, 16 marzo 2025, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Stefano Ambrosini
Sommario: 1. La condivisa esigenza di una riscrittura dell’art. 2407 c.c.; 2. Il progressivo incremento dei poteri-doveri sindacali; 3. La struttura del nuovo art. 2407 c.c.; 4. L’esclusione delle condotte dolose; 5. La responsabilità per violazione di propri doveri e il vincolo di solidarietà; 6. La determinazione del danno risarcibile; 7. La prescrizione dell’azione e la non retroattività della novella.
1. La condivisa esigenza di una riscrittura dell’art. 2407 c.c.
La necessità di modificare il regime di responsabilità del collegio sindacale è stata negli anni diffusamente avvertita non solo, com’è chiaro, fra gli operatori professionali ma anche fra gli studiosi del diritto societario. E ciò soprattutto per via di effetti, da un lato, obiettivamente afflittivi per i sindaci in dipendenza della regola della solidarietà passiva con gli amministratori, dall’altro, a ben vedere, paradossali. L’art. 2407 vigente fino a pochi giorni fa infatti, come ebbe a osservare cinque lustri or sono Roberto Weigmann, significava, metaforicamente, questo: che se un custode colposamente omette di chiudere la porta e un ladro entra a rubare ambedue rispondono dell’intero danno mentre la gravità della colpa ha rilevanza solo nell’eventuale regresso fra i coautori.
A ciò si aggiunga la “postura” assunta in materia da una parte della giurisprudenza, che tutte le volte in cui prescindeva da quanto effettivamente compiuto od omesso dai sindaci convenuti in giudizio finiva per trasformare la loro (pur indubbia, in quanto consustanziale all’obbligo di vigilanza) posizione di garanzia in una responsabilità quasi oggettiva e in ogni caso troppo spesso disancorata dalle peculiarità del caso concreto; con il risultato di fare del collegio sindacale il “parafulmine” di situazioni nelle quali i veri (e comunque di gran lunga principali) responsabili, cioè gli amministratori, risultavano spesso incapienti, sicché azioni esperite solo nei loro confronti si sarebbero rivelate infruttuose.
Senza dire che i rischi connessi all’esercizio della carica sindacale e insiti nell’anzidetta responsabilità solidale, unitamente alla frequente inadeguatezza dei compensi, costituivano un disincentivo all’assunzione dell’incarico da parte dei professionisti più qualificati, dando luogo a situazioni connotate dalla ricerca “purchessia” di opportunità di lavoro (quando non da un’eccessiva e perniciosa propensione al rischio professionale) e generando in tal modo meccanismi di c.d. selezione avversa, con l’effetto di abbassare sia il livello dei controlli, sia il numero di soggetti muniti di coperture assicurative.
Da qui la necessità, posta in luce dalla relazione di accompagnamento alla proposta di legge n. 1276, presentata alla Camera il 4 luglio 2023, che i sindaci siano “sanzionati solo per ciò che abbiano effettivamente compiuto od omesso, sulla base di elementi e fatti conosciuti in quello specifico momento e non secondo troppo facili ricostruzioni ex post, provando la sussistenza e la presenza di ‘dolo specifico’, con una correlazione diretta della quantificazione del danno in sede civilistica”.
I tempi erano quindi maturi - e a onor del vero non da oggi - per una riscrittura della disciplina che non si limitasse a un inutile restyling ma che ne modificasse gli elementi portanti: tanto più che una serie di ordinamenti europei (ad esempio quelli olandese, polacco e slovacco) si erano nel frattempo attestati sul meccanismo del multiplo del compenso quale plafond della responsabilità dei soggetti preposti al controllo sulla gestione, mentre altre legislazioni (quelle tedesca, austriaca e belga) avevano optato per una soglia massima fissata una tantum in via normativa: ferme restando, naturalmente, le peculiarità del nostro collegio sindacale, che lo rendono a tutt’oggi, in termini comparatistici, sostanzialmente un unicum nel panorama giuridico dei Paesi occidentali ad economia avanzata.
2. Il progressivo incremento dei poteri-doveri sindacali
La modifica dell’art. 2407 va a inserirsi in un contesto normativo caratterizzato, specie negli ultimi anni, dalle (opportunamente) accresciute prerogative dell’organo di controllo. E siccome è ben noto che l’incremento dei poteri dei sindaci, trattandosi di poteri-doveri, comporta giocoforza un aumento delle loro responsabilità, la novella dev’essere accolta favorevolmente anche per tale ulteriore ragione, nell’ottica appunto di un ribilanciamento fra poteri e responsabilità idoneo a non disincentivare eccessivamente l’assunzione della carica sindacale.
Il pensiero va non tanto al potere di denuncia delle gravi irregolarità gestorie, da tempo previsto, quanto al sistema di segnalazioni (anche) interorganiche configurato dal codice della crisi, se è vero che l’organo di controllo societario deve segnalare per iscritto a quello amministrativo la sussistenza dei presupposti per l’accesso alla composizione negoziata e che la tempestività di questa segnalazione è valutata ai fini dell’attenuazione o dell’esclusione della responsabilità ex art. 2407 (art. 25-octies, commi 1 e 2, CCII). Al che si aggiungono, dall’esterno, le segnalazioni dei creditori pubblici qualificati, le quali vanno inviate “all’imprenditore e, ove esistente, all’organo di controllo, nella persona del presidente del collegio sindacale in caso di organo collegiale“ (art. 25-novies, c.1), nonché le segnalazioni provenienti dagli istituti bancari e dagli altri intermediari finanziari “agli organi di controllo societari” (art. 25-decies).
Se possibile ancor più pregnante, sotto il profilo che ci occupa, risulta la previsione di cui al secondo comma dell’art. 37, CCII, ai sensi del quale la domanda di apertura della liquidazione giudiziale è proposta - oltre che dal debitore, da uno o più creditori e dal pubblico ministero - dagli organi che hanno funzioni di controllo sull’impresa. E questa innovazione non può che essere accolta positivamente da chi, come chi scrive, aveva osservato già parecchi anni fa che “sarebbe stato opportuno che in occasione della riforma del sistema concorsuale questo principio venisse recepito claris verbis, attraverso l’introduzione di una norma che stabilisse in capo agli amministratori - e ai sindaci, ove i primi non provvedano - l’obbligo di rendere manifesto lo stato di decozione in cui la società sia venuta a trovarsi“.
Ma proprio questo progressivo, notevole ampliamento dei poteri-doveri sindacali doveva trovare un adeguato “contraltare” nella rimodulazione decrementale della responsabilità, ora infine introdotta dalla novella in esame.
3. La struttura del nuovo art. 2407 c.c.
La legge da ultimo varata dal Parlamento interviene incisivamente sulla disciplina della responsabilità del collegio sindacale, con novità che vanno salutate con complessivo favore.
Iniziamo tuttavia col porre in luce ciò che rimane invariato.
Il primo comma continua a prevedere che i sindaci devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico; e che essi sono responsabili della verità delle loro attestazioni, nonché tenuti a conservare il segreto su fatti e documenti di cui vengano a conoscenza a causa del loro ufficio. Si tratta, come è noto, di una responsabilità esclusiva del collegio sindacale, giacché in questi casi la produzione dell’evento dannoso è direttamente riportabile alla condotta dei sindaci a prescindere dalla sussistenza di un concorrente comportamento illecito da parte degli amministratori.
Parimenti immutato è il comma relativo all’applicabilità degli artt. 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis e 2395 all’azione di responsabilità promossa contro i sindaci. E dal mantenimento, all’interno di tale precetto, dell’inciso “in quanto compatibili“ si ricava la definitiva conferma della correttezza dell’assunto in base al quale l’istituto della revoca automatica degli amministratori ai sensi dell’art. 2393, c. 4, non trova applicazione con riferimento ai sindaci, stante il peculiare regime della loro revoca quale dettato dall’art. 2400.
La novità della recentissima riforma che va a incidere in corpore vili sulla materia in esame è data invece dalla riformulazione del secondo comma dell’art. 2407, dal momento che viene meno in toto la previsione secondo cui i sindaci sono solidalmente responsabili con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità agli obblighi della loro carica.
In luogo di essa si prevede ora che i sindaci che violino i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l’incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito: il copernicano ribaltamento di prospettiva risulta evidente nella sua portata “rivoluzionaria” rispetto al passato, al pari dei corollari applicativi che ne discendono (su cui v. infra), di la dal fatto che a essere limitata, a ben vedere, è la misura del danno risarcibile e non la responsabilità in sé e per sé considerata.
È stato infine aggiunto all’art. 2407 un ultimo comma, ai sensi del quale l’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive in cinque anni dal deposito della relazione ex art. 2429 relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno: il che va opportunamente ad allineare la disciplina di cui trattasi a quella sulla responsabilità del revisore legale, sanando così una (fin qui) non facilmente giustificabile disparità di trattamento.
4. L’esclusione delle condotte dolose
Il nuovo secondo comma dell’articolo 2407 chiarisce, in esordio, che la responsabilità dei sindaci opera al di fuori delle ipotesi in cui essi abbiano agito con dolo.
L’esclusione delle condotte dolose dal perimetro di applicazione della norma è evidentemente necessitata, dal momento che una limitazione quantitativa del danno risarcibile in tanto ha senso in quanto si tratti di responsabilità per colpa, non essendovi altrimenti la meritevolezza per fruire di un tale beneficio.
Non è invece menzionata la colpa grave, seppur di regola inserita, a livello sia legislativo che pattizio, nel binomio “dolo o colpa grave”. La ragione va probabilmente rintracciata nella volontà di evitare discussioni circa la gravità della colpa, in effetti sovente foriere di incertezze data la difficoltà di stabilire con esattezza l’intensità dell’elemento soggettivo.
Per effetto della novella, quindi, la limitazione della responsabilità opera anche se il comportamento dei sindaci è connotato da colpa grave. L’opzione adottata dal legislatore, seppur forse un po’ “sbilanciata”, ha se non altro il pregio della chiarezza, anche perché scongiura la tentazione - che altrimenti si sarebbe facilmente alimentata - di ricondurre “forzosamente” inadempienze non rilevanti nell’alveo della colpa grave al fine di scardinare il meccanismo limitativo della responsabilità. Certo, il nuovo regime risulta distonico, ad esempio, rispetto a quanto previsto dall’art. 2236 in tema di responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, la cui esclusione nell’ipotesi di problemi tecnici di speciale difficoltà è possibile, notoriamente, solo se il soggetto non versa in condizioni di dolo o, appunto, colpa grave.
Va poi rilevato come non sembri che l’area del dolo coincida del tutto con quella dei fatti di reato. Ed invero, possono darsi situazioni nelle quali i sindaci risultano responsabili per reati di natura colposa, qual è tipicamente la bancarotta semplice per aggravamento colposo del dissesto. In casi come questi non può in effetti escludersi la possibilità di invocare la limitazione di responsabilità a un multiplo del compenso, venendo in evidenza una condotta costituente bensì reato ma non una fattispecie illuminata dal dolo.
Ciò ha una precisa ricaduta sul versante della copertura assicurativa, dal momento che questa può considerarsi operante ogniqualvolta la relativa polizza escluda i comportamenti dolosi ma non anche, genericamente, gli illeciti di natura penale, essendovi appunto spazio per il risarcimento di sinistri derivati da reati colposi.
Il discorso tuttavia cambia quando venga evocata l’insidiosa figura del concorso del sindaco nella bancarotta fraudolenta a titolo di dolo eventuale, che ha talora registrato applicazioni connotate da una latitudine francamente eccessiva. Va nondimeno ricordato, in proposito, come la più attenta giurisprudenza penale ravvisi gli estremi della responsabilità dei sindaci “solo qualora emergano puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l’omissione del potere di controllo esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole volontà di agire anche a costo di far derivare dall’omesso controllo la commissione di illiceità da parte degli amministratori” (Cass. 20867/2021).
È noto, d’altra parte, come le procedure concorsuali che agiscono in responsabilità contro i sindaci nutrano comprensibili remore a invocare nei loro confronti, sic et simpliciter, fattispecie di reato, giacché, se è vero che ciò può agevolare sotto alcuni profili (tipicamente quello della durata del termine prescrizionale stante il disposto dell’articolo 2947), è altrettanto vero che una tale impostazione comporta il rischio della inoperatività della copertura assicurativa, specie quando questa escluda tout court fatti di reato.
Più in generale, sul piano della politica legislativa, l’esplicita, doverosa esclusione delle condotte dolose dal perimetro applicativo del nuovo art. 2407 ripropone l’urgenza di un intervento sul versante della disciplina penale, che tenga opportunamente conto tanto dei principi di matrice unionale, quanto del sostrato civilistico significativamente mutato ad opera del codice della crisi e adesso anche dal codice civile.
5. La responsabilità per violazione di propri doveri e il vincolo di solidarietà
Si è già detto come la responsabilità solidale con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi (con annesso giudizio “controfattuale”) abbia lasciato il posto alla responsabilità dei sindaci per i danni causati da condotte “che violano i propri doveri”.
Ciò tuttavia non deve trarre in inganno: già in precedenza i sindaci rispondevano per fatto proprio, cioè a titolo di culpa in vigilando (e a fortiori in caso di dolo), pur trattandosi di un concorso omissivo nel fatto illecito altrui (su quest’ultimo profilo cfr. Cass. 28357 e 28358/2020).
La profonda discontinuità risiede piuttosto nell’elisione del vincolo di solidarietà con gli amministratori, i quali continuano a rispondere dell’intero danno.
Se è vero infatti che in base alla nozione civilistica di solidarietà più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in di modo che ciascuno dei coobbligati può essere costretto all’integrale adempimento (e, specularmente, ciascun creditore ha diritto di agire per l’intera obbligazione), ebbene la riforma dell’art. 2407 ha precisamente l’effetto di spezzare questo legame, seppur attraverso la “leva” della limitazione di responsabilità.
E ciò pare confermato dalla lettura del concetto di solidarietà dell’obbligazione come necessariamente comprensivo della situazione in cui la condotta di ciascuno dei coobbligati sia da sola in grado di causare l’intero danno: il che certamente non può oggi dirsi per i componenti del collegio sindacale, a prescindere dal loro concorso causale (di tipo omissivo) nella produzione dell’evento.
Il punto merita certamente maggior approfondimento, stante la natura pur sempre concorrente della responsabilità dei sindaci con quella degli amministratori; anche se il possibile dibattito sulla persistenza o meno di un vincolo di solidarietà con gli amministratori o sulla riconfigurazione dell’obbligazione dei sindaci in termini di parziarietà appare connotato da una certa inanità, nella misura in cui il sistema del multiplo del compenso risulta per l’appunto idoneo a sciogliere gordianamente il nodo del quantum risarcibile, distinguendo in modo netto e definitivo la posizione dei controllori da quella dei gestori.
Come si diceva, ad ogni modo, ai fini della configurabilità della responsabilità sindacale resta imprescindibile quanto in passato - manco a dirlo - l’accertamento, in prima battuta, di una condotta illecita degli amministratori che sia risultata foriera di danno.
Va ancora segnalato come la norma intenda chiaramente equiparare, a scanso di ogni possibile equivoco, la situazione dei sindaci incaricati del solo controllo sulla gestione a quella di coloro che svolgano anche la funzione di controllo contabile: donde l’espressa precisazione che il precetto sulla limitazione di responsabilità opera “anche nei casi in cui la revisione legale è esercitata dal collegio sindacale a norma dell’articolo 2409-bis, secondo comma”.
Quanto infine all’esplicitazione dei soggetti legittimati ad agire in responsabilità (la società, i soci, i creditori e gli altri terzi), la loro elencazione, verosimilmente opportuna, era comunque evincibile già in passato dal richiamo di cui si diceva alle disposizioni sulle varie azioni di responsabilità esperibili contro gli amministratori.
6. La determinazione del danno risarcibile
Come già ricordato, la norma qui in commento è imperniata sulla responsabilità (recte: sulla misura del danno risarcibile) limitata a un “multiplo del compenso annuo percepito” (sebbene il codice, all’art. 2402, parli di “retribuzione annuale”: espressione che per uniformità si sarebbe potuta replicare nell’art. 2407).
E senza demandare la fissazione di tale multiplo a successive fonti normative la novella lo determina essa stessa secondo tre scaglioni: 15 volte per i compensi fino a 10.000 €, 12 volte per i compensi da 10.000 € a 50.000 €, 10 volte per i compensi superiori a 50.000 €. Si è quindi optato, convenientemente, per multipli che decrescono al crescere dell’ammontare dei compensi.
Ora, volendo esemplificare, se si calcola che il petitum delle azioni di responsabilità, prendendo a riferimento la media nazionale, si colloca sovente (escludendo i dissesti di grandi dimensioni) fra i 500.000 € e i 3.000.000 € e si ipotizza un compenso annuo di 50.000 €, il danno a carico dei componenti del collegio sindacale potrà in casi del genere venire liquidato in un importo comunque non superiore a 600.000 € ciascuno: il che equivale a dire che il sindaco in questione avrebbe prestato gratuitamente la propria opera per dodici anni. Esempio, quello appena riportato, che dovrebbe valere a porre in luce la tendenziale congruità delle soglie fissate dal legislatore.
Non sfugge poi che la legge, nell’utilizzare con riguardo al compenso l’aggettivo participiale “percepito”, sembra riferirsi all’ammontare concretamente corrisposto al sindaco.
In questo senso depone, in effetti, l’interpretazione strettamente letterale, trattandosi di espressione obiettivamente diversa da “riconosciuto”, “deliberato”, “previsto” o da altre analoghe.
Senonché una conclusione siffatta non risulta appagante. Basti infatti pensare, sotto il profilo dell’argomentum ab inconvenienti, agli escamotages ai quali una norma così interpretata si presterebbe: a cominciare dalla mancata corresponsione del compenso, in ipotesi giustificata dal momento di difficoltà attraversato dalla società, che sterilizzerebbe di per sé ogni azione risarcitoria nei confronti dell’organo di controllo (non essendo concretamente invocabile, dato il meccanismo della norma, il principio in base al quale la gratuità del mandato attenua la responsabilità senza escluderla).
D’altra parte, va sicuramente respinta una lettura secondo la quale la mancata percezione del compenso renderebbe inoperante la limitazione di responsabilità: e ciò per via delle conseguenze manifestamente illogiche e chiaramente contra rationem legis cui essa condurrebbe.
Appare dunque senz’altro preferibile leggere il vocabolo “percepito” nel senso di “deliberato dall’assemblea” (o, a seconda dei casi, “stabilito nello statuto”): e sono proprio queste le locuzioni che sarebbe stato preferibile adoperare, tanto più che esse risultano assai più coerenti alla volontà del legislatore quale emerge dalla già citata relazione alla proposta di legge presentata alla Camera, dove si legge testualmente che appare ragionevole “prendere come base di riferimento, per la determinazione dell’eventuale danno causato dall’organo di controllo, l’emolumento annuo deliberato a favore di ciascun componente” (corsivo aggiunto).
Rispetto al tenore di questa relazione, poi, non sembra sia stata recepita l’idea che i moltiplicatori in questione fossero “tra loro differenziati, a seconda che la società faccia o meno ricorso al mercato del capitale di rischio”. Laddove, ad esempio, sia in Polonia che in Slovacchia i multipli sono pari a 20 volte il compenso nelle società “normali” e pari a 10 volte nelle società di interesse pubblico (in cui le remunerazioni sono più elevate).
Non è per nulla sicuro, peraltro, che un’opzione siffatta, mutatis mutandis, sarebbe risultata migliore di quella concretamente adottata dal nostro legislatore.
La nuova norma infine si riferisce esclusivamente ai sindaci e non anche ai revisori, la cui responsabilità resta disciplinata dal d. lgs. n. 39/2010. Il che potrebbe integrare un profilo di ingiustificata disparità di trattamento rispetto al nuovo testo dell’art. 2407, tale da suggerire un intervento uniformante delle due discipline. E lo stesso rilievo sembra poter valere con riferimento alla disciplina dei controlli nei cc.dd. sistemi alternativi.
7. La prescrizione dell’azione e la non retroattività
della novella
Gli ultimi aspetti da toccare nell’ambito di questa primissima - e come tale fatalmente sintetica - rassegna di questioni attengono alla prescrizione dell’azione di responsabilità e al carattere non retroattivo della norma.
Quanto al primo profilo, l’ultimo comma dell’articolo 2407, introdotto ex novo, stabilisce che l’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive nel termine di cinque anni dal deposito della relazione di cui all’art. 2429 concernente l’esercizio in cui si è verificato il danno: con il che il regime della responsabilità sindacale viene opportunamente uniformato, da questo punto di vista, a quello dettato per i revisori.
Iniziamo con l’osservare che la norma non distingue fra condotte colpose o dolose, di tal che anche queste ultime rientrano, in linea di principio, nel suo perimetro di applicazione. Va nondimeno considerato che la portata di questo assunto risulta stemperata, in pratica, per via del disposto dell’articolo 2947, c. 3, ai sensi del quale, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile. Per regola generale, in ogni caso, la prescrizione rimane sospesa tra il debitore che ha dolosamente occultato occultato l’esistenza del debito e il creditore fino al momento in cui il dolo non sia stato scoperto (art. 2941, n. 8).
Va inoltre rilevato che la norma non distingue a seconda del tipo di azione di responsabilità, riferendosi teoricamente a ogni iniziativa risarcitoria promossa tanto dalla società quanto dai soci o dai terzi.
Tuttavia, occorre tener conto del principio in base al quale il termine di prescrizione non può iniziare a decorrere prima che si sia perfezionato il fatto illecito e che il suo effetto lesivo risulti percepibile da parte del soggetto danneggiato: principio ribadito ancora da ultimo dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento alla responsabilità del revisore ex art. 15, c. 3, d. lgs. n. 39/2010 (C. cost. n. 115/2024). Ne consegue un’obiettiva difficoltà di estendere l’applicazione della previsione alle azioni esperite da soggetti diversi dalla società, tanto più - come osservato anche da Niccolò Abriani - se il quinquennio viene fatto decorrere dalla data di deposito della relazione dei sindaci presso la sede sociale anziché dalla pubblicazione del bilancio (e dei suoi allegati) nel registro delle imprese.
Quanto infine al tema della retroattività, il nuovo 2407 non risulta applicabile ai giudizi in corso, non essendovi nella legge alcuna previsione in tal senso. Pertanto, ammesso e non concesso che si ritenga opportuno intervenire anche in via retroattiva (come ha dichiarato la relatrice della legge), sarebbe indispensabile un ulteriore intervento ad hoc, che non pare peraltro essere alle viste.