interpretativa che ha escluso le Amministrazioni statali dalla disciplina dettata dalla indicata norma del codice civile, ma, tenuto conto della prospettazione della censura interamente incentrata sull’affermazione della responsabilità per abusiva etero-direzione imputata al Ministero, ha ritenuto che non possa prescindersi dalla identificazione dei fatti che ne costituiscono il presupposto: “ossia dalla puntuale definizione delle condotte illecite che vengono imputate al Ministero e dalla riconduzione delle stesse allo schema della responsabilità definito dall'art. 2497 c.c., essendo condizionato al predetto accertamento il successivo esame della rilevanza della questione di legittimità costituzionale della norma di legge interpretativa applicata dalla Corte d’appello”.
La Cassazione dunque affronta il tema principale che tuttavia esige qualche premessa di merito visto che il testo unico (Tusp) e l’ampia giurisprudenza precedente e successiva allo stesso non fanno adeguata chiarezza sulla vera questione di fondo ovvero quella della disciplina dell’abuso dell’attività di direzione e coordinamento delle società partecipate da parte del socio-ente pubblico, prevista dalle regole di diritto comune societario[12]. Infatti, se si escludono i casi di società c.d. legali (istituite, trasformate o comunque disciplinate da apposita legge speciale)[13], nella fenomenologia in esame ci troviamo sempre di fronte a società di diritto comune[14], in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o i soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio e quella privatistica che regola il funzionamento della società convivono. In ogni caso, l’interesse che fa capo al socio pubblico si configura come di rilievo esclusivamente extra sociale. Il rapporto tra società ed ente è in astratto di assoluta autonomia non essendo consentito al secondo di incidere unilateralmente sull’attività della società mediante poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario.
3. La responsabilità da eterodirezione tra diritto comune e diritto speciale
La Suprema Corte, come vedremo di seguito, affronta correttamente il tema sul piano del diritto comune visto che il codice civile dedica poche norme alle partecipate pubbliche e nessuna di esse è in grado di determinare effetti enucleativi di un «tipo» a sè stante, dotato di una natura giuridica peculiare[15]. La disciplina speciale dettata dal codice civile per queste società è stata progressivamente ridotta dando spazio appunto al diritto comune[16] ed alla giurisdizione ordinaria per quanto riguarda organizzazione, funzionamento e governance. Anche la facoltà attribuita all’ente pubblico - eventualmente sostitutiva della competenza dell’assemblea ordinaria - per la nomina di componenti degli organi, è una estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato[17].
La Cassazione infatti è già da anni pervenuta ad una serie di conclusioni sistematiche assolutamente rilevanti[18]. Innanzitutto, ha affermato che una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale[19]. In secondo luogo, nel richiamare l’art. 4 della legge n. 70 del 1975, secondo cui nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge,ha statuito che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno desumersi da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Eventuali norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica. L’eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile. Insomma ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto. Una volta che il legislatore ha permesso di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, da ciò consegue l’assunzione dei rischi connessi, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza[20].
Dunque, il soggetto dell’ordinamento rimane una società di diritto comune e la disciplina integrativa speciale dipende dall’attività svolta, qualificabile come di pubblico interesse, per la quale il discorso è completamente diverso da quello fatto per il soggetto giuridico. Ad esempio, la normativa comunitaria e nazionale in tema di appalti pubblici comprende tra gli «organismi di diritto pubblico», assoggettati alle norme che impongono il rispetto dell’evidenza pubblica e delle procedure concorrenziali comunitarie, non solo i soggetti pubblici, ma anche quelli privati, sottoposti ad un controllo pubblico[21].
E’ ben noto tuttavia che negli ultimi anni l’ampio dibattito sulle società a partecipazione pubblica ha riguardato soprattutto quelle affidatarie dei servizi pubblici in house providing[22], cui è infatti dedicato nel testo unico un corpus normativo ad hoc [23].
4. Gli effetti del controllo sulla società partecipata pubblica
Anche
se nel caso in esame ci troviamo di fronte ad una società quotata - cui non si
applica per gran parte la normativa del Tusp[24] - è necessario un breve riferimento
al modello gestorio in house per le
relative implicazioni sul tema dell’eterodirezione e che ha trovato la propria
origine normativa in una «rivisitazione strumentale» della giurisprudenza
comunitaria che, nella famosa sentenza Teckal
della Corte di giustizia UE, aveva escluso le procedure di gara ad evidenza
pubblica qualora l’ente pubblico
«eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso
esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante
della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano [25]. Si noti che si tratta (e non a caso)
proprio delle medesime espressioni «mutuate» dal nostro legislatore nel 2003
per legittimare l’affidamento diretto dei servizi[26].
L’affidamento in house esige infatti un rapporto di delegazione interorganica che da un punto di vista civilistico è assolutamente improponibile tra una società di capitali ed il suo socio ente pubblico, tra i quali v’è comunque il diaframma della personalità giuridica[28]. Insomma dalla regola comunitaria riguardante gli effetti generali ed astratti del principio di immedesimazione il legislatore italiano ha trovato la chiave strumentale per affidare i servizi pubblici a società che vengono trattate come soggetti privati quando si tratta di «spendere» e soggetti pubblici quando si tratta di subirne le conseguenze.
La costruzione ha rivelato, evidentemente, una oggettiva debolezza da due diversi punti di vista: quello pubblicistico in quanto la società non può mai per sua natura essere idonea alla configurazione di quel «controllo analogo» che la legge richiede, se non (come vedremo) attraverso strumenti contrattuali che producono rilevantissimi effetti sistemici conseguenti; e quello privatistico in quanto la configurazione della fattispecie, laddove possibile, produce di per sé il fenomeno dell’abuso dell’attività di direzione e coordinamento[29]. Il tutto è reso ancora più complesso ed artificioso nel caso in cui gli enti pubblici soci siano più d’uno, considerato che si è ritenuto ammissibile anche in questo caso l’esercizio congiunto del controllo analogo, in virtù di patti parasociali (fattispecie confermata ed avvalorata dal Tusp).
Le Sezioni unite della Cassazione con la nota sentenza n. 26283 del 25 novembre 2013 scelsero di adattare forzatamente l’impostazione comunitaria, al fine di riconoscere la giurisdizione piena della Corte dei conti sulle azioni di responsabilità agli organi sociali delle «famigerate» società in house [30]. I giudici qualificarono, in modo in verità assai opinabile, questo genere di società come una mera articolazione interna della P.A., una sua longa manus, in modo che l’affidamento diretto non configurasse rapporto intersoggettivo ma “uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”. [31]
La vera ragione per cui la Cassazione adattò la costruzione Teckal al diritto interno era dovuta alla giusta sollecitazione delle Procure presso la Corte dei conti che evidenziavano come condizionamenti di carattere politico finivano col rendere altamente improbabili iniziative serie da parte degli enti pubblici dirette a sanzionare gli organi societari (controllati) davanti al giudice ordinario, dando luogo ad un sostanziale esonero da responsabilità di soggetti in uno scenario «imbarazzante» [32]. Tuttavia, visto il silenzio del legislatore, che nonostante i buoni propositi «dichiarati» non era intervenuto a riconoscere la più efficace giurisdizione della Corte dei conti (ed a porre un argine effettivo alla situazione), le Sezioni unite non poterono far altro che sostituirsi(al legislatore) al fine di raggiungere il risultato più efficiente, in un momento così delicato per la finanza pubblica[33].
In ogni caso la soluzione della «immedesimazione organica» non supportata normativamente dall’emersione di un «tipo» ha generato una confusione che non tiene conto del fatto che alcune categorie concettuali e sistematiche di diritto pubblico e comunitario non sono applicabili sic et simpliciter al diritto commerciale. Peraltro, intanto si giustifica un modello privatistico in cui l’ente pubblico si occupa, in forza della sua autonomia privata, della direzione e del coordinamento delle sue partecipate in quanto i regimi di responsabilità, gestione e organizzazione siano quelli del diritto comune, seppure con alcuni accorgimenti nei limiti del principio di tipicità [34].
Per configurare il c.d. controllo analogo è necessario uno strumento di carattere societario, parasociale o contrattuale, diverso dai normali poteri che un socio, anche totalitario, esercita in assemblea, che in ogni momento possa vincolare l’affidataria agli indirizzi dell’affidante. Non può certo bastare il diritto di voto (come vedremo nella vicenda Alitalia) o il potere di nomina degli organi perché questi saranno comunque autonomi nella gestione, salvo la possibilità di revocarli. Quindi da un lato il controllo partecipativo totalitario è condizione necessaria (con tutti i relativi effetti ex art. 2325, comma 2, c.c. e 2462, comma 2, c.c.), dall’altro è condizione insufficiente a legittimare l’affidamento diretto dei servizi.
L’art. 2497 sexies c.c. sancisce che si presume la sussistenza di un’attività di direzione e coordinamento di società da parte dell’ente (o della società) tenuto al consolidamento dei bilanci o che comunque, ai sensi dell’art. 2359 c.c., le controlla disponendo «della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria», o «di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria» o che sono sotto la sua influenza dominante «…in virtù di particolari vincoli contrattuali». Quest’ultima forma di controllo c.d. esterno, prevista dall’art. 2359, n. 3, c.c., si identifica con un potere effettivo nei confronti della società (che prescinde dalle regole organizzative della stessa) di determinare l’attività dell’impresa controllata [35].
Dal punto di vista invece del c.d. controllo interno, l’unico modello conforme al dettato del legislatore era, prima del Tusp (che ha riattribuito per le sole partecipate poteri gestori all’assemblea dei soci), il tipo della società a responsabilità limitata[36], dove è concepibile un controllo di tipo invasivo ed anche asimmetrico[37]. All’epoca della vicenda Alitalia, (S.p.a. quotata) viceversa non era possibile, come vedremo scrive la Cassazione, l’assunzione di decisioni gestionali da parte dell’assemblea degli azionisti.
5. L’abuso della personalità giuridica della partecipata
Invero, il fenomeno del gruppo di società controllato da un ente pubblico, o addirittura da un’amministrazione dello Stato (come nel caso dell’Alitalia), è del tutto consueto nel nostro ordinamento, basti pensare addirittura all’esistenza, in passato, di un dicastero delle «partecipazioni statali» al vertice di una serie di holding settoriali (a cominciare da Iri, Eni, Efim etc.). D’altra parte l’attività di dominio è di per sé lecita e configura una situazione soggettiva attiva di cui può, e talora deve, farsi uso[38]: non contrasta con i principi inderogabili dell’ordinamento giuridico il fatto che il centro decisionale delle strategie venga posto al di fuori delle singole società controllate[39]. Ciò può valere a maggior ragione quando la società è a partecipazione pubblica ed il dominio può essere finalizzato ad evitare pregiudizi alla collettività [40].
L’art. 2497, comma 1, c.c., sancisce che «le società o gli enti[41] che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società. Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette».
L’attività di dominio diviene quindi fonte di responsabilità diretta verso soci e creditori se abusiva, ovvero se il dominus-ente pubblico la esercita nell’interesse imprenditoriale proprio od altrui (e comunque non nell’interesse del dominato) e se è contraria ai criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria. La responsabilità dell’ente pubblico-dominus sorge per effetto della violazione di un dovere specifico derivante da un preesistente rapporto obbligatorio verso soggetti determinati e non dal generico dovere del neminem laedere verso qualsiasi soggetto dell’ordinamento. Ma c’è di più: nel sistema di cui agli artt. 2497 ss., c.c., la responsabilità contrattuale del dominus che esercita l’attività di direzione e coordinamento nell’interesse proprio od altrui violando gli obblighi di corretto perseguimento degli interessi di gruppo quale risultante dall’equo contemperamento degli interessi delle società eterogestite, convive con la responsabilità risarcitoria di «chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi abbia consapevolmente tratto beneficio» (art. 2497 comma 2, c.c.).
E’ abbastanza evidente che il controllo che legittima l’affidamento diretto del servizio pubblico (o come nella fattispecie che giustifica la prosecuzione del trasporto aereo ad opera di Alitalia) viene (nella migliore delle ipotesi) esercitato in funzione degli interessi istituzionali dell’ente e della collettività cui viene erogato il pubblico servizio e non dell’interesse (lucrativo) della controllata, e come tale genera la responsabilità sussidiaria dello stesso ente. Quindi in una situazione in cui l’interesse della controllata diverge da quello del soggetto controllante e sussistono i presupposti previsti dalla legge, scatta la responsabilità della capogruppo a prescindere dalla sua natura e dall’interesse (anche pubblico) in concreto perseguito, come evidenzia la Cassazione nel caso in esame.
Laddove si verifichi l’ipotesi di controllo «analogo» ci troviamo spesso di fronte ad un caso di violazione, in re ipsa, delle regole dettate dal codice civile in tema di direzione e coordinamento (artt. 2497 ss.)[42]. Anche nel caso di controllo esterno, l’abuso della dipendenza economica può tradursi di per sé in abuso dell’attività di direzione e coordinamento con la conseguente responsabilità riconosciuta dalla giurisprudenza anche prima delle riforme [43].
Peraltro la più attenta dottrina commercialistica sottolineava, già trenta anni fa, questa criticità in relazione agli effetti del vecchio art. 2362, c.c., in caso di pubblica amministrazione-azionista unica[44], rispetto all’impossibilità di ammettere, per le regole di contabilità pubblica, una spesa di ammontare indeterminato come quella derivante dalla responsabilità delle obbligazioni societarie sorte nel periodo di controllo totalitario[45].
Problema che in verità si pone tuttora, in aggiunta alle responsabilità da eterodirezione abusiva, nei casi in cui a norma e per gli effetti degli artt. 2325, comma 2, c.c. e 2462, comma 2, c.c., non siano state rispettate le cautele in tema di conferimenti e pubblicità[46]. Quindi l’abuso del dominio finisce con il generare anche la violazione delle regole di contabilità pubblica, in ordine all’assunzione indiretta di spese di ammontare indeterminato come quella derivante dalla responsabilità ex art. 2497 c.c. per l’abuso del dominio.
6. La responsabilità dell’ente-holder nella giurisprudenza di merito
La giurisprudenza di merito si è recentemente pronunciata sulla questione della responsabilità risarcitoria della P.A. per abuso di eterodirezione, in virtù dell’applicazione delle regole di diritto societario comune[47]. In particolare ha ritenuto che l’attività di eterodirezione fosse desumibile in una fattispecie concreta: dalla partecipazione di maggioranza relativa dell’Ente atteso l’estremo frazionamento e l’assenteismo dell’azionariato di minoranza; dalle previsioni statutarie in materia di organo amministrativo sulla base di liste presentabili solo da soci che, da soli o congiuntamente, detenessero il 25 per cento del capitale; dal «fatto»che l’organo amministrativo era riferibile pienamente al socio e composto da soggetti che avevano già ricoperto incarichi dirigenziali all’interno dell’ente pubblico[48] e dal fatto che le delibere assembleari siano la prova positiva dell’influenza dominante esercitata nei fatti dal socio pubblico.
Gli indici formali del controllo analogo servono ai fini dell’affidamento diretto del servizio e al contempo determinano la presunzione dell’esistenza dell’eterodirezione. Questo stesso sistema delle presunzioni evidenzia implicitamente che il dominio non ha modalità tipiche di attuazione e quindi neppure di accertamento quando si verifica di fatto, soprattutto attraverso direttive impartite fuori da schemi organizzativi e\o negoziali (e comunque senza rilievo esterno, perché indirizzate esclusivamente verso la società dominata) e frutto di un potere effettivo. D’altra parte l’eterodirezione è cosa completamente diversa dalla partecipazione alla gestione (o dalla ingerenza nella stessa) che invece ha una sua regolamentazione e che può soltanto rappresentarne in taluni casi un indice rivelatore.
Il legislatore, come precisato nella relazione di accompagnamento al D.Lgs. n. 6/2003, ha posto a base della responsabilità disciplinata dall’art. 2497 «il fatto dell’esercizio di attività di direzione e coordinamento», per cui se tale attività è da intendere come «fatto», il suo effettivo esercizio è di per sé sufficiente a produrre le relative conseguenze giuridiche. Il fatto è riferibile a una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle scelte gestorie dell’impresa, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario industriale e commerciale che attengono alla conduzione degli affari sociali[49].
I concetti di controllo ed eterodirezioneoperano su piani differenti: sebbene nella pratica si possano sovrapporre. Il sistema di cui all’art. 2497 c.c. ammette l’esercizio dell’attività di dominio anche in mancanza del controllo sulla società[50] e la sussistenza di quest’ultimo non esclude che l’attività di direzione sia esercitata da un soggetto differente. Il fenomeno del gruppo, così, non si identifica con quello del controllo: le società controllanti, collegate o controllate, possono rappresentare un gruppo unitario soltanto quando sono dominate manifestando l’espressione di una «struttura economica unitaria» [51].
Peraltro, come già evidenziato in precedenza, l’attività di eterodirezione non solo è di per sé lecita ma può talora presentarsi come doverosa. Ciò può valere a maggior ragione quando la società è a partecipazione pubblica ed il dominio può essere finalizzato ad evitare pregiudizi agli interessi della collettività (che comunque è un interesse diverso da quello sociale). L’attività di direzione e coordinamento determina responsabilità solo se svolta nell’interesse imprenditoriale proprio o «altrui» edin violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime.
Nel sistema concepito dal legislatore non occorre neppure accertare che l’interesse perseguito dalla condotta unitaria sia quello del dominus, ma è sufficiente che sia un interesse extrasociale rispetto a quello delle società eterodirette, come nel caso di specie. Mentre nella disciplina di cui agli artt. 2373 e 2391, c.c., in tema di delibere assembleari e consiliari, l’interesse altrui è un interesse extrasociale individuale od occasionale del socio o dell’amministratore, di fatto o di diritto, nel sistema di cui all’art. 2497, c.c., è proprio l’interesse che costituisce la ragione determinante del controllo ed è un interesse alla direzione dell’impresa dominata.
Si tratta evidentemente di un interesse imprenditoriale diverso da quello sociale della società abusata. Dall’altro lato, la clausola generale di correttezza funziona da regola di comportamento e indirizza proprio l’esercizio non abusivo della direzione unitaria.
Ma c’è di più nel sistema di cui agli artt. 2497 ss., c.c., la responsabilità contrattuale del dominus convive con la responsabilità risarcitoria di «chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi abbia consapevolmente tratto beneficio» (art. 2497 comma 2), nella fattispecie gli organi sociali ed i rappresentanti ed i dirigenti dell’ente pubblico.
E’ abbastanza evidente che il controllo «analogo», che legittima l’affidamento diretto del servizio pubblico, viene spesso (come nel caso esaminato dalla giurisprudenza di merito) esercitato in funzione degli interessi istituzionali dell’ente e della collettività cui viene erogato il pubblico servizio (e non dell’interesse sociale della controllata) e come tale genera la responsabilità sussidiaria dello stesso ente. Per i c.d. servizi senza rilevanza economica la gestione secondo criteri di economicità (quindi di corretta gestione imprenditoriale) è esclusa di fatto addirittura dalla legge[52].
La violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale si configura allorché l’ente pubblico controllante ha agito nell’interesse proprio o altrui (ammesso pure che sia quello della collettività come il trasporto pubblico aereo) «che può individuarsi nell’interesse economicamente rilevante ad assicurare la continuazione della gestione del servizio pubblico, riversando esclusivamente sulla società partecipata i risultati negativi della gestione in perdita, così traendone vantaggio in pregiudizio della stessa»[53].
7. L’applicazione del sistema di cui agli artt. 2497 ss. c.c. alle società pubbliche
L’escussione della società dominata e la relativa incapienza si realizza in modo pieno in caso di dichiarazione di insolvenza della stessa (come nel caso Alitalia) [54], anche nel senso che tale evento rende automaticamente possibile l’azione nei confronti dell’ente che esercita la direzione ed il coordinamento, in quanto è automaticamente soddisfatto il requisito della sussidiarietà. Anzi, l’impressione è quella che il legislatore, nell’elaborare la norma, abbia pensato proprio a questa fattispecie.
Il curatore (od il commissario straordinario come nella fattispecie) della società eterodiretta,acquista, a seguito dell’assoggettamento a procedura concorsuale, la legittimazione ad esercitare la sola azione spettante ai creditori nei confronti della holding sulla base del riferimento normativo espresso contenuto nell’ultimo comma, dell’art. 2497 c.c. Permane viceversa la legittimazione dei soci, come accaduto per gli azionisti di Alitalia, anche in caso di dichiarazione di insolvenza della società eterodiretta.
Il sistema non esige alcuna spendita del nome, al fine della emersione della responsabilità da abuso di eterodirezione, e quindi alcun rapporto negoziale tra i creditori e chi esercita l’attività di direzione e coordinamento, ed alcuna autonoma economicità dell’attività stessa[55]. Ciò comporta che tale responsabilità sarà riconducibile all’ente-dominus (che ha abusato dell’attività di eterodirezione) a prescindere da qualsivoglia rapporto abbia avuto lo stesso con i creditori[56]. In particolare l’obbligo di motivare analiticamente le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento quando influenzate, con puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione (previsto dall’art. 2497-ter, c.c.), agevola ulteriormente l’onus probandi del danneggiato e rende la prova liberatoria del dominus particolarmente rigorosa.
Si verifica una situazione simile a quella che viene prevista in caso di esclusione o limitazione del diritto d’opzione ai sensi dell’art. 2441, 6° comma c.c.: qualora la holding intenda imporre alle controllate decisioni attinenti la gestione idonee ad incidere sul loro interesse sociale (eventualmente pregiudicandolo), è compito della società (e in particolare degli amministratori nella relazione prevista dall’art. 2428 c.c.) dimostrare le ragioni che hanno suggerito il compimento dell’atto pregiudizievole. Per provare la violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, basterà dimostrare la incongruità o la carenza della motivazione.
Sulla base della medesima impostazione è stata ora codificata la responsabilità contabile, in passato riconosciuta solo là dove ed in quanto si arrecasse un danno erariale diretto all’azionista pubblico[57] e non in via mediata alla partecipazione del socio pubblico. Viceversa il corretto inquadramento sistematico comporta che ci siano due forme di responsabilità concorrenti e settoriali [58] e l’una non esclude l’altra anche per quanto riguarda quella derivante dall’abuso del dominio.
D’altra parte la Cassazione ha recentemente statuito che ai fini della determinazione della giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità degli amministratori o dipendenti di enti pubblici, deve ritenersi che si eserciti attività amministrativa non solo quando si svolgono pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, si perseguono le finalità proprie dell’amministrazione pubblica mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato; con la conseguenza che il dato essenziale che radica la giurisdizione della Corte dei conti è rappresentato dall’evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più dal quadro di riferimento – pubblico o privato – nel quale si colloca la condotta produttiva del danno[59].
8. La concorrenza dell’azione contabile da abuso di dominio
Dal combinato disposto delle disposizioni di cui ai 2 commi dell’art. 12 del Tusp[60] si ricava che i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti, in via generale, alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria. E’ fatta (in ogni caso) «salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house».
Dunque, in base al nuovo quadro normativo e giurisprudenziale, oltre al danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house, che è tale secondo i parametri ormai codificati[61], è devoluto tuttavia alla giurisdizione della Corte dei conti il danno erariale delle altre tipologie di società partecipate pubbliche (anche non in house)[62], sia quando si configura come danno patrimoniale (anche indiretto oltre che diretto)[63], sia allorquando si configura come danno non patrimoniale[64]. Il danno erariale la cui giurisdizione è devoluta, in base al comma 1 dello stesso art. 12, alla Corte dei conti è quello «subito dagli enti partecipanti»e non quello subito dalla stessa partecipata pubblica e comprende il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione.
L’azione contabile può dunque concorrere con le altre azioni poste a garanzia dei soci e dei creditori sociali previste dal codice civile, come avviene per gli altri casi di responsabilità devolute alla giurisdizione contabile, senza che si determini alcun conflitto di giurisdizione, «ma soltanto un’eventuale preclusione all’esercizio di un’azione quando con l’altra sia già ottenuto il medesimo bene della vita»[65].
Orbene prima della riforma Madia gran parte dei giudici ordinari, dopo aver accertato la sussistenza o meno dei requisiti, hanno affermato o negato - sic et simpliciter - la propria giurisdizione. Viceversa la questione era già ben più complessa e non vi erano ragioni per escludere la concorrenza di procedimenti, civili, contabili e persino penali (con riferimento alla parte civile) a carico degli organi sociali. Le azioni possono convivere e nessuna prevale sull’altra. Laddove nel tempo si formino due diversi titoli da eseguire sui beni dei componenti degli organi sociali, questi seguiranno le normali dinamiche del processo di esecuzione. E se una delle due azioni avrà bruciato sul tempo l’altra evidentemente non avrà esito fruttuoso per la sopravvenuta incapienza[66].
Ed infatti i giudici di legittimità hanno affermato espressamente «la possibilità del concorso fra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, in quanto laddove sia prospettato anche un danno erariale, al di là di una semplice interferenza fra i due giudizi, deve ritenersi ammissibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio…»[67].
Nella vicenda esaminata dalla giurisprudenza di merito citata[68], infatti, la procura della Corte dei conti aveva esercitato analoga azione nei confronti di amministratori e dirigenti dell’Ente pubblico per aver determinato rilevanti danni erariali autorizzando reiteratamente la prosecuzione dell’attività in perdita della società partecipata in liquidazione. Ed in primo grado la Corte aveva riconosciuto tale responsabilità condannando i rappresentanti dell’ente[69]. Tuttavia in secondo grado la sezione giurisdizionale centrale d’appello aveva riformato la sentenza proprio in quanto la responsabilità derivava dall’eterodirezione e non poteva prescindere dall’operato degli organi sociali (intranei) che materialmente avevano realizzato la condotta foriera dei danni anche se in esecuzione delle direttive del socio[70].
In realtà nella fattispecie l’azione della procura contabile era stata esercitata in un momento storico in cui non si era ancora delineata sul piano normativo e giurisprudenziale una legittimazione ad una azione erariale assimilabile a quella di cui all’art. 2497, c.c., anche se basata sulle medesime ricostruzioni fattuali e probatorie[71]. Nel caso di specie sussisteva la responsabilità dell’ente pubblico per abuso del dominio, dei suoi amministratori e dirigenti (per le stesse ragioni e per aver violato le regole di contabilità) per aver esposto l’ente a spese indiscriminate e degli organi della partecipata per aver preso parte al fatto lesivo[72].
Ecco che l’art. 12 contempla nella «versione erariale» il medesimo meccanismo civilistico contemplato dall’art. 2497 c.c. quando afferma, come si è visto, che «costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell'esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione»e per l’effetto riconosce la giurisdizione per questo danno su organi controllanti ed in solido su controllati, visto che senza questi ultimi i primi non potrebbero esercitare i poteri di fatto.
Insomma allo stato esistono due forme di responsabilità degli organi amministrativi e di controllo, concorrenti e settoriali, quella civilistica comune per danni, secondo le regole ex art. 2393 ss. c.c. , e quella erariale, da far valere con l’azione ordinaria per le società in house e con quella individuale del socio ex art. 2395 c.c. Ed analogamente due azioni concorrenti per la responsabilità dell’ente holder per abuso dell’attività di eterodirezione delle società controllate ed in solido di chiunque (organi della società, dirigenti e amministratori dell’ente) abbia preso parte al fatto lesivo o nei limiti del vantaggio di chiunque ne abbia tratto beneficio.
La Cassazione ha riconosciuto, come visto, una concorrenza a tutto campo tra la giurisdizione ordinaria sulle azioni classiche contemplate dal codice civile e la giurisdizione contabile sulle omologhe azioni erariali [73]. Laddove la «devoluzione alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2» sancita dal secondo periodo del comma 1 dell’art. 12 costituisce un principio generale che va a combinarsi e a delimitare l’altro principio generale sancito dalla prima parte del primo periodo del comma 1, individuando i regimi concorrenti del danno arrecato alla società soggetto alla disciplina societaria e del giudice ordinario e del «danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto dagli enti partecipanti», «devoluto» alla giurisdizione della «Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica»[74].
La norma, individua il titolo oggettivo della giurisdizione nel «fatto» del danno al «valore della partecipazione». In pratica la giurisdizione contabile in tema è una giurisdizione ex titulo: una volta sorta, tale obbligazione, sul piano del «rapporto», segue la disciplina sancita dalle regole civilistiche, nell’ambito della concorrenza riconosciuta dalla Cassazione delle giurisdizioni, anche per quanto riguarda l’azione erariale da abuso del dominio oltre che per quelle classiche[75].
Tornando alle società quotate, quale era Alitalia prima dell’insolvenza, l’art. 12, comma 2 del Tusp, nell’interpretazione prospettata, pur non applicandosi alle società quotate, costituisce proprio il completamento dell’art. 16-bis del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito con modificazioni dalla l. 28 febbraio 2008, n. 31, che, ribadendo la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario sulla responsabilità regolata dal codice civile degli amministratori e dei dipendenti delle società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni inferiore al 50 per cento, aveva presupposto un ambito di giurisdizione proprio della Corte dei conti, senza definirlo compiutamente. Difatti l’art. 12, comma 2, qualifica “erariale” qualunque danno subito dall’amministrazione, nei limiti della quota della partecipazione pubblica, prevedendo quindi un’azione di responsabilità erariale, distinta dal sistema delle responsabilità sociali, avente ad oggetto il solo patrimonio pubblico dell’amministrazione, che deve essere risarcito qualora sussistano gli ulteriori presupposti dell’azione di responsabilità amministrativa.
9. La responsabilità da attività di eterodirezione in caso di crisi della partecipata
La violazione dei principi di corretta gestione ha comportato, nel caso esaminato dalla citata giurisprudenza di merito[76], l’impossibilità della controllata di operare come autonomo centro di profitto, a causa della decisione di proseguire l’attività mediante l’esercizio provvisorio, nonostante le continue perdite, nonché della delibera del finanziamento del relativo fabbisogno, eseguito però solo in parte ed in modo del tutto insufficiente a coprire i buchi via via accumulati[77].
La prova positiva dell’influenza dominante esercitata dall’Ente pubblico socio viene individuata in circostanze fattuali reiterate. Dopo aver accertato nell’assemblea, quale socio di maggioranza relativa determinante, la perdita del capitale senza sottoscrivere l’aumento deliberato, lo stesso non procedeva per quasi due anni alla messa in liquidazione, nonostante si fosse verificata la causa di scioglimento che veniva decretata in via giudiziale. Negli anni successivi il socio-holder approvava delibere di autorizzazione all’esercizio provvisorio motivandole con l’esigenza di conservazione del valore dell’azienda e di preservazione dei posti di lavoro. In particolare nella seconda delibera di proroga, a fronte della resistenza degli altri soci e dei rilievi del collegio sindacale per le ulteriori gravi perdite prodotte, manifestava l’impegno a farsi carico dell’intero fabbisogno finanziario anche per la quota dei soci assenti e dissenzienti, salvo regresso. Nelle due successive proroghe, nel riconoscere di aver deliberato ingenti finanziamenti, richiamava un altro ente pubblico (socio di minoranza) che aveva presentato una propria mozione sulla necessità di coordinarsi preventivamente esternando chiaramente la posizione di supremazia. Queste attività conclamavano l’eterodirezione di fatto e l’influenza dominante «sulle scelte gestionali e strategiche della partecipata da parte di un socio pubblico teso ad occuparsi direttamente della gestione della partecipata assumendo un ruolo attivo e di primario rilievo per la risoluzione della crisi, che del resto ha contribuito a creare, anche nei confronti degli organi istituzionali e della procedura concorsuale nel mero interesse extrasociale economicamente rilevante di assicurare la continuazione del servizio di trasporto pubblico».
Nella fattispecie si sovrappongono più presunzioni (a norma dell’art. 2497 sexies c.c.), in quanto il socio pubblico disponeva «di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria» ed al tempo stesso godeva«…di particolari vincoli contrattuali» essendo il soggetto che affidava direttamente il servizio di trasporto. Questa circostanza incrocia anche la presunzione di cui all’art. 2497 septies c.c., visto che il c.d. «controllo analogo sui servizi» (e non sulla società), richiesto dal modello in house providing, è realizzabile in pieno solo con un contratto di dominazione sull’attività economica.
E’ interessante infine che la giurisprudenza trovi conferma fattuale degli abusi dell’ente-holder nella gestione della crisi (e delle soluzioni da adottare) e conferma normativa dell’illegittimità del comportamento dalle disposizioni del Tusp (anche se non applicabile alla fattispecie) laddove all’art. 14 comma 5, proibisce alle pubbliche amministrazioni di effettuare «conferimenti, erogare finanziamenti e rilasciare garanzie alle società partecipate che operino strutturalmente in perdita, salvo che la crisi non sia reversibile, ma in tempi abbastanza brevi e certi, attraverso comunque la predisposizione di un piano di risanamento approvato dall’autorità di regolazione del settore e comunicato alla Corte dei conti per il raggiungimento dell’equilibrio finanziario»[78].
Infatti il Tusp ha introdotto un microsistema di allerta e prevenzione per le partecipate pubbliche, anticipandone l’ingresso generalizzato nel nostro sistema concorsuale, ora contemplato dagli artt. 12 ss. del Codice della crisi[79]. L’art. 6, comma 2 T.U., dispone che le sole società a controllo pubblico (e non le mere partecipate) «….predispongono specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale e ne informano l’assemblea nell’ambito della relazione di cui al comma 4». Quest’ultima relazione, che descrive gli strumenti di governo societario adottati, va predisposta annualmente e va pubblicata contestualmente al bilancio d’esercizio.
Qualora emergano, nell’ambito dei programmi di valutazione del rischio, uno o più indicatori di crisi aziendale (con riferimento per il futuro agli «indicatori della crisi» previsti dall’art. 13 del codice dell’insolvenza), l’organo amministrativo della società a controllo pubblico adotta senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l’aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminare le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento.[80]
Nel medesimo quadro rientra la previsione di obblighi di comportamento ed infatti «non costituisce provvedimento adeguato, nella gestione della crisi da parte del socio pubblico, la previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell’amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie anche se attuato in concomitanza ad un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica, a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte, approvato a norma di legge» (comma 4, art. 14) [81].
Mentre nelle imprese «private» si incentiva la ricapitalizzazione in quanto il pericolo ricorrente è che i soci abbandonino la società ed i relativi creditori, nelle partecipate pubbliche il pericolo è esattamente quello opposto che si continui a finanziare «abusivamente» la società, ritardando l’emersione della crisi e violando i principi pubblicistici di equilibrio di bilancio come accaduto nella vicenda in esame. Ecco che nella corretta lettura della giurisprudenza di merito i contegni contrari agli obblighi di comportamento, od anche solo omissivi rispetto a questo impianto, possono configurare un abuso «tipizzato» dell’attività di direzione e coordinamento con le conseguenti responsabilità. Vero è che le norme non si applicano alle quotate ma abbiamo in questo modo parametri di riferimento in ordine ai “doveri” dei soci pubblici in caso di crisi di corretta gestione delle partecipazioni e dei relativi diritti.
10. Interesse sociale ed interesse pubblico
Nella fattispecie Alitalia, i ricorrenti, denunciando la responsabilità del MEF in riferimento all’art. 2497 c.c., imputavano all’Amministrazione statale la “violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria”. Diversamente dalla contestazione oggetto degli altri motivi di ricorso per Cassazione, fondata su condotta ascritta a generico “illecito extracontrattuale” ex art. 2043 c.c. (consistita, secondo l’assunto difensivo, nella asserita attività informativa decettiva volta a determinare nei soci-risparmiatori condotte rivelatesi pregiudizievoli, in quanto determinate dalla induzione in errore sulla certezza del risanamento aziendale), con il motivo basato sulla responsabilità da abuso del dominio i ricorrenti intendevano, invece, contestare le scelte gestionali degli organi amministrativi della società, cui il Ministero avrebbe prestato adesione, quale socio di maggioranza, e che avrebbero cagionato un pregiudizio alla integrità del patrimonio sociale della controllata, con diretti riflessi dannosi nella sfera patrimoniale dei singoli soci azionisti (per diminuita redditività e perdita del valore della partecipazione sociale). Veniva infatti, contestato al MEF di avere optato per la prosecuzione dell’attività d’impresa esercitata da Alitalia, nonostante l’assenza di un fattibile piano industriale e sebbene la situazione di crisi economica e finanziaria dell’azienda fosse ormai irreversibile[82], secondo la ricostruzione delineata nel precedente paragrafo.
Per i giudici di legittimità rimane innanzitutto inesplicata la riferibilità alla Amministrazione statale-socio di maggioranza delle attività asseritamente illecite indicate quali la “ingiusta concessione di garanzia statale per l’ottenimento di ulteriori finanziamenti della impresa in crisi e la concessione abusiva per due volte di prestiti ponte”. Ciò in quanto si tratta di determinazioni assunte ed imputabili ad organi del Potere esecutivo nell’esercizio della funzione politica ed adottate, inoltre, mediante provvedimenti legislativi [83].
Gli interessi pubblicisottesi ai numerosi interventi legislativi nella vicenda Alitalia hanno superato il vaglio di costituzionalità in esito al complesso esame condotto dalla Corte costituzionale nella sentenza del 23 giugno 2010 n. 270, che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale ex artt. 41 e 3 Cost. dell’art. 4, comma 4 quinquies, del D.l. n. 347/2003 convertito nella legge n. 39/2004 - introdotto dall'art. 1, comma 10, DL n. 134/2008 convertito nella legge n. 166/2008 - che ha disposto una deroga “ad personam”, a favore della società quale grande impresa in crisi che opera nel settore dei servizi pubblici essenziali, alla disciplina della concorrenza e delle concentrazioni societarie[84]. Il Giudice delle Leggi ha ritenuto giustificata la normativa dall’intento “di garantire la continuità del trasporto aereo su tutte le rotte nazionali, anche su quelle economicamente non convenienti, e di evitare la dissoluzione di una impresa di rilevanti dimensioni e la dispersione del valore aziendale, in vista della tutela dei livelli occupazionali e di esigenze strategiche dell’economia nazionale” in quanto interesse corrispondente al “fine sociale” cui può essere indirizzata l'attività economica ex art. 41 Cost., con “mezzi proporzionali” e congrui ex art. 3 Cost.
L’art. 3 del decreto legge 28 agosto 2008, n. 134 convertito con modificazioni dalla L. 27 ottobre 2008, n. 166, riconoscendo che i vincoli pubblicistici dettati dal “preminente interesse pubblico alla necessità di assicurare il servizio pubblico di trasporto aereo passeggeri e merci in Italia, in particolare nei collegamenti con le aree periferiche” , avevano condizionato l’operato degli amministratori e sindaci di Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a., nonchè di Alitalia Servizi s.p.a. e delle società da queste controllate, ed ha disposto, al comma 1, che “la responsabilità per i relativi fatti [cioè per i comportamenti, atti e provvedimenti che siano stati posti in essere dal 18 luglio 2007 fino alla data di entrata in vigore del presente decreto al fine di garantire la continuità aziendale] commessi dagli amministratori, dai componenti del collegio sindacale, dal dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, è posta a carico esclusivamente delle predette società”, contestualmente prevedendo, al comma 2, le misure di tutela a favore dei risparmiatori che avevano investito in titoli delle società che - per effetto delle scelte strategiche condizionate dal vincolo dell’interesse pubblico generale - avrebbero potuto subire una diminuzione del valore delle partecipazioni nel capitale sociale. La norma prevede un indennizzo - come misura di solidarietà a carico della collettività - a valere su di un apposito fondo nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, favore "dei risparmiatori che, investendo sul mercato finanziario, sono rimasti vittime di frodi finanziarie e che hanno sofferto un danno ingiusto non altrimenti risarcito”. [85]
Quanto invece alla contestazione riguardante l’approvazione dei bilanci di esercizio nonostante l’assenza di continuità aziendale, questariguarderebbe in sostanza solo l’illegittimo esercizio, da parte del MEF, dei diritti di voto.[86]
Al riguardo occorre stabilire se, avuto riguardo alla presunzione legale disposta dall’art. 2497 sexies c.c., con riferimento alla situazione di controllo ex art. 2359 c.c., l’esercizio del diritto di voto nell’assemblea della società controllata integri di per sè il presupposto della responsabilità della Amministrazione statale nei confronti degli altri soci di minoranza, non solo in quanto socio di maggioranza, ma al tempo stesso quale autonomo soggetto giuridico collocato in posizione dominante rispetto alla società partecipata, e che, tramite il voto in assemblea, avrebbe svolto abusivamente l’attività di direzione e coordinamento.
La illiceità della condotta per abuso nell’esercizio del diritto di voto da parte del socio (dominante o tiranno), era fattispecie di responsabilità già nota alla giurisprudenza, ancor prima della introduzione del sistema di cui all’art. 2497 ss., che veniva ravvisato nella violazione da parte del socio di maggioranza del limite imposto dal rispetto del principio di buona fede ex art. 1375 c.c., che deve, sempre, essere osservato anche durante la fase di esecuzione del contratto sociale. Sulla scorta di tale parametro normativo è stato, di conseguenza, ravvisato l’abuso del diritto di voto, da parte dei soci detentori della partecipazione di maggioranza, nella assunzione di una delibera assembleare “in contrasto con lo stesso oggetto sociale” e, dunque, in danno della stessa società, ovvero nella adozione di una delibera “intenzionalmente rivolta in pregiudizio dei diritti facenti capo singolarmente ai soci di minoranza”, od ancora della delibera “assunta fraudolentemente in danno di specifici interessi personali di uno di essi” [87].
Orbene l’illecito contestato al MEF non è affatto diverso, per la Suprema Corte, dalla descritta fattispecie di abuso del diritto del socio di maggioranza, non emergendo, nel caso concreto, alcun ulteriore elemento specificativo volto a distinguere tale fenomenologia, rispetto alla dedotta violazione dell’art. 2497 c.c.[88]
La tipologia funzionale dell’attività di eterodirezione, in relazione ad un assetto di relazioni intersoggettive complesse comporta chelo scopo operativo dell’ente sovraordinato che persegue “la cura dell’interesse di gruppo (e cioè la creazione di nuovo valore economico e patrimoniale, attraverso la organizzazione di un sistema di imprese), se pure non identifica un superiore oggetto sociale”, però si colloca al di fuori dell’ambito operativo di ciascuna singola impresa. Un modello di relazioni strutturali-organizzative, che se pure indefinito ed indefinibile a priori [89] si caratterizza comunque secondo la Cassazione “per collocare l’attività di dominio ad un livello decisionale sovraordinato rispetto all’orizzonte offerto dalla realizzazione dell’interesse sociale proprio di ciascuna società eterodiretta, e che si estrinseca, pertanto, in interventi volti ad evitare possibili conflitti o sovrapposizioni tra le attività imprenditoriali e le scelte commerciali delle singole partecipate o dirette, nonché ad indicare le sinergie necessarie a perseguire più complessi obiettivi di mercato, coordinando e selezionando le iniziative economiche delle società eterodirette”.
Tale attività di direzione strategico-finanziaria, così intesa è cosa completamente diversa dalla partecipazione alla gestione, o dalla ingerenza nella stessa, che pure è stata individuata in dottrina come parametro della responsabilità e che invece ha una sua diversa regolamentazione e che può soltanto rappresentare in taluni casi un indice rivelatore dell’attività di abusivo dominio. Accanto alla responsabilità imprenditoriale complessiva, l’art. 2497, comma 2, c.c., prevede infatti la responsabilità di chi, indipendentemente dalla qualifica formale, prenda parte al fatto lesivo, anche con singoli atti di ingerenza.
La Cassazione rimarca tutto ciò rilevando altresì che, nella disciplina riformata delle società per azioni, una compartecipazione dell’assemblea alle scelte gestionali ed operative degli amministratori, rimaneva totalmente esclusa dopo la riforma dell'art. 2364 c.c. che prevede l’intervento dell’assemblea ordinaria esclusivamente “sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori”, i quali, in ogni caso, rimangono esclusivi responsabili per gli atti compiuti.
Tant’è - aggiungiamo noi - che il controllo analogo, nel senso inteso dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, non era possibile, prima del Tusp, nelle società per azioni sulla base delle regole civilistiche[90], in quanto il tipo di società, almeno nel nostro ordinamento, impedisce per sua natura un controllo invasivo del socio sull’amministrazione di tal fatta [91]. Ecco il significato dell’intervento (in verità opinabile) sui poteri dell’assemblea nella Spa del legislatore nel 2016, che si era accorto come fosse del tutto incompatibile la soluzione diffusamente praticata di istituire nello statuto «comitati di controllo analogo» od organismi fantasiosi di questo genere [92].
Il Tusp ha previsto la possibilità per le spa a controllo pubblico o miste pubblico-privato di attribuire una o più funzioni gestorie all’assemblea dei soci (o al consiglio di sorveglianza), in deroga all’art. 2380 bis e 2409 nonies, c.c., e di stipulare patti parasociali di durata superiore ai cinque anni, in deroga all’art. 2341 bic c.c.. Ed, invero, una tale previsione offre la disponibilità di uno strumento di adattamento della disciplina organizzativa alle esigenze della società pubblica alternativo alla conformazione statutaria, finora scartato dagli interpreti proprio in ragione dei limiti di durata imposti dal codice civile[93]. Ora la c.d. riforma Madia risolve in linea di principio la questione, lasciando tuttavia al diritto comune l’effetto di questa fenomenologia, ovvero la questione della responsabilità per abuso dell’attività di eterodirezione da parte della pubblica amministrazione-holding e la dinamica anomala dei rapporti tra gli organi[94].
Tornando alla fattispecie concreta, la Cassazione ha evidenziato inoltre il carattere di “attività continuativa” che deve assumere la ingerenza nelle scelte di programma e nella modalità organizzativa delle singole partecipate, dovendosi tradurre la direzione ed il coordinamento nell’esercizio di un potere di indirizzo costante ed effettivo, che non può, quindi, esaurirsi nel mero condizionamento di un singolo atto di gestione della società od in forme di ingerenza meramente occasionali, né tanto meno può ridursi alla mera amministrazione della partecipazione di maggioranza, attraverso l’espressione del voto in assemblea.
La responsabilità da abuso del dominio è infatti una responsabilità da attività e non da atti, più rigorosa di quella derivante dalla violazione per colpa di un dovere di condotta che si può definire non tipizzata nel suo complesso (a differenza delle conseguenze tipiche del suo esercizio in violazione di criteri di corretta gestione societaria e imprenditoriale) [95]. Il sistema normativo di cui agli artt. 2497 e ss. c.c. riguarda l’attività di dominio e non il soggetto che la esercita. Il dominus, che svolge l’attività e che ha il relativo potere-dovere della direzione e del coordinamento, deve adottare tutte le misure e le cautele previste dalla legge per evitare il danno. Quando il dominio dell’impresa eterodiretta avviene mediante direttive impartite di fatto (o addirittura in modo segreto) e senza rispettare le norme sulla pubblicità commerciale dell’eterodirezione e sugli obblighi di cui agli artt. 2497 bis e ter c.c., il regime è ancora più severo determinando inversioni dell’onere della prova. D’altra parte nel diritto commerciale esiste un diretto rapporto tra informazione e responsabilità[96], nel senso che quest’ultima è direttamente proporzionale alla quantità e qualità delle informazioni offerte.
Nel caso Alitalia a differenza che nel caso Acms, analizzato nel paragrafo precedente, si tratta della mera approvazione del bilancio e non della reiterata approvazione di autorizzazione all’esercizio provvisorio in società sciolta per perdite e di posizioni assembleari volte ad esternare chiaramente la posizione di supremazia[97].
Nella logica della norma del codice civile sembra, secondo i giudici di legittimità, ravvisarsi una peculiare fattispecie di responsabilità civile che - pur presupponendo di regola una situazione giuridica di controllo societario - trae origine da una attività di eterodirezionedistinta rispetto a quella che viene ordinariamente svolta attraverso l’esercizio dei comuni diritti che derivano ai soci (anche di maggioranza) dalla mera partecipazione al capitale sociale, e che, a differenza di questi, richiede l’attuazione di condotte continuative e sistematiche, eventualmente tradotte anche in atti negoziali, dirette alla adozione ed imposizione di soluzioni organizzative ed imprenditoriali a livello strategico di gruppo di imprese estrinsecandosi, pertanto, in una vera e propria attività progettuale e di pianificazione degli obiettivi, che si realizza attraverso l’adozione di soluzioni operative che impongano una sinergia complessiva alle diverse attività economiche di produzione e servizi svolte sul mercato dalle singole società eterodirette, e rispetto alle quali attività economiche quella di direzione e coordinamento compiuta dall’ente pubblico, viene a distinguersi e mantenere una propria autonoma individualità[98].
11. La violazione dei criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nel caso Alitalia.
La Suprema corte nel rilevare l’assenza - in termini di diritto positivo - di qualsiasi definizione dei “principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale”- rimanda al principio di correttezza delle tecniche di gestione della impresa, cristalizzate in dottrina ed in giurisprudenza , in relazione alle quali è dato individuare i limiti oltre i quali la scelta gestionale, compiuta dall’amministratore, non può ritenersi conforme alla misura della diligenza richiesta, avuto riguardo alle peculiari circostanze conosciute o conoscibili, ed indipendentemente da eventuali profili di rilevante alea economica che tale scelta presenti. Tali limiti vanno individuati nella irragionevolezza della operazione economica (pregiudizievole per la società), in quanto da ritenere del tutto illogica o compiuta in assenza delle normali cautele ed “in mancanza della verifica delle necessarie informazioni” – preventivamente acquisite od acquisibili - che normalmente sono richieste per una scelta imprenditoriale di quel tipo, nonché, in generale, nella mancanza di diligenza[99]mostrata dall’amministratore nell’apprezzare preventivamente e compiutamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere (c.d.business judgment rule)[100].
Tali criteri giurisprudenziali di verifica della misura della diligenza dovuta - riferiti più propriamente alla corretta gestione della impresa commerciale, riservata alla competenza dell’amministratore - debbono trovare applicazione, per i giudici di legittimità, in virtù del continuum che viene ad istituirsi tra l’esercizio dei poteri di direzione e coordinamento degli amministratori della capogruppo e dei poteri di gestione degli amministratori delle singole controllate (diversa essendo soltanto la dimensione del livello strategico di intervento dei primi sulle scelte economiche dei secondi), anche alla verifica del grado di correttezza dell’attività svolta ex art. 2497 c.c. in grado di condizionare le delibere assembleari della società eterodiretta, incidendo, pertanto, sulle stesse scelte gestionali di quest’ultima.
Orbene, osserva il Collegio, che la descrizione, nel giudizio de quo, dell’elemento di illiceità della condotta ascritta al MEF risulta del tutto carente, atteso che, come è stato rilevato dalla stessa Cassazione, allorquando i comportamenti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di diligenza - consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali affidati - l’illecito è integrato dal compimento dell’atto in violazione di uno dei menzionati doveri: con la conseguenza che, in tal caso, l’onere della prova dell’attore-danneggiato non si esaurisce nella prova dell’atto compiuto dall'amministratore ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione di quello o di quei doveri di diligenza[101]. Come è stato rilevato, i ricorrenti si sono limitati ad affermare che il MEF “aveva sostenuto” la linea del programma gestionale degli amministratori di Alitalia, approvando il bilancio presentato nel 2008 in assenza di fattibilità di un piano industriale[102], senza, tuttavia, indicare in concreto la ragione per la quale tale condotta, ove anche ex se riconducibile alla attività di direzione e coordinamento, “sarebbe venuta, in concreto, ad integrare una violazione del dovere di diligenza, difettando in particolare la indicazione di quegli elementi circostanziali in base ai quali emergerebbe la violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria”[103].
Come visto l’intervento del socio pubblico di maggioranza volto a tutelare l’interesse pubblico non esonera (anche da un punto di vista dell’azione erariale) in ogni caso da responsabilità la pubblica amministrazione che, tramite i propri rappresentanti, esercita i poteri di direzione e coordinamento attraverso il voto nelle assemblee della società controllata, nel caso in cui l’esercizio del voto si sia risolto in un depauperamento della integrità del patrimonio della società eterodiretta, dovendo tuttavia a tal fine essere, secondo la Cassazione, verificato “a) se ed in che modo il perseguimento dell’interesse pubblico generale abbia determinato uno scostamento dalle scelte strategiche e gestionali che apparivano corrette alla stregua dei criteri economico-aziendali; b) se l'eventuale scostamento dai predetti criteri abbia o meno determinato diseconomie tali da incidere sul patrimonio societario e, di riflesso, sul valore o sulla redditività delle partecipazioni intestate agli altri soci privati, occorrendo, al proposito, tenere conto di tutti gli eventuali interventi - anche esterni - volti a prevedere e determinare “misure compensative” idonee a ridimensionare od annullare gli effetti pregiudizievoli della scelta operativa imposta dal socio pubblico di maggioranza”.
Il riconoscimento della legittimità della direzione e coordinamento deriva, indirettamente, proprio dalla previsione del rimedio della responsabilità della controllante per i casi di abuso, in ossequio al principio dell’autonomia patrimoniale delle società sottoposte a direzione unitaria. Il riconoscimento della funzione economica e della legittimità del dominio avviene attraverso la limitazione dell’autonomia della controllata là dove viene esclusa la responsabilità della controllante quando il danno subito dalla società sottoposta alla sua direzione risulta annullato dal risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero eliminato grazie a specifiche azioni[104]. Si tratta dei c.d. “vantaggi compensativi” richiamati dalla sentenza della Cassazione in esame.
Invero si può abusare solo di una situazione soggettiva attiva di cui si può fare legittimamente uso, “ossia di una situazione di cui si è titolari (per effetto del controllo, nelle sue varie accezioni) e che si estrinseca in diritti o poteri o facoltà. Se non c’è questa posizione attiva non c’è abuso, a differenza di quanto si afferma, c’è fatto illecito” [105].
Insomma il dominio dell’ente pubblico è un vero e proprio potere giuridico e non si può quindi condividere l’impostazione secondo cui la norma di cui all’art. 2497, c.c. esprimerebbe soltanto un valore dell’ordinamento – desumibile anche dal principio del neminem laedere [106]– secondo cui la influenza patologica della gestione altrui espone l’autore al risarcimento dei danni[107].
La responsabilità nei confronti degli azionisti di minoranza (e dei creditori) che dà origine all’azione ex art. 2497, non è una responsabilità da illecito; sorge viceversa, come evidenzia la Cassazione, per effetto della violazione di un dovere specifico derivante da un preesistente rapporto obbligatorio verso soggetti determinati [108] e non dal generico dovere del neminem laedere verso qualsiasi soggetto dell’ordinamento[109]. Né tale responsabilità può ridursi ad una sorta di responsabilità da illecito dell’amministratore di fatto «o, comunque ad una responsabilità per poteri di gestione alla prima sostanzialmente parificabile…ove si consideri che la direzione unitaria presenta contenuti ed articolazioni che non sono in alcun modo coincidenti con quelli che caratterizzano l’amministrazione delle società controllate» [110]. Ed anche per la giurisprudenza di merito ante riforma la responsabilità della controllante scaturisce dalla violazione di una obbligazione specifica, ossia quella di realizzare l’interesse del gruppo tramite la realizzazione degli interessi delle società controllate, obbligazione, quest’ultima, che trae la propria fonte dalla rilevanza del gruppo e dall’esercizio della direzione unitaria [111].
Si afferma tradizionalmente, infatti, che la responsabilità contrattuale sanziona l’inadempimento di un’obbligazione preesistente, qualunque ne sia la fonte, quale dovere specifico verso un soggetto determinato, mentre la responsabilità extracontrattuale scaturisce dalla violazione di norme di condotta che regolano la vita sociale e che impongono doveri di rispetto degli interessi altrui a prescindere da una specifica pretesa creditoria.
Nel nostro caso, l’obbligazione sorge nei confronti di soggetti determinati: gli azionisti (ed i creditori sociali) e non certo nei confronti di chiunque indistintamente. Si tratta, invero, di soggetti identificabili ex ante sulla base di una loro relazione giuridica con la società controllata. Inoltre va rilevato che la funzione della responsabilità contrattuale è la tutela di fronte ad un rischio specifico di danno, ovvero quello creato dalla particolare relazione che si è in precedenza instaurata fra due soggetti, mentre nella responsabilità extracontrattuale il sorgere della relazione intersoggettiva è successivo al giudizio sulla ingiustizia del danno[112]. Si tratta, a ben vedere, di una tutela nei confronti di un rischio specifico di danno, creato dalla particolare relazione già instaurata tra controllante e controllata per effetto di vincoli contrattuali, che attribuiscono il controllo di un soggetto sull’altro.
Chi esercita l’attività di eterodirezione incide su tali diritti in virtù della relazione instaurata con la dominata, che le consente di esercitare il dominio, dal cui abuso può scaturire una specifica lesione [113]. E non a caso l’art.2497 comma primo c.c. qualifica e configura il danno sofferto dai soci della partecipata come diretto.
D’altra parte si è evidenziato che il fenomeno del gruppo si inquadra nel concetto di collegamento contrattuale: i vari contratti di società, pur caratterizzandosi ciascuno in funzione della propria autonoma causa e conservando ciascuno la propria autonomia ed indipendenza, sono economicamente e teleologicamente coordinati tra loro in vista della realizzazione di uno scopo pratico unitario, un interesse globalmente riferibile alla complessiva catena contrattuale.
L’esercizio abusivo di un diritto si colloca fuori dalla sfera individuata da quel diritto, ma non per questo la conseguente responsabilità può essere semplicisticamente ricostruita in termini di responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., di cui pure si discute nella sentenza della Cassazione sulla vicenda Alitalia. E’ condivisibile l’impostazione di chi, pur escludendo che nella fattispecie si configuri una responsabilità ex contractu in senso proprio, individua nell’abuso della direzione e del coordinamento una violazione di obbligazioni specifiche (art. 1173) e che nel sistema dell’art. 1218 c.c.[114] è da qualificare comunque come contrattuale[115].
La responsabilità da abuso del dominio è, come afferma la Suprema Corte nella fattispecie concreta, una responsabilità da attività e non da atti, una sorta di responsabilità oggettiva – aggiungiamo noi - assimilabile a quella prevista in materia però extracontrattuale dall’art. 2050 c.c. per l’esercizio di attività pericolosa e più rigorosa di quella derivante dalla violazione per colpa di un dovere di condotta[116]. L’ente pubblico che ha il potere-dovere della direzione e del coordinamento, deve adottare tutte le misure e le cautele previste dalla legge in caso di dominio per evitare il danno. D’altra parte, il legislatore con l’art. 2050 c.c. non intese solo riaffermare il principio dell’art. 2043 c.c. aggiungendo l’inversione dell’onere della prova, ma volle dettare un tipo di responsabilità più rigorosa della mera responsabilità per colpa, per rischio tipico di attività per le quali è necessaria l’adozione di specifiche misure di salvaguardia.
Peraltro secondo la Suprema Corte il discrimine tra i diversi tipi di responsabilità “va ricercato (non già nella fonte, ma), nella natura della situazione giuridica violata: se si tratta di obbligazioni, anche se non derivanti da contratto, la violazione dà luogo a responsabilità contrattuale” [117]. Applicando il principio ai rapporti infragruppo ne consegue che lo svolgimento, da parte della holding, di funzioni amministrative - sia pure attinenti non alla gestione ordinaria, ma alla direzione e al coordinamento della società controllata, per la realizzazione dell’interesse di gruppo - impone il rispetto della regola di correttezza e delle speciali misure di salvaguardia previste dagli artt. 2497 bis e ter c.c. e quindi di obblighi di fonte contrattuale e legale la cui violazione determina un inadempimento sanzionato con la responsabilità di matrice contrattuale [118] e non extracontrattuale[119].
Questa impostazione è confermata dalla disciplina del recesso «quando a favore del socio sia stata pronunciata, con decisione esecutiva, condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento» (di cui all’art. 2497 quater, punto b, c.c.)[120]. Recesso che si spiega proprio per la sua funzione di impugnazione del contratto, ossia di reazione di fronte all’inadempimento contrattuale della holding e che perciò è accompagnato dall’ulteriore sanzione del risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento stesso. Per la medesima ragione, inoltre, il recesso potrà essere esercitato solo per l’intera partecipazione del socio.
[1] Il mancato riscontro probatorio si riferisce ai documenti prodotti ed in particolare nella “Nota” del 15.9.2008, redatta dal Commissario straordinario prof. Augusto Fantozzi (in cui veniva ripercorsa la complessa vicenda che aveva trovato speciale disciplina in successivi interventi legislativi). Neppure dalla successiva relazione del Commissario straordinario del 19.11.2008, tardivamente prodotta in grado di appello, emergevano – secondo la Corte salentina - prove a conferma delle condotte illecite ascritte al MEF, avendo il Commissario straordinario individuato le cause della crisi dell’azienda nei molteplici e concomitanti fattori macroeconomici (e di settore) insorti già alla fine degli anni novanta ed essendo ben nota alla platea dei risparmiatori ed investitori la incapacità dell’azienda a raggiungere un equilibrio strutturale di bilancio, resa evidente dai numerosi e ripetuti interventi di sostegno dello Stato, quale azionista di maggioranza, per sopperire alle esigenze di liquidità.
[2] Ciò sulla base della circostanza che gli attori avevano acquistato azioni nel 1998, e dunque in periodo antecedente alla contestata attività del MEF e nel periodo gennaio 2007-marzo 2008, quando la crisi di Alitalia era ben nota e, comunque, agevolmente verificabile dal socio, trattandosi di società quotata in borsa e soggetta ad obblighi di trasparenza ed informativi.
[3] Art.19, comma 6, del D.l. 1 luglio 2009 n.78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009 n. 102 recante «Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali»(pubb. in G.U. n. 179 del 4 agosto 2009).
[4] La Cassazione afferma che quanto alla deducibilità, in grado di appello, della eccezione di difetto di giurisdizione, alcun ostacolo derivava dalla contumacia in primo grado della parte appellante, essendo sufficiente rilevare al riguardo che, allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione, la parte che intende contestare tale riconoscimento è comunque tenuta a proporre appello sul punto, eventualmente in via incidentale condizionata, trattandosi di parte vittoriosa: diversamente, l'esame della relativa questione rimane preclusa in sede di legittimità, essendosi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione (ex multis: Cass., sez. un., n. 24883 del 09/10/2008; Cass., sez. un., n. 27531 del 20/11/2008; Cass. sez. un., ordinanza n. 2067 del 28/01/2011; Cass., sez. un. n. 10265 del 27/04/2018)
[5] Cass. Civ., SS.UU., 13 settembre 2018, n. 22406, in Società, 2019, 67 s., con nota di F. Fimmanò, Le Sezioni Unite aprono ad una giurisdizione concorrente “a tutto campo” della Corte dei conti sulle azioni di responsabilità.Prendiamo il caso di una società in house fallita, orbene l’azione di responsabilità promossa dal curatore, diretta al risarcimento del danno provocato ai creditori non può essere certo esclusa a vantaggio dell’azione contabile promossa dal procuratore della corte dei conti che non potrà mai essere finalizzata ad aumentare la massa attiva nell’interesse del ceto creditorio. Le due azioni potranno convivere e nessuna prevarrà sull’altra. Laddove nel tempo si formino due diversi titoli da eseguire sui beni dei componenti degli organi sociali, questi seguiranno le normali dinamiche del processo di esecuzione. E se una delle due azioni avrà bruciato sul tempo l’altra evidentemente non avrà esito fruttuoso per la sopravvenuta incapienza.
[6] Trib. Palermo, Sez. Impr., V civile, 28 aprile 2021, in Società, 2021, 812 s. con nota di F. Fimmanò Il controllo analogo configura in re ipsa l’attività di direzione e coordinamento sulle “partecipate” pubbliche. In tema tra le tante Cass., SS.UU., sent., n. 2739 del 27 marzo 1997. Il riconoscimento della giurisdizione dell’AGO sulla controversia compiuto dalla Suprema Corte non può essere rimesso in discussione.
[7] Non potendo ravvisarsi, secondo i ricorrenti, alcuna ragionevolezza nell’ipotetico presupposto su cui si fonda la norma interpretativa, e cioè che lo Stato non possa esercitare, attraverso le sue articolazioni, attività d’impresa, in quanto la stessa norma codicistica prescinde dalla qualità soggettiva pubblica o privata della società od ente, definendo attività d’impresa anche quella di mera direzione e coordinamento, ed in ogni caso potendo rinvenirsi il presupposto legale dell’esercizio dell'attività d'impresa, nella stessa attività economica svolta dalle “società controllate” dallo Stato azionista. Secondo i ricorrenti, pertanto, anche dopo avere escluso la responsabilità del Ministero per illecito extracontrattuale ex art. 2043 c.c., la Corte d’appello avrebbe dovuto, comunque, imputare al MEF la responsabilità di natura contrattuale - così qualificata dai ricorrenti - prevista dall’art. 2497 c.c., per avere esercitato tale attività economica “abusando” del potere di controllo societario e dei poteri di direzione e coordinamento della società partecipata.
[8] Trib. Napoli, Sez. Impr., 7 novembre 2019. in Società, 2020, n. 2, con nota di F.Fimmanò, Ente pubblico-holder e responsabilità per abuso di eterodirezione
[9]Il D.L. n. 78 del 1° luglio 2009, convertito con L. 3 agosto 2009, n. 102 come noto, ha previsto all’art. 19 (rubricato “Società pubbliche”), commi da 6 a 13 (concernenti “Partecipazioni in società delle amministrazioni pubbliche”), talune modifiche alla disciplina delle società pubbliche e degli organi di amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato. In particolare, a fronte dei dubbi interpretativi sorti in relazione a quegli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di società in ordine al perseguimento di un interesse imprenditoriale di gruppo (quale risultato complessivo dell’attività di dominio), il comma 6 dell’articolo citato fornisce un’interpretazione autentica dell’art. 2497, comma 1, c.c. Al riguardo ed in particolare sulla interpretazione autentica cfr. I. Eballi, Direzione e coordinamento nelle società a partecipazione pubblica alla luce dell’intervento interpretativo fornito dal “Decreto Anticrisi”, in Nuovo dir. soc., n. 10, 2010, 44 s. Il legislatore è intervenuto con la norma assai discutibile, apparentemente generale, diretta invece ad un caso specifico e cioè alla vicenda della crisi Alitalia, svoltasi in modo tale da poter configurare una responsabilità da abuso del dominio da parte del Ministero dell’Economia, esercitato in violazione dei criteri di corretta gestione societaria e imprenditoriale e nell’interesse proprio od altrui (giustamente critico V. Cariello, Brevi note critiche sul privilegio dell’esonero dello Stato dall’applicazione dell’art. 2497, comma 1, c.c. (art. 19, comma 6, D.L.. n. 78/2009), in Riv. dir. civ., 2010, 343 s). Cfr. in tema anche: M. Libertini, Principio di adeguatezza organizzativa e disciplina dell’organizzazione delle società a controllo pubblico, in Giur. comm.,2021, I, 23 ss.; F. Fimmanò, L’abuso di eterodirezione della società pubblica,in AA.VV., Le società pubbliche,a cura di F. Fimmanò - A.Catricalà - R. Cantone, Napoli, 2020, vol. I, 45 ss.; P. Pettiti, Direzione e coordinamento, interesse e controllo analogo, in Riv. Società,2020, 1093 ss.; in tal senso sembrerebbe anche A. Valzer, Controllo analogo, governance e responsabilità nelle società in house, ivi, 2020, 1067 s; E. Codazzi, La società in house, La configurazione giuridica tra autonomia e strumentalità,Napoli, 2018, 239 ss.; Ead., Enti pubblici e direzione e coordinamento di società: considerazioni alla luce dell’art. 2497, comma 1, c.c., in Giur. comm.,2015, I, 1041 ss., spec. 1054 ss.
[10] Si è sostenuto, in modo non condivisibile per le ragioni descritte, che l’introduzione dell’esenzione di cui all’art. 19, comma 6, esprimerebbe, un principio di carattere generale (ovvero, quello per cui l’ente è assoggettabile alla normativa sulla direzione e coordinamento solo in quanto sia imprenditore), che varrebbe anche per tutti gli altri enti pubblici (e in particolare per quelli territoriali) che imprenditori non sono (M. Passalacqua, Il gruppo economico nelle nuove direttive appalti e concessioni. Prolegomeni ai processi nazionali di aggregazione di società partecipate,in AA.VV., Nuove forme e nuove discipline del partenariato pubblico privato,a cura di A. Fioritto, Torino, 2017, 257 ss., ivi, 263; M. Carlizzi, La direzione unitaria e le società partecipate dagli enti pubblici, in Riv. dir. comm., 2010, I, 1193, secondo cui dalla norma si potrebbe desumere “la necessità di utilizzare un parametro teleologico nell’approccio alla disciplina della direzione unitaria da parte di un ente”; S. Valaguzza, Società miste a partecipazione comunale,Milano, 2012, 195).
[11] Sono stati analizzati gli eventuali spunti di carattere sistematico che possono trarsi dalla definizione di “gruppo di imprese” contenuta all’art. 2, comma 1, lett. h),CCII, che nella versione modificata a seguito del D.Lgs. n. 147/2020 (decreto c.d. “correttivo” al D.Lgs., n. 14/2019) prevede l’esclusione sia dello Stato che degli enti territoriali (E. Codazzi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento dell’ente pubblico holding, in Società, 2021, 827 s., in nota a Trib, Roma, 18 febbraio 2021, che pure ha affermato che l’art. 19, comma 6, D.L. n. 78/2009, norma qualificata espressamente interpretativa, conferma che la responsabilità di cui all’art. 2497, comma 1, c.c., è applicabile anche nelle ipotesi in cui il potere di eterodirezione compete ad un soggetto pubblico, purché diverso dallo Stato). In realtà a parte le giuste valutazioni in ordine alla settorialità della norma ed al fatto che una interpretazione della norma diversa eccederebbe la legge delega, a ben guardare la definizione si riferisce letteralmente a chi subisce l’attività di eterodirezione e non a chi la esercita.
[12]Al riguardo cfr. già F. Fimmanò, Le società pubbliche in house providing tra disciplina del soggetto e disciplina dell’attività, in Giust. civ., 2014, 1135 s.
[13] Ci riferiamo agli enti pubblici con mera struttura organizzativa societaria previsti, trasformati o costituiti appunto in forma societaria con legge (ad es. l’art. 7 del D. L. 15/4/2002 n. 63, convertito dalla L. 15/6/2002, n. 112, ha istituito la Patrimonio dello Stato S.p.a.; l’rt. 8 del D.L. 8/7/2002 n. 138, convertito dalla L. 8/8/2002, n. 178, ha gemmato la Coni Servizi s.p.a.; il D. Lgs. 9/1/1999 n. 1, ha istituito Sviluppo Italia s.p.a. poi integrato con altre norme dirette a disciplinarne la governance dell’attuale “Invitalia s.p.a”; l’art. 3, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79, ha previsto la costituzione del Gestore della rete di trasmissione nazionale S.p.a.; l’ art. 13, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79 ha contemplato la nascita della Sogin s.p.a.; stessa cosa è accaduta per “Gestore del Mercato s.p.a.” ex art. 5, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79 e l’Acquirente Unico s.p.a. ex art. 4, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79. In altri casi il legislatore ha trasformato o previsto la trasformazione di enti pubblici in società: così per l'Ente Nazionale per le Strade ex art. 7 D.L. 8/7/2002 n. 138, convertito in L. 8/8/2002 n. 178; per l'Istituto per i servizi assicurativi del commercio estero Sace ex art. 6 D. L. 30/9/2003, n. 269, convertito in L. 24/11/2003, n. 326; per l’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma ex D. Lgs. 17/8/1999 n. 304; per la Cassa Depositi e Prestiti ex art. 5 D.L. 30/9/2003 n. 269, convertito in L. 24/11/2003, n. 326). In tema cfr. F. Santonastaso, Riorganizzazione della pubblica amministrazione e istituti di diritto privato, in Contr. impr., 2010, 237 s.; C. Ibba, Le società «legali», Torino, 1992, 340; Id., La tipologia delle privatizzazioni, in Giur. comm., 2001, 483 s.; Id., Le società “legali” per la valorizzazione, gestione e alienazione dei beni pubblici e per il finanziamento di infrastrutture. Patrimonio dello Stato e infrastrutture s.p.a, in Riv. dir. civ., 2005, II. 447; ed in un’ottica estensiva: G. Napolitano, Soggetti privati «enti pubblici», in Dir. amm., 2003, 81 s.
[14] Da anni la Cassazione ha affermato che «…la società per azioni non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché l’Ente pubblico ne possegga in tutto o in parte le azioni…» (cfr. Cass. Sez. un., n. 4991 del 1995, Cass., n. 17287 del 2006) e che «indubbiamente anche un ente a struttura societaria può assumere natura pubblicistica, qualora ciò non sia espressamente previsto dalla legge….ovvero ricorrano determinate condizioni (comportanti una consistente alterazione del modello societario tipico, cfr. ad esempio Poste italiane Spa)» (Cass. Sez. un., 15 aprile 2005, n. 7799, in Società, 2006, 870).
[15] Ed il Tusp non ha cambiato lo stato dell’arte in quanto le disposizioni speciali intervengono su tante questioni ma non determinano l’emersione di una società «di tipo pubblico». In questo senso era già andato peraltro l’art. 4, comma 13, del d.l. 95 del 2102 (cd. spending review), che infatti dettava una norma generale di rinvio alla disciplina codicistica emblematica, secondo cui «le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali». La norma ha avuto funzione di interpretazione autentica e di chiusura, anche sulla base dei lavori preparatori e delle circolari applicative, finalizzata ad «imprimere un indirizzo di cautela verso un processo di progressiva entificazione pubblica di tali società, valorizzando la forma privata societaria e la disciplina comune dell’attività rispetto alla sostanza pubblica del soggetto e della funzione». Cfr. Parere del Comitato per la legislazione del Senato sul disegno di legge n. 5389 e Dossier del servizio studi del Senato n. 32 del luglio 2012 n. 39.
[16] Cass., Sez. un., 1° dicembre 2016, n. 24591, in Fallimento, 1017, 161 s. con nota di F. Fimmanò, L’insolvenza delle società pubbliche alla luce del Testo Unico, secondo cui le azioni concernenti nomina o revoca di organi sociali sono sottoposte alla giurisdizione del giudice ordinario, anche nel caso in cui le società siano in house providing.
[17] In tema di s.p.a. con partecipazione pubblica, spetta al giudice ordinario la cognizione della controversia relativa alla revoca dell’amministratore nominato ai sensi dell’art. 2449 c.c., trattandosi di atto posto in essere dall'ente pubblico a valle della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, dunque interamente regolato dal diritto privato, come si evince dal testo del richiamato art. 2449 c.c., il quale, da un lato, individua nello statuto sociale, e dunque in un atto fondamentale di natura negoziale, la fonte esclusiva dell’attribuzione al socio pubblico della facoltà di nominare un numero di amministratori proporzionale alla sua partecipazione, con la correlata facoltà di revocarli, e, dall'altro, precisa che gli amministratori così nominati hanno i medesimi diritti e i medesimi obblighi di quelli designati dall’assemblea, sicché, al pari di questi ultimi, godono dei soli diritti previsti dall'art. 2383, comma 3, c.c., (Cass., Sez. un., 18 giugno 2019, n. 16335, in Ilsocietario.it 3 settembre 2019 con nota di V. Guerrieri; Cass, Sez. un., 11 novembre 2019, n. 29078, in Mass. Giust. Civ. 2020; Cass., Sez. un., 1 dicembre 2016 n. 24591).
[18] Cass. 27 settembre 2013, n.22209 - Pres. Rordorf, Est. Cristiano, in www.Ilcaso.it, 2013. Al riguardo cfr. F. Fimmanò,Il fallimento delle società pubbliche, in Gazzetta forense, Nov – Dic. 2013, 13 s..
[19] Peraltro proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore (anche di matrice comunitaria e giuspubblicistica) che - negli ambiti da esse delimitati attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato - può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.
[20] Qualche mese prima una certa giurisprudenza di merito aveva affrontato, e risolto in modo assai simile, con diverse sentenze “sistematiche” e “complementari” il tema della insolvenza delle c.d. società pubbliche, sviluppando in modo analitico tutte le questioni poste dalla evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale. Cfr. App. Napoli, Sez. I, 24 aprile 2013, n. 57, e App. Napoli, Sez. I, 27 maggio 2013, n. 346, in Fallimento, 2013, 1296 s. con nota di F. Fimmanò, La società pubblica, anche se in house, non è un ente pubblico ma un imprenditore commerciale e quindi è soggetta a fallimento; App. Napoli 27 giugno 2013, n. 84, Fall. Arzano Multiservizi spa(inedita) sempre nel senso della fallibilità, con il quale dopo aver richiamato il d. lgs. n. 165 del 2001- che individua le amministrazioni pubbliche - afferma che «…il rilievo pubblico di alcuni organismi strutturati in forma civilistica consente l’applicazione di determinati istituti di natura pubblicistica, ma non consente di qualificare l’ente come pubblico e di sottrarlo alla ordinaria disciplina codicistica». Sulla base di questo orientamento che ha contaminato in positivo la giurisprudenza di legittimità, tuttavia altra giurisprudenza di merito subito successiva (Trib. Avezzano 26 luglio 2013 Pres. Forgillo – Est. Elefante, in www.ilcaso.it, 2013), ha eccepito che al fine di accertare l’assoggettabilità di un soggetto giuridico alla disciplina concorsuale occorre innanzitutto che quest’ultimo non solo non sia stato previamente qualificato espressamente dalla legge come Ente pubblico (clausola negativa), ma anche che in capo allo stesso sia possibile riconoscere simultaneamente la qualifica di “imprenditore” che esercita una “attività commerciale”.
[21] Naturale conseguenza è che le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo alla luce dell’art. 103 Cost. Ragionamento analogo va fatto per la giurisdizione contabile come vedremo più avanti.
[22] Con questa locuzione in economia aziendale si intende il mantenimento di una attività all’interno dell’impresa, utilizzando le sole risorse aziendali, in contrapposizione alla gestione in outsourcing, ovvero mediante l’affidamento all’esterno a terzi non appartenenti alla realtà produttiva titolare dell’attività. Si veda F. Capalbo, Genesi, emersione e gestione della insolvenza nelle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche: profili contabili e finanziari, in Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza, a cura di F. Fimmanò, Ricerche di Law & Economics, Milano, 2011, 493 s.
[23]In verità la genesi di questo fenomeno (e delle complesse questioni poste dallo stesso) non è certo legata a ragioni di efficacia del modello gestionale, ma esclusivamente alla degenerazione di metodi di organizzazione del comparto. L’opportunità della segregazione patrimoniale societaria e con essa la possibilità di violare i patti di stabilità, i principi in tema di concorrenza, le regole sulle procedure ad evidenza pubblica e le norme in tema di concorsi per l’assunzione del personale, è stata troppo attraente per la politica (specie locale) e si è fatto di tutto per mantenerla. Come se non bastasse quando i nodi sono arrivati al pettine e non è stato possibile più ricapitalizzare all’infinito le società perennemente in perdita, si è fatto di tutto per affermare che queste realtà (costituite solo per avere i vantaggi derivanti dal modello giuridico), non dovevano subire gli effetti negativi della scelta opportunistica (a cominciare dal fallimento) ma solo i vantaggi della separazione patrimoniale. La tendenza «espansiva» del modello ha subìto, nell’ultimo decennio, almeno da un punto di vista formale, una inversione.E’ paradossale che tanti giuristi siano impegnati da anni a dare un senso ad un monstrum che senso giuridico-economico non ha e che si sarebbe potuto evitare attraverso il semplice utilizzo delle vecchie «aziende speciali», definite un tempo municipalizzate. In verità già da molti anni abbiamo stigmatizzato questa situazione paradossale (cfr. in particolare F. Fimmanò, Le società di gestione dei servizi pubblici locali, in Riv. not., 2009, 897 s.). Con il testo unico si introducono correttivi a tutto questo specie rispetto alle società in crisi, ma la fenomenologia resta in piedi con le relative problematiche.
[24] L’impostazione di fondo consiste nel distinguere le società quotate rispetto alle società pubbliche, escludendo le prime dall’applicazione della disciplina societaria speciale prevista per le seconde dal “Testo Unico” e limitando l’area di intervento essenzialmente alle norme che si occupano delle modalità con cui le Pubbliche Amministrazioni gestiscono le partecipazioni societarie dalle stesse detenute, incluso l’accesso alla quotazione. Rileva ai fini della qualificazione del controllo la previsione contenuta nell’art. 18 del “Testo Unico” che dispone: “. Le società controllate da una o più amministrazioni pubbliche possono quotare azioni o altri strumenti finanziari in mercati regolamentati (…)”. Dunque solo le società a controllo pubblico possono accedere al mercato borsistico mentre ne sembrano escluse quelle non a controllo. La norma contiene un evidente principio in base al quale il legislatore non solo ha legittimato la detenibilità di partecipazioni in società quotata da parte delle Pubbliche Amministrazione ma ne ha favorito l’accesso al mercato borsistico. La disciplina prevista dal “Testo Unico” per le società quotate partecipate dalle Pubbliche Amministrazioni e società da esse controllate è circoscritta alle norme espressamente loro destinate dallo stesso “Testo Unico” (art. 1, comma 5). La ragione dell’esenzione della maggior parte delle disposizioni del “Testo Unico” è evidente: si reputa che il controllo esercitato su questo “tipo” di società dalla CONSOB – ed eventualmente dalle altre Autorità di vigilanza settoriali – e la loro vocazione al mercato renderebbero da un lato superfluo e, dall’altro lato, inopportuno, qualora non impossibile per incompatibilità con la disciplina di mercato, il loro assoggettamento ai poteri che le Pubbliche Amministrazioni possono esercitare sulle società (così R. Camporesi, La disciplina introdotta dal «testo unico» in materia di società a partecipazione pubblica quotate, in AA.VV., Le società pubbliche,a cura di F. Fimmanò - A.Catricalà - R. Cantone, cit. 737 s.).
[25] Corte giust. 18 novembre
[26] Cons. St. 30 settembre 2013, n. 4832; 11 febbraio 2013, n. 762; 10 settembre 2014 n. 4599. In particolare il legislatore italiano ha usato l’escamotage di far proprie le espressioni usate nella sentenza (ed in quelle analoghe successive) riguardanti un consorzio tra Comuni, per applicarle ad un soggetto giuridico completamente diverso e cioè ad una società di capitali. Da questa operazione sono nati anche una serie di equivoci con il «livello comunitario» anche perché a nessun altro Stato dell’UE è venuto in mente di utilizzare la società per ragioni «meramente opportunistiche».
[27] D’altra parte il diritto dell’UE «non impone in alcun modo alle autorità pubbliche di ricorrere ad una particolare forma giuridica per assicurare in comune le loro funzioni di servizio pubblico». Al riguardo cfr. Corte giust., 9 giugno 2009, C-480/06, Commissione c. Germania.
[28] Nel nostro ordinamento la delegazione interorganica, quale istituto riconducibile, nell’ambito pubblicistico, ai sistemi di c.d. esecuzione indiretta, comporta il trasferimento da un soggetto all’altro di competenze, funzioni e poteri, con la conseguenza che il delegante si spoglia di proprie attribuzioni a favore del delegato, il quale a sua volta, agisce solo nell’interesse e per conto di quest’ultimo, acquisendo legittimazione attiva e passiva e diventando direttamente responsabile nei confronti dei terzi degli atti di esecuzione della delegazione.
[29] Sugli effetti del c.d. dominio abusivo, mi permetto di rinviare a F. Fimmanò, La responsabilità da abuso del dominio dell’ente pubblico in caso di insolvenza della società controllata, in Dir. fall., 2010, 724 s.; cfr. in tema anche M. Carlizzi, La direzione unitaria e le società partecipate dagli enti pubblici, in Riv. dir.comm., 2010, I, 1177.
[30]Cass., Sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283 - Pres. Rovelli – est. Rordorf, in Società, 2014, 55 s. con nota di F. Fimmanò, La giurisdizione sulle “società in house providing”, ed in Fallimento, 2014, 33 s., con nota di L. Salvato, Riparto della giurisdizione sulle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali delle società in house; e poi in scia: Cassazione, Sez. un., 16 dicembre 2013 n. 27993; Cass., Sez. un., 26 marzo 2014, n. 7177 - Pres. Rovelli – est. Macioce; Cass., Sez. un., 24 ottobre 2014, n. 22609- Pres. Rovelli – est. D’Ascola. Nello stesso senso ma con approdo opposto Cass., Sez. un., 10 marzo 2014, n. 5491 - Pres. Rovelli – est. Nobili, in Società, 2014, 953 s. con nota di F. Cerioni; Cass. Sez. un. n. 26936 del 2 dicembre 2013.
[31] Le numerose sentenze successive delle sezioni unite si rifanno tutte a quella del 2013 c.d. Rordorf, il cui passaggio più forte è quello secondo cui «il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva».
[32] Peraltro si verificava in modo irragionevole che venissero«sottoposti alla giurisdizione contabile gli amministratori di un’azienda speciale, quelli di una società concessionaria, la giunta comunale ed i consiglieri comunali che approvano il conto consolidato e controllano la società partecipata e non anche coloro che l'hanno gestita causando direttamente un danno erariale». In questo senso si veda in particolare Cass., Sez. un., 3 maggio 2013 n. 10299, in Società, 2013, 974 s., con nota di F. Fimmanò, La giurisdizione sulle “società pubbliche”. Infatti, La Corte dei conti ha spesso continuato a radicare la propria giurisdizione con riguardo a queste società, affermando che costituiscano un modello organizzatorio della stessa P.A., sia pure per certi versi atipico, con la conseguenza che il danno prodotto dagli amministratori va qualificato come erariale (Corte conti, Sez. I App., 22 luglio 2013, n. 568; Corte conti, Sez. III App., 19 luglio 2011, n. 582; v. anche Corte conti, Sez. giur. Reg. Campania, 19 ottobre 2012, n. 1626.); reputando tale soluzione coerente con i principi costituzionali e del diritto comunitario, dato che quest’ultimo valorizza l’interesse dei cittadini e delle imprese contribuenti ad una gestione delle risorse pubbliche trasparente, efficiente ed economica (Corte conti, Sez. giur. Reg. veneto, 28 settembre 2012, n. 749; Corte conti, Sez. giur. Reg. Trentino-Alto Adige, 6 settembre 2011, n. 28.) e valorizzando i citati interventi normativi (Corte conti, Sez. giur. Reg. Campania, 7 gennaio 2011, n. 1.; Corte conti, Sez. giur. Reg. Campania, 23 ottobre 2012, n. 1629; Corte conti, Sez. giur. Reg. Marche, 15 luglio 2013, n. 80; Corte conti, Sez. giur. Reg. Lazio, 24 febbraio 2011, n. 339; Corte conti, Sez. giur. Reg. Lazio, 23 febbraio 2011, n. 327).
[33] Non a caso il Presidente Rordorf, estensore della prima sentenza pilota del 2013, ha avuto modo di rilevare che occorre «affrontare i problemi che abbiamo dinanzi senza fermarci a profili meramente formali, ma dando invece prevalenza ai dati sostanziali, anche perché è questo che c’impone l’inquadramento nel sistema giuridico europeo». R. Rordorf, Le società partecipate fra pubblico e privato, in Società, 2013, 1326. Tutto ciò nella consapevolezza che ancora più ardita sarebbe stata la «riqualificazione» delle società in enti pubblici in assenza di norme espresse, come si era tentato di fare in passato, in quanto solo una legge può riqualificare una partecipata come ente pubblico e quando ha ritenuto di farlo lo ha fatto. Effettuare l’operazione sulla base di un diritto pretorio interpretativo non è consentito vista la citata riserva di legge ed in virtù del principio di cui all’art. 101 Cost., che impedisce di negare l’efficacia precettiva delle norme oltre i limiti consentiti dall’interpretazione, che non può mai porsi contra legem.
[34] Altrimenti non avrebbe senso servirsi di una fictio per simulare istituti di tutt’altra natura quali l’azienda speciale oppure l’ente pubblico economico. Abbiamo avuto modo, già da anni, di segnalare che la società partecipata da un socio pubblico, rimane un contratto tipico con comunione di scopo lucrativo, soggetto al diritto comune, che non può essere «storpiato o manipolato» per finalità abusive dirette a creare in vitro una sorta di azienda speciale, organica all’ente per alcuni fini e separata per altri, solo per ottenere una autonomia formale e la conseguente disapplicazione delle regole pubblicistiche (F. Fimmanò, Le società di gestione dei servizi pubblici locali, cit., 897 s.).
[35] Il carattere esistenziale del rapporto contrattuale configura in questo caso un’ingerenza nella gestione che si concretizza attraverso le decisioni degli organi della controllata. Il contratto peraltro non ha ad oggetto il controllo, ma la produzione. Il controllo non si realizza attraverso l’organizzazione societaria, ma attraverso il risultato dell’esercizio dell’attività economica, cioè la produzione (la gestione dei servizi) che la controllante indirizza mediante il rapporto contrattuale verso il proprio profitto.
[36] In questo senso anche R. Occhilupo, L’ordinamento comunitario, gli affidamenti in house e il nuovo diritto societario, in Giur. comm., 2006, II, 63 s.; I. Demuro, La compatibilità del diritto societario con il c.d. modello in house providing per la gestione dei servizi pubblici locali, ibidem, 780 s.; C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica locale fra diritto comune e diritto speciale, in Riv. dir. priv., 1999, 36.
[37] Si pensi innanzitutto al disposto dell’art. 2479, comma 1, c.c., il quale sancisce che «i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione». E di conseguenza, a norma dell’art. 2476, comma 7, c.c., «sono solidalmente responsabili con gli amministratori…i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi».
[38] Sul dovere di esercizio della direzione unitaria in particolare L. Rovelli, La responsabilità della capogruppo, in Fallimento, 2000, 1098 s.; B. Libonati, Responsabilità del e nel gruppo, in Aa.Vv., I gruppi di società, Atti del convegno internazionale di studi, Venezia 16-17-18 novembre 1995, Milano, 1996, II, 1489; P.G. Marchetti, Controllo e poteri della controllante, ibidem , II, 1556 s; F. Fimmanò, I “Gruppi” nel convegno internazionale di studi per i quarant’anni della Rivista delle Società, in Riv. not., 1996, 522 s.
[39] Al riguardo C. Blatti – G. Minutoli, Il fallimento della holding personale tra nuovo diritto societario e riforma della legge fallimentare, in Fallimento, 2006, 428.
[40]In questa stessa logica già trent’anni fa il legislatore, nell’ambito della disciplina dei gruppi bancari, aveva espressamente sancito che la capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, emana le direttive, riconoscendo una vera e propria espressione di supremazia gerarchica meritevole di tutela. Nelle norme «per la ristrutturazione e per la disciplina dei gruppi bancari» (art. 25 d. lgs. n. 356 del 1990) e poi con il Testo unico bancario (art. 61 comma 4, del d.lgs n. 385 del 1993). Anche in quel caso si trattava della tutela dell’interesse, di rilievo pubblicistico, alla stabilità del sistema bancario a seguito dell’evoluzione del modello del c.d. gruppo polifunzionale composto anche di società esercenti attività strumentali a quella bancaria e finanziaria, con conseguenti rischi di instabilità ed irregolarità, derivanti dal mancato assoggettamento alla vigilanza prudenziale delle stesse. Al riguardo R. Costi, Le relazioni di potere nell’ambito del gruppo bancario, in Giur. comm., 1995, I, 885 s.
[41] La norma si riferisce evidentemente anche ad enti non societari quali associazioni, fondazioni ed appunto enti pubblici. In tal senso F. Galgano, I gruppi nella riforma delle società di capitali, in Contr. impr., 2002, 1021; G. Romagnoli, L’esercizio di direzione e coordinamento di società da parte di enti pubblici, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 216 s.; C. Ibba, Società pubbliche cit., 7; G.B. Portale, Fondazioni «bancarie» e diritto societario, in Riv. soc., 2005, 28 s..
[42] Trib. Palermo, Sez. Impr., V civile, 28 aprile 2021, cit. In ogni caso è corretto affermare che il “controllo analogo” sicuramente contiene in re ipsa la direzione ed il coordinamento, essendo “qualcosa di più” almeno sul piano degli indici formali (F. Fimmanò - F. Sucameli, Gli indici formali e legali di “controllo pubblico” e i fatti concludenti dell’abuso di eterodirezione, in Riv. Corte Conti, 2020, n. 4, 3 s.)
[43] Al riguardo F. Angiolini, Abuso di dipendenza economica ed eterodirezione contrattuale, Milano, 2012 87 ss.
[44] Ancora V. Buonocore, Autonomia degli enti locali e autonomia privata: il caso delle società di capitali a partecipazione comunale, in Giur. comm., 1994, I,14 il quale evidenziava che «a nulla varrebbe obiettare che per le aziende municipalizzate è tenuto a pagare le perdite di gestione, perché le aziende sono bracci operativi del comune, mentre le società a partecipazione comunale sono soggetti assolutamente autonomi e organicamente distinti dal comune…».
[45] La Corte dei conti con riferimento al vecchio regime dell’art. 2362, c.c., aveva infatti affermato, seppure in modo discutibile sul piano tecnico, che «Quando il capitale azionario è interamente posseduto dal comune, e conseguentemente è posta a carico di quest'ultimo un’illimitata responsabilità patrimoniale e quando la gestione della società da parte del comune è stata effettuata in modo esclusivo come se si trattasse di un organismo legato all’ente da un rapporto di ausiliarietà che si concretizza in un rapporto di sovraordinazione, indipendentemente dal nomen juris, ossia dalla qualificazione giuridica, non ci si trova di fronte ad una società per azioni ma ad un organismo ausiliario dell’ente. Deve escludersi che lo Stato oppure gli enti locali - salvo che non sia espressamente previsto da una specifica norma - possano acquistare la titolarità dell'intero pacchetto originario e ciò non solo per il danno che possa essere arrecato in conseguenza delle perdite subite ma anche in considerazione che l’illimitata responsabilità patrimoniale, la quale è correlata all'azionariato unico si pone in contrasto con l’art. 81 cost., per l’indeterminatezza dell'incidenza della spesa e della relativa copertura a carico del bilancio dello Stato, dell'ente locale e quindi a carico della collettività. La partecipazione totalitaria da parte di un solo ente locale non solo è inammissibile ma va considerata anche come stipulata in frode alla legge perché costituisce un mezzo per eludere l'applicazione della normativa vigente prima e dopo l'entrata in vigore della l. 8 giugno 1990 n. 142. È responsabile per culpa in vigilando il sindaco che non abbia controllato il generale andamento della gestione di una s.p.a. e che, quale rappresentante del comune, non abbia adottato alcuna valida ed efficace difesa dei propri interessi e diritti». Corte conti reg. Lazio, 10 settembre 1999, n. 1015, in Giorn. dir. amm., 2000, 235 con nota di M. Dugato.
[46] Adempimenti e cautele previste dagli artt. 2342 e 2362 c.c. per le società per azioni (anche per i contratti con l’unico socio e le operazioni a suo favore) , e dagli artt. 2464 e 2470 per le società a responsabilità limitata.
[47] Trib. Napoli, Sez. Impr., 7 novembre 2019, in Società, 2020, n. 2, con nota di F.Fimmanò,Ente pubblico-holder e responsabilità per abuso di eterodirezione.
[48] D’altra parte l’art. 80 comma 1, lettera b n. 3, del d.lgs 270 del 1999, ai fini della configurazione del gruppo contempla le imprese che, per la composizione degli organi amministrativi o sulla base di altri concordanti elementi, risultano soggette ad una direzione comune a quella dell'impresa sottoposta alla procedura madre. Cfr. A. Musso, Il controllo societario mediante particolari vincoli contrattuali, in Contr. impr., 1995, 22.
[49] Come ha correttamente affermato Il Tribunale delle Imprese di Napoli, 7 novembre 2019, cit.
[50] A. Niutta, Sulla presunzione di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497- sexies e 2497- septies c.c.: brevi considerazioni di sistema, in Giur. comm., 2004, I, 997.
[51] L. Guglielmucci, La responsabilità per direzione e coordinamento di società, in Dir. fall., 2005, 1, 38.
[52] I servizi pubblici locali a rilevanza economica sono quelli gestiti con metodo economico, laddove la tariffa richiesta all’utente risponda allo scopo almeno tendenziale di coprire integralmente i costi di gestione. Laddove invece i costi del servizio siano coperti facendo ricorso alla fiscalità generale, ovvero applicando tariffe politiche con lo scopo di esigere una mera compartecipazione dell’utenza, il servizio in questione sarà privo di rilevanza economica.
[53] Trib. Napoli, Sez. Impr., 7 novembre 2019, cit.
[54] Si tratta di una responsabilità sussidiaria rispetto a quella della società eterodiretta il cui patrimonio sia stato leso. Tale beneficio di preventiva escussione non sussisterebbe certamente qualora la responsabilità si fondasse sulla generica norma di cui all’art. 2043 c.c.. Così correttamente S. Giovannini, La responsabilità per attività di direzione e coordinamento nei gruppi di società, Milano 2008, 32.
[55] Al riguardo già F. Fimmanò, Dal socio tiranno al dominus abusivo, in Fallimento, 2007, 420 s.
[56] La fonte della responsabilità non è dunque nell’essere stato l’autore dell’atto, ma direttore e coordinatore dell’attività in violazione del principio di correttezza.
[57] Le Sezioni unite della Cassazione con sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806, in Giur. comm., 2011, II, 315 s., affermavano che solo nel caso in cui l’evento dannoso sia prodotto dagli amministratori “direttamente” a carico del socio-ente si configura la responsabilità e la giurisdizione del giudice contabile. Un tipico danno diretto è considerato quello all’immagine dell’ente. cfr. L. Caravella, La lesione all’immagine dell’ente pubblico ed il risarcimento del danno, in F. Fimmanò, Le società pubbliche. Ordinamento, cit., 541 s. Le Sezioni Unite con la sentenza del 3 maggio 2013 n. 10299, in Società, 2013 con nota di F. Fimmanò, La giurisdizione sulle società pubbliche, pur nella scia del pronunciamento “spartiacque” del 2009 e di quelli successivi, aprivano ad una diversa impostazione per le società in house e non escludevano valutazioni del giudice contabile, dirette a ricollegare azioni od omissioni riguardanti la società ma che avessero prodotto danni direttamente all’ente pubblico.
[58] Ex adverso l’azione individuale ex art. 2395, c.c., è stata ritenuta dalla magistratura contabile fuori dall’ambito della propria giurisdizione (Corte conti, Sez. I, App. 3 novembre 2005, n. 356, cit., 3). Sul tema più in generale cfr. A. Buccarelli, Il sistema della responsabilità amministrativa e civile nelle società di capitale pubbliche, in F. Fimmanò, Le società pubbliche. cit., 2011, 403 s.; T. Miele, La responsabilità contabile concorrente degli amministratori delle società partecipate in caso di insolvenza, ibidem, 450 s.; F. Di Marzio, Insolvenza di società pubbliche e responsabilità degli amministratori. Qualche nota preliminare, ibidem, 377 s
[59] Cass., Sez. un., ord. 12 dicembre 2019, n. 32608 – Pres. Virgilio, Rel. Giusti.
[60] L’art. 12 del Tusp sancisce che : «I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house. È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2. Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione».
[61] Ai fini del sorgere della giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house, la nozione di società in house, come codificata nel testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, secondo la cassazione non può spingersi sino a ricomprendere società partecipate, non già da una pubblica amministrazione secondo la definizione desumibile dall’art. 2, comma 1, lettera a) del testo unico approvato con il d.lgs. n. 175 del 2016, bensì da un soggetto – (nella specie la Fondazione ENPAM) – che, pur svolgendo un’attività pubblicistica ed essendo conseguenzialmente sottoposto alla vigilanza ministeriale e al controllo della Corte dei conti, ha la qualificazione giuridica di ente privato e come tale si presenta all’esterno (Cass., Sez. un., ord. 12 dicembre 2019, n. 32608 – Pres. Virgilio, Rel. Giusti).
[62] Da ultima la suprema Corte ha sancito che «sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in ordine all’azione risarcitoria proposta nei confronti dell'amministratore di una società mista con partecipazione maggioritaria pubblica che sia concessionaria di servizi pubblici, allorquando la condotta del detto amministratore abbia cagionato un danno diretto ed immediato all’ente pubblico partecipante alla società correlato al mancato assolvimento degli obblighi nascenti dal contratto di concessione, potendosi configurare il concorso tra l’illecito contrattuale della società e quello extracontrattuale dell’amministratore, purché tra l'inadempienza della società ed il comportamento di chi abbia esercitato le funzioni di organo gestorio esista un nesso di causalità necessaria». Cass. Sez. un., 5 dicembre 2019, n. 31755, in Mass. Giust. Civ., 2020.
[63] Non a caso è scomparsa dalla versione originaria della norma ogni riferimento al danno diretto. Rispetto alla precedente formulazione rileva l’eliminazione dal comma 1, dell’avverbio “direttamente” visto. Così M.T. Polito, Il controllo e la giurisdizione della Corte dei conti, in F. Fimmanò – A. Catricalà, cit. 535.
[64] Si afferma così espressamente la giurisdizione della Corte sul danno all’immagine che consiste nella lesione del diritto alla propria identità personale, al proprio buon nome, alla propria reputazione e credibilità, in sé considerate, tutelato dall’art. 97 Cost. che si verifica a seguito della diffusione mediatica della notizia del fatto illecito di un impiegato o amministratore pubblico che si traduce in un vero e proprio «danno sociale». L’interesse al buon nome e all’onorabilità dell’amministrazione è venuto specificamente in rilievo a seguito della legge 7 giugno 2000, n. 150, recante la disciplina dell'attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni, che impone alle stesse di rappresentare all'esterno un'immagine positiva. Cfr. F.Cerioni, Trasparenza nelle società controllate, funzionalizzazione pubblica e responsabilità erariali, in F. Fimmanò – A. Catricalà, Le società pubbliche, cit., 949 s.
[65] Cass., Sez. un., 17 aprile 2014, n. 8927, richiamata in F. Cerioni, op. cit., 969, che rileva come la legittimazione straordinaria del pubblico ministero contabile, garantita dalle diverse disposizioni succedutesi nel tempo in tema di contabilità pubblica, non ha mai precluso alle pubbliche amministrazioni, danneggiate da atti e comportamenti dei propri dipendenti, di agire in sede civile per il risarcimento dei danni ovvero, nei casi di commissione di reati, di costituirsi parte civile nei relativi procedimenti penali. In argomento cfr. pure T. Miele, La responsabilità contabile concorrente, cit., 450 s.
[66] D’altra parte anche l’azione penale può essere una terza incomoda. Ipotizziamo che il curatore preferisca l’azione civile alla costituzione di parte civile per un processo di bancarotta impropria ad opera degli organi sociali della società in house, ed al contempo il procuratore della Corte dei conti esercizi l’azione erariale, ciò non toglie che l’eventuale sequestro penale ad esempio per fatti distrattivi si converta in una confisca di beni degli amministratori altrimenti destinati alla massa attiva della procedura concorsuale. F. Fimmanò - A. Laudonia, La responsabilità penale degli organi di società a controllo pubblico, in F. Fimmanò – A. Catricalà, cit. 635 s.
[67] Sentenza a sezioni unite del 13 settembre 2018 n. 22406, in Società, 2019, 67 s. con nota F. Fimmanò, Le Sezioni Unite cit.
[68] Trib. Napoli, Sez. Impr., 7 dicembre 2019, cit.
[69] Corte conti, Sez. giur. Reg. Campania, 8 giugno 2016 n. 329, Presidente Santoro rel. Barretta, inedita.
[70] Corte conti, I Sez. giur. centrale di appello, 4 agosto 2017, Presidente Rotolo rel. Tommasini, inedita.
[71] Anche se già da tempo avevamo avuto modo di delineare questo assetto: F. Fimmanò, Le società pubbliche in house providing tra disciplina del soggetto e disciplina dell’attività, cit. 1135 s..
[72] I dirigenti o funzionari responsabili dell’unità amministrativa preposti all’espletamento dell’istruttoria e alla formulazione della proposta operativa che, pur non essedo titolari del formale potere di rappresentanza in seno agli organi societari, abbiano comunque esercitato una influenza determinante nel percorso decisionale che ha poi eziologicamente portato alla condotta o all’atto dannoso. O ancora l’organo politico-istituzionale (es. Sindaco, Presidente, Assessore, Giunta, Consiglio) che, sia nell’esercizio di potere formale sia proprio che delegato (es. attraverso un atto di indirizzo formalizzato) o anche solo di un potere concreto e sostanziale (es. attraverso indirizzi non formalizzati ma comunque impartiti in forza del peso politico rivestito, che abbiano integrato una concreta ingerenza, quand’anche indebita o illecita, nelle competenze degli uffici e funzionari prepositi), abbia impartito, in via di diritto o anche di mero fatto, disposizioni e direttive atte ad orientare in modo determinante le decisioni assunte dall’ente pubblico partecipante nell’esercizio dei poteri spettantigli in seno alla società partecipata. Sul tema cfr. D. Morgante, Le azioni di responsabilità relative alle società a partecipazione pubblica nel testo unico, in F. Fimmanò – A. Catricalà – R. Cantone, op. cit., 895).
[73] D’altra parte il pubblico ministero contabile è ampiamente legittimato ad agire in sede civile per il risarcimento dei danni ovvero, nei casi di commissione di reati, di costituirsi parte civile nei relativi procedimenti penali nell’interesse dell’amministrazione danneggiata da atti e comportamenti dei propri dipendenti.
[74] In tal senso anche D. Morgante, op.cit., 897 s.; L. Imparato, La revoca degli amministratori pubblici. Nota a sentenza n. 7063/2013 resa dal Tribunale di Napoli, in Gazzetta Forense, 2013,V, 37 s.
[75] Nel caso preso in esame dalla giurispudenza di merito citata, il curatore ha esercitato l’azione solo nei confronti dell’ente che ha abusato dell’attività di eterodirezione e non di tutti coloro che avevano preso parte al fatto lesivo (ossia gli organi sociali ed i rappresentanti dell’ente). Al contrario il procuratore della Corte dei Conti ha agito solo nei confronti dei rappresentanti dell’ente che evidentemente non potevano eterodirigere senza la «complicità» degli organi sociali che avevano attuato le direttive. Viceversa entrambe le azioni avrebbero potuto, e per quella erariale dovuto, riguardare tutti. Chiaramente all’epoca dei fatti e delle azioni il quadro ricostruttivo non era chiaro come lo è oggi sia sul piano normativo che gurisprudenziale e, come si e detto, emerge la centralità del sistema della responsabilità da abuso del dominio nella fenomenologia delle società pubbliche ed in particolare di quelle insolventi.
[76] Trib. Napoli, Sez. Impr., 7 novembre 2019, cit.
[77] Casistica che abbiamo stigmatizzato da anni F. Fimmanò, Le società pubbliche in house providing tra disciplina del soggetto e disciplina dell’attività, cit., 1135 s.; e prima ancora Id., Le società di gestione dei servizi pubblici locali, in Riv. not., 2009, 897 s.
[78] In argomento vedi C. Ibba, I. Demuro, La crisi d’impresa, in Le società a partecipazione pubblica, diretto da C. Ibba e I. Demuro, Zanichelli, 2018, 321 ss.; G. Guizzi - M. Rossi, La crisi di società a partecipazione pubblica, in La governance delle società pubbliche nl d.lgs. n. 175/2016, a cura di G. Guizzi, Milano, 2017, 271 ss.; F. Guerrera, Crisi e insolvenza delle società a partecipazione pubblica, in Giur. comm., 2017, I, 371 ss.; V. Chionna, Le soluzioni concordate della crisi delle società pubbliche, in Le “nuove” società partecipate e in house providing, a cura di S. Fortunato e F. Vessia, Milano, 2017, 213 ss.; L. Stanghellini, Art. 14, in Codice delle società a partecipazione pubblica, a cura di G. Morbidelli, Milano, 2018, 332; F. Fimmanò, Insolvenza delle società pubbliche, strumenti di allerta e prevenzione, piani di risanamento, in Le società pubbliche, a cura di F. Fimmanò - A. Catricalà, II, Napoli, 2017, 687 ss.; G. Racugno, Crisi d’impresa di società a partecipazione pubblica, in Riv. soc., 2016, 1144 ss.; Id., Crisi d’impresa delle società a partecipazione pubblica e doveri degli organi sociali, in Giur. comm., 2018, I, 195 ss.; G. D’Attorre, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica, in Le società pubbliche, cit., 673 ss.; Id., I piani di risanamento e di ristrutturazione nelle società pubbliche, in Fallimento, 2018, 139 ss.
[79] Cfr. M.S. Spolidoro, Procedure di allerta, poteri individuali degli amministratori non delegati e altre considerazioni sulla composizione anticipata della crisi, in Riv. soc., 2019, 253 ss.; F. Benazzo, Il Codice della crisi d’impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario, in Riv. soc., 2019, 274 ss.; A. Guiotto, I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, in Fallimento, 2018, 171 ss.; S. De Matteis, L’emersione anticipata della crisi d’impresa, Milano, 2017.
[80]Una sorta di efficientamento ex ante della gestione della crisi. In questi casi la mancata adozione di provvedimenti adeguati, da parte dell’organo amministrativo, costituisce grave irregolarità ai sensi dell’articolo 2409 del codice civile. (G. Racugno, Crisi d’impresa delle società a partecipazione pubblica, cit., 206, secondo cui l’art. 2409 c.c. ricomprende tra i doveri degli amministratori anche il dovere di monitorare l’equilibrio finanziario dell’impresa). Uno strumento di allerta e prevenzione che diventa persino un onere della pubblica amministrazione prima che una prerogativa e che introduce una irregolarità gestionale «tipica» ai fini del controllo giudiziario del Tribunale rappresentata dalla mancata adozione di programmi di valutazione del rischio.
[81]Le pubbliche amministrazioni infatti non possono con la nuova disciplina, salvo quanto previsto dagli articoli 2447 e 2482-ter del codice civile, effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate, con esclusione delle quotate e degli istituti di credito, che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Il “piano di risanamento”, previsto dal comma 2 dell’art. 14 Tusp, ed il “piano di ristrutturazione aziendale”, previsto dal comma 4, nella sostanza sono due articolazioni del medesimo strumento che in base al contenuto ed alle modalità di approvazione comportano effetti conseguenti alla relativa predisposizione. In argomento cfr. G. D’Attorre, I piani di risanamento e di ristrutturazione nelle società pubbliche, in Fallimento, 2018, 143; L. Stanghellini, Art. 14, 344; contra G. Guizzi - M. Rossi, La crisi, cit., 304, secondo cui i piani di ristrutturazione di cui al comma 4 sono una species del più ampio genus dei piani di risanamento contemplati nel comma 2.
[82] A supporto di tale affermazione, l’intera argomentazione svolta nel motivo di ricorso si articola su alcuni estratti della relazione del Commissario straordinario, parzialmente trascritti nel ricorso, dai quali, tuttavia, non emergono descrizioni di specifiche condotte imputabili direttamente ed esclusivamente al Ministero. Tale carenza espositiva è parzialmente emendabile, secondo la Cassazione, soltanto ricorrendo alla lettura della motivazione della sentenza impugnata, in cui sono, infatti, descritte le condotte illecite che, in relazione all'art. 2497, comma 1, c.c., venivano ascritte al MEF, nell'atto di citazione della Caputo, introduttivo del giudizio di primo grado: a) illegittima concessione di garanzia statale per l'ottenimento di ulteriori finanziamenti a favore della impresa in crisi; b)rifinanziamento abusivo della società, mediante la postergazione della scadenza delle obbligazioni; c) concessione abusiva, per due volte, di “prestiti ponte”; d) avere indotto gli amministratori della società a non adempiere ai doveri inerenti la conservazione della integrità del patrimonio aziendale; e) approvazione di bilanci di esercizio nonostante l’assenza di continuità aziendale; e) avere obbligato Alitalia ad operare sul mercato, dopo la cessione della partecipazione di controllo, dismessa dal MEF nel 2005, pure in assenza di un piano industriale e con componenti del Consiglio di amministrazione - nominati dal MEF - sprovvisti di competenze tecniche in materia di trasporto aereo.
[83] D.l. 23 aprile 2008 n. 80, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 giugno 2008, n. 111.
[84] Normativa pubblicata in Fallimento, 2008, 115 con nota di G.Lo Cascio, Insolvenza Alitalia: nuova versione dell’amministrazione straordinaria. In tema cfr. M. Fabiani-L. Stanghellini, La legge Marzano con le ali, ovvero della volatilità dell’amministrazione straordinaria, in Corr. Giur.,2008, 1337. In tema anche F. Angiolini, L’esenzione da revocatoria nel decreto Alitalia, in Le società pubbliche (a cura di F. Fimmanò, cit., 725 s.
[85] “Al fine della tutela del risparmio i piccoli azionisti ovvero obbligazionisti di Alitalia-Linee aeree italiane S.p.A., che non abbiano esercitato eventuali diritti di opzione aventi oggetto la conversione dei titoli in azioni di nuove società, sono ammessi ai benefici di cui all'articolo 1, comma 343, della legge 23 dicembre 2005, n. 266. La norma di legge che prevedeva la misura indennitaria, demandandone l’attuazione ad apposito DPCM, è stata successivamente abrogata e sostituita dalla disciplina introdotta dall’art. 7 octies, del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito con modificazioni dalla L. 9 aprile 2009, n. 33 (originariamente destinata agli obbligazionisti e poi estesa anche agli azionisti, dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2009, n. 102), che ha attribuito ai titolari di obbligazioni e di azioni della società il diritto di cedere al Ministero dell’economia e delle finanze i propri titoli per un controvalore determinato “sulla base del prezzo medio di borsa delle obbligazioni nell'ultimo mese di negoziazione, pari ad euro 0,262589 per singola obbligazione, corrispondente al 70,97% del valore nominale" ovvero "sulla base del prezzo medio di borsa delle azioni nell'ultimo mese di negoziazione, ridotto del 50 per cento, pari a 0,2722 euro per singola azione”, in cambio di titoli di Stato di nuova emissione, rimborsabili alla scadenza dalla Banca d'Italia a valere sulle risorse del predetto fondo istituito presso il MEF il quale, con la cessione dei titoli, viene a subentrare automaticamente “in tutti i connessi diritti, anche nei confronti della societa' e della procedura di amministrazione straordinaria, nonchè nelle relative azioni, anche in quelle formulate in sede giudiziaria”.
[86] L’unica specifica contestazione di illecito concerne l’approvazione, con la delibera assembleare in data 28.6.2008, del progetto di bilancio predisposto dal CdA in data 26.5.2008, in seguito alla concessione del prestito ponte di € 300 milioni accordato con D.l. n. 80/2008.
[87] Cfr. Cass., n. 11151 del 26/10/1995; Cass., n. 9353 del 11/06/2003; Cass., n. 27387 del 12/12/2005; Cass., n. 26842 del 07/11/2008; Cass., n. 1361 del 20/01/2011; Cass., 21 n. 9680 del 22/04/2013.
[88] Tribunale di Milano, Sez. Impresa “B”, 27 febbraio 2019, in Società, 2019, 999 ha infatti affermato che “l’attività che viene in considerazione ai fini dell’applicazione dell’art. 2497 c.c. è quella che interferisce con la gestione dell’impresa, mentre resta estraneo all’attività di direzione e coordinamento rilevante ai sensi di detto articolo l’esercizio delle prerogative inerenti al rapporto di controllo in sede assembleare, dove le tutele del socio di minoranza si sostanziano nei poteri di impugnativa delle delibere ex artt. 2377 e 2379 c.c.”.
[89] Può essere realizzato nelle forme più diverse: dalla ingerenza nella nomina dei componenti degli organi esecutivi della società eterodiretta, ad accordi di natura contrattuale tra le società aventi ad oggetto modalità di azioni che la eterodiretta dovrà tenere nel proprio settore commerciale; dalla realizzazione di un sistema interconnesso di trasmissione ed acquisizione di conoscenze di dati ed informazioni, alla emissione di specifiche direttive ed alla assegnazione di targets che dovranno essere recepiti da parte degli organi esecutivi della eterodiretta e tradotti in programmi ed atti gestionali; dall'accentramento delle decisioni sulle dimensioni operative delle singole eterodirette, alla redistribuzione tra le società del Gruppo dei finanziamenti ottenuti dalla sovraordinata, etc.
[90] In realtà la riforma del diritto delle società ha accentuato questa caratteristica inibendo agli azionisti, o meglio all’assemblea, qualsiasi forma di “intrusione” nell’attività gestoria. Il socio normalmente non può neppure monitorare la gestione, avendo solo il diritto di voto, di impugnare le delibere, e in caso di partecipazione qualificata, di chiedere la convocazione dell’assemblea, di denunciare eventuali sospetti di irregolarità al collegio sindacale e\o al tribunale. Per la società per azioni l’unico eventuale “luogo” per l’esercizio del controllo sui servizi è stato il contratto di affidamento dei servizi, dove l’ente, azionista ed appaltante, può effettivamente imporre, in via parasociale, modalità, termini e condizioni così stringenti ed unilaterali, da generare la configurazione di un effettivo controllo analogo a quello effettuato sui propri servizi.
[91] La giurisprudenza di merito ha affermato che sarebbe possibile in linea di principio l’adeguamento degli statuti delle società a capitale pubblico finalizzato a consentire un controllo da parte degli enti pubblici titolari del capitale sociale analogo a quello dai medesimi esercitato sui propri servizi se le modificazioni introdotte sono unicamente finalizzate a consentire agli enti pubblici soci, sia collettivamente che individualmente, un potere di controllo concreto circa l’organizzazione delle attività e le erogazioni dei servizi affidati alla società, come consentito dall’art. 2364 n. 5 c.c., rimanendo attribuiti al Consiglio di Amministrazione tutti i poteri di amministrazione e gestione della società, in conformità con la previsione dell’art. 2380 bis c.c., ed al Collegio Sindacale le prerogative di cui agli artt. 2403 e 2403 bis c.c. (Trib. Mantova 8 maggio 2007, in ilcaso.it, 2007). Tuttavia a nostro avviso questo controllo sarebbe insufficiente ad integrare il requisito della delegazione interorganica.
[92] E ciò a prescindere dalla legittimità nelle s.p.a. di patti che contemplino un potere invasivo diretto a togliere autonomia agli amministratori in violazione dei criteri di corretta gestione societaria.
[93]A. Restuccia, I patti parasociali (della società a partecipazione mista pubblico privata),ai fini del controllo societario e del controllo analogo, in AA.VV., Le società pubbliche,a cura di F. Fimmanò - A.Catricalà - R. Cantone, cit. 485 s. Più nel dettaglio, è prevista la utilizzabilità di patti parasociali «senza limiti di tempo al fine del raggiungimento dei requisiti del controllo analogo» (art. 16 del testo unico), ovvero «nelle società a partecipazione mista pubblico-privata per tutta la durata della partecipazione del socio privato alla società» (art. 17 del testo unico).
[94] Una certa giurisprudenza di merito ha ritenuto che il Testo Unico non legittima la limitazione dei poteri/doveri degli amministratori alla ordinaria amministrazione: l'art. 1, comma 3, prevede la facoltà di derogare al diritto societario solo se espressamente previsto; l’influenza che il socio pubblico esercita sulla in house si estrinseca sotto il profilo dell’alta amministrazione e non annulla l’autonomia gestionale ed esecutiva dell'organo amministrativo della in house; la limitazione del potere degli amministratori all’ordinaria amministrazione andrebbe a ledere il naturale parallelismo tra potere e responsabilità e porterebbe ad un’irresponsabilità degli amministratori per l’attività gestoria (Trib. Roma, 2 luglio 2018, in Giur. comm., 2020, 187, con nota di P. Pettiti, Agli amministratori della in house spetta la gestione dell'impresa).
[95] Per alcuni versi assimilabile a quanto previsto dal legislatore all’art. 2050 c.c. per l’esercizio di attività pericolosa. Si è tuttavia affermato che la prova liberatoria prevista nella disposizione, comportando una valutazione della condotta del soggetto agente, ricondurrebbe la fattispecie entro uno schema di imputazione soggettiva (per culpa lievissima) e non oggettiva. C. Castronovo, voce Responsabilità oggettiva, in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma 1991,4; C. Salvi, La responsabilità civile, in Tratt. dir. priv., II ed., a cura di G. Iudicia e P. Zatti, Milano, 2005, 149.
[96] Mi permetto sul problema di rinviare a F. Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nelle società per azioni, Milano, 2008, 12 s.
[97] In un altro caso recente il tribunale di Palermo ha riconosciuto invece la responsabilità dell’ente pubblico su una società in house in cui si contestavano degli specifici contegni riguardanti oneri derivanti dalla stabilizzazione di un gran numero di lavoratori socialmente utili precari in forza ad una controllata (deliberata dalla controllante ed imposta dal Comune) nonché gli effetti della riduzione transattiva di crediti vantati dalla società nei confronti del Comune e da quest’ultimo non riconosciuti, imposta alla Società dal socio unico in occasione di una ricapitalizzazione ed infine la irragionevole cessione dei crediti vantati verso l’ente, paradossalmente incentivata dallo stesso soggetto inadempiente (Trib. Palermo, Sez. Impr., V civile, 28 aprile 2021).
[98] Cfr. Cass. Sez. 1, n. 1439 del 26/02/1990, che specifica come “La direzione unitaria si differenzia dal semplice controllo, in quanto quest'ultimo costituisce una situazione potenziale di esercizio di influenza dominante, mentre per l'esistenza del gruppo è necessario l'esercizio effettivo di detta potenzialità. Inoltre la direzione unitaria del gruppo, ancorché alla sua base vi sia il fenomeno del controllo, si evolve rispetto ad esso con una diversificazione qualitativa, se non altro perché il controllo è un fenomeno che può riguardare un'unica controllante ed unica controllata, mentre la direzione unitaria del gruppo ha come caratteristica essenziale la pluralità delle controllate, coordinate dall'unica controllante in un'organizzazione imprenditoriale complessa (dal punto di vista economico)...." (Conforme Cass. n. 15346 del 25/07/2016).
[99] Intesa come “manifesta inavvedutezza ed imprudenza”: da valutare, dopo la modifica dell'art. 2392 c.c. operata in seguito alla riforma del Dlgs n. 6/2003, alla stregua dell'art. 1176, comma 2, c.c.
[100] Cass. n. 3652 del 28/04/1997; Cass. n. 3409 del 12/02/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 1783 del 02/02/2015; Cass. n. 17441 del 31/08/2016; Cass., 15470 del 22/06/2017.
[101] Cass., n.1045 del 17/01/2007.
[102] Esercitata dal MEF, nell'ambito dei poteri e diritti ad esso affidati ai sensi degli artt. 2 - 4 del D.l. 31 maggio 1994 n. 332 convertito con modificazioni dalla L. 30 luglio 1994, n. 474 - vigente al tempo.
[103] Secondo la Cassazione i ricorrenti avrebbero, almeno, dovuto indicare: a) se gli amministratori avevano negligentemente omesso di acquisire ulteriori e decisive informazioni di mercato che avrebbero palesato un quadro operativo di settore del tutto diverso da quello sul quale erano state fondate le scelte previsionali;
b) ovvero se, pure correttamente acquisiti tutti gli elementi necessari alla rappresentazione della situazione di mercato, questi poi erano stati valutati in modo macroscopicamente imprudente, ossia accettando un rischio di perdite strutturali incompatibile con la conservazione del patrimonio sociale; c) o ancora se - attesi gli indicatori della situazione economica e finanziaria dell’azienda e le previsioni di mercato- l’unica soluzione possibile, che avrebbe evitato un depauperamento del patrimonio societario, era quella di procedere anticipatamente alla liquidazione od al commissariamento della società.
[104]
Sull’uso fatto dal legislatore della teoria dei cosiddetti «vantaggi
compensativi» nel novellato art. 2497 c.c., cfr. V. Cariello, Sub art.
[105] Così L. Rovelli, Clausole generali e diritto societario: applicazione in tema di gruppi, leveraged buy out, motivazione delle delibere, in Tratt. Contratto, a cura di Roppo, VI, Milano, 2006, 755.
[106] Come noto la Relazione illustrativa alla riforma (par. 13) si esprime nel senso della natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 2497 c.c., anche se ciò non ha alcun carattere vincolante per l’interprete (in tal senso F. Galgano, Il nuovo diritto societario, Tratt. dir. comm., XXIX, Padova, 2003, 186; Id., Direzione e coordinamento di società, in Commentario Scialoja – Branca, Bologna 2005, 92 s.; Id., I gruppi nella riforma delle società di capitali, in Contr. imp., 2003, 103; A. Bassi, La disciplina dei gruppi, in Bassi, Buonocore, S. Pescatore, La riforma del diritto societario, Torino, 2003, 202; M. Maggiolo, L’azione di danno contro la società o ente capogruppo, cit., 191). V’è chi in dottrina ha richiamato, per la responsabilità da influenza determinante e pregiudizievole, lo schema della induzione all’inadempimento (G. Scognamiglio, Danno sociale e azione individuale cit., n. 10). Cfr. anche In questo senso già Trib. Orvieto, 4 novembre 1987, nel caso Autovox, in Giur. it. 1988, I, 2, 501 e in Giur. comm. 1989, II, 804 s. (su cui cfr anche F. GALGANO, Responsabilità della società controllante per la pregiudizievole influenza esercitata sulla società controllata, in Contr. impr., 1988, 359 s.) e Trib. Alba 25 gennaio 1995, nel caso Sisvel c. Thomson Consumer Electronics SA, in Società, 1995, 1073 s., con Commento di Schiano di Pepe, 1077 s.
[107]
Una giurisprudenza di merito ha affermato con riferimento alla responsabilità
verso il creditore ex art. 2497 c.c.
che la lesione dell’aspettativa di prestazione sarebbe annoverata nella più
generale figura della lesione del credito, che ricorre non soltanto quando il
fatto doloso o colposo altrui abbia determinato l’estinzione del credito, ma
anche quando l’aspettativa del creditore sia vulnerata, pur non venendo
definitivamente meno la possibilità per il debitore di esigere nel futuro le
proprie prestazioni. La clausola generale dell’art. 2043 c.c. ben si
presterebbe a fornire tutela aquiliana nell’ipotesi di concorso del terzo
nell’altrui inadempimento (Trib. Napoli, 26 maggio
[108] In questo senso già prima della riforma, e anche sulla base della nuova disciplina dei gruppi bancari: V. Allegri, Contributo allo studio della responsabilità civile degli amministratori, Milano 1979, 188; P. Abbadessa, I gruppi di società nel diritto italiano, in I gruppi di società, a cura di A. Pavone La Rosa, Il Mulino, Bologna 1982, p. 144; G. Scognamiglio, La responsabilità della società capogruppo: problemi ed orientamenti, in Riv.dir.civ.; 1988, 365; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, IV, Torino 1999, 409 s.; B. LIBONATI, La responsabilità nel gruppo, in Riv. dir. comm. 1995, I, 592.
[109] La stessa dottrina che teorizza la natura
extracontrattuale, consapevole dei relativi limiti, ha affermato che quando
l’abuso assume forme tali da impedire l’individuazione di singoli comportamenti
pregiudizievoli, a cui corrispondono specifici danni per le controllate -
essendo impossibile in questo caso ricorrere alla fattispecie della
responsabilità extracontrattuale - dovrà immaginarsi l’esistenza di un gruppo
solo apparente, rendendo direttamente responsabile la controllante per le
obbligazioni delle apparenti controllate (F. Galgano,
Il nuovo diritto societario, cit.,
108). La Suprema Corte in materia di diritto del lavoro, ha, invece,
riconosciuto la c.d. «finzione di gruppo», quando le società dello stesso
gruppo d’imprese appartengono ai medesimi soggetti e vengono costituite allo
scopo di aggirare la normativa in tema di licenziamento individuale laddove
sussistano elementi per ravvisare l’esistenza di un unico centro di imputazione
del rapporto di lavoro (Cass., sez. lav., 23 marzo 2004, n.
[110] Così già M. Miola, Il diritto italiano dei gruppi de iure condendo; i gruppi e i creditori, in Giur. comm., 1996, I, 409; P.G. Jaeger, Direzione unitaria di gruppo e responsabilità degli amministratori, in Riv. soc., 1985, 817 s.
[111] Trib. Milano, 22 gennaio 2001, cit., 2001, 1143 che correttamente già rilevava che se le relazioni fra controllante e controllata non sono semplici relazioni di mero fatto è perché si può riconoscere che la responsabilità contrattuale può derivare non necessariamente dalla violazione di un contratto ma semplicemente dalla violazione di una obbligazione preesistente. L’obbligazione preesistente è rappresentata proprio dai doveri connessi alla rilevanza del gruppo e all’esercizio della direzione unitaria. La società controllante quando esercita la direzione unitaria si pone in un rapporto di relazione soggettiva con la società controllata e si assume l’obbligazione di realizzare l’interesse del gruppo tramite la realizzazione degli interessi delle società controllate. La controllante che si assume la direzione unitaria è tenuta alla osservanza di precisi doveri di correttezza nei confronti della controllante, doveri cui corrispondono delle vere e proprie obbligazioni coercibili (si pensi alla doglianza correlata al mancato esercizio di una politica di gruppo), che possono risultare inadempiute o perché non attuate o perché attuate male, quando la direzione unitaria viene esercitata abusivamente (nella specie la controllante aveva continuato ad alimentare la controllata mantenendola in attività, nonostante il suo stato di liquidazione per perdita del capitale sociale).
[112] Cfr. in tal senso C. Salvi, voce “Responsabilità extracontrattuale (dir. vig.)”, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 1190.
[113] Così S. Giovannini, La responsabilità per attività di direzione e coordinamento cit., 116 s.
[114] Il sistema della responsabilità per inadempimento è governato da una norma di carattere generale, contenuta nell’art. 1218 c.c. (dettato sotto il titolo obbligazioni in generale), e da un consistente numero di regole particolari dettate dal codice e da leggi di settore per la disciplina di singoli tipi di rapporti contrattuali. Per una lettura evolutiva G. Di Giandomenico, La lesione del rapporto giuridico, in Riv. dir. comm., 2008, 645 s.
[115] L. Rovelli, op.cit., 755, il quale ricorda che si tratta di responsabilità che «nella definizione di Gaio (II delle Institutiones), discende da variae causarum figurae, che i bizantini avrebbero volentieri definito quasi contrattuale».
[116] Una recente giurisprudenza di merito ha sostanzialmente aderto a questa nostra impostazione che era sicuramente minoritaria in dottrina affermando che la responsabilità in oggetto «ha carattere diretto e natura contrattuale, presupponendo un preesistente dovere di protezione avente contenuto definito posto a carico della società dirigente verso la società diretta ed i suoi soci» (così, Trib. Milano, 17 giugno 2011 in Le società, 2012, 3, con nota di H. Simonetti, Natura e condizioni dell’azione di responsabilità nei confronti della capogruppo). Si è affermato che la prova liberatoria prevista nella disposizione, comportando una valutazione della condotta del soggetto agente, ricondurrebbe la fattispecie entro uno schema di imputazione soggettiva (per culpa lievissima) e non oggettiva (C. Castronovo, voce Responsabilità oggettiva, in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma 1991,4; C. Salvi, La responsabilità civile, in Tratt. dir. priv., II ed., a cura di Iudica e Zatti, Milano, 2005, 149).
[117]
Cass., 6 marzo 1999, n.
[118]
Cfr. al riguardo M. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma
societaria fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, in Società, 2003, 331; P. Abbadessa, La responsabilità della società capogruppo verso la società abusata:
spunti di riflessione, in Banca,
borsa, tit., 2008, I, 291; V. Cariello, op.cit., 1245; G. Scognamiglio, Poteri e doveri degli amministratori nei gruppi di società dopo la
riforma del
[119] Nel senso della natura extracontrattuale, invece, G. Sbisà, Sub art. 2497 c.c., nella prima parte di questo volume (cui si rinvia); Id., Sulla natura della responsabilità da direzione e coordinamento di società, in Contr. impr., 2009 807 s.; Id., Responsabilita` della capogruppo cit., 605 s.; S. Patti, Direzione e coordinamento di società: brevi spunti sulla responsabilità della capogruppo, in N. giur. civ. comm.,2003, II, 357; F. Galgano, Direzione e Coordinamento di società, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna- Roma, 2005, 95 s.; Id., Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, vol. XXIX, 1, terza ed., Padova 2006, 320 s.; G. Alpa, La responsabilità per la direzione e il coordinamento di società. Note esegetiche sull’art. 2497 cod. civ., in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 661; L. Panzani, L’azione di responsabilità ed il coinvolgimento del gruppo di imprese dopo la riforma, in Società, 2002, 1477 s.; A. BASSI, La disciplina dei gruppi, in La riforma del diritto societario a cura di V. Buonocore, Torino 2003, 201; C. Conforti, La responsabilità civile degli amministratori di società, I, Giuffrè, Milano 2003, 193 s.; V. SALAFIA, La responsabilità della holding nei confronti dei soci di minoranza delle controllate, in Società, 2003, 390 s.G. BIANCHI, Gli amministratori di società di capitali, Padova 2006, 536; E. MARCHISIO, Note sulle azioni di responsabilità ex art. 2497 c.c., cit, 225 s. Nel senso infine della natura contrattuale della responsabilità verso i soci ed extracontrattuale di quella verso i creditori C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 160.
[120] Si è evidenziato che il recesso può assolvere diverse funzioni tra le quali vi è anche quella di reazione di fronte ad un inadempimento contrattuale. E mentre le altre ipotesi di recesso previste nella medesima norma (così come quelle elencate all’art. 2437 c.c.) rappresentano una tutela di fronte a modificazioni delle condizioni contrattuali imposte dalla maggioranza, il diritto di recesso ex art. 2497 quater, punto b), c.c., trova fondamento per la funzione di impugnazione del contratto, “ossia di reazione di fronte all’inadempimento contrattuale del dominus ed è, per tale ragione, accompagnato dall’ulteriore sanzione del risarcimento del danno cagionato dall'inadempimento stesso. Per la stessa ragione, inoltre, il recesso potrà essere esercitato solo per l’intera partecipazione del socio” (S. Giovannini, op. cit., 37). Sul tema cfr. da ultimo R. Pennisi, La disciplina delle società soggette a direzione unitaria ed il recesso nei gruppi, in Il nuovo diritto delle società, a cura di Abbadessa - Portale, cit, 889 s.