Cassazione Civile, Sez. Prima, 27 ottobre 2023, n. 29840. Pres. Cristiano. Rel. Abete.
Abstract:
Sommario:
Con riferimento a un’ipotesi di responsabilità della banca per abusiva concessione di credito, invocata nell’ambito di un giudizio di opposizione allo stato passivo fallimentare, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare le seguenti questioni sollevate dall’istituto opponente:
- se vi fosse la legittimazione del curatore ad invocare, in via di eccezione di compensazione, il ristoro del danno da asserita abusiva concessione di credito;
- se vi fosse la prova che la società sovvenuta versava effettivamente in stato d’insolvenza sia all’atto della concessione dell’apertura di credito, sia successivamente;
- se fosse configurabile il nesso di causalità tra l’erogato finanziamento e il depauperamento del patrimonio sociale sub specie di aggravamento del dissesto;
- se il finanziamento concesso a una società in stato di insolvenza sia di per sé foriero di responsabilità, o possa invece inserirsi in una strategia volta al risanamento e al conseguimento di utili;
- se l’asserito danno, quantificato dal tribunale nell’importo di euro 24.544.449,74, cioè in misura corrispondente al debito nei confronti della banca, costituisca un pregiudizio sofferto dalla società poi fallita, ovvero dai singoli creditori, allorquando fosse stata dimostrata la loro insoddisfazione;
-se nel solco della cosiddetta “teoria differenziale” il presunto danno fosse da quantificare in misura pari alla differenza tra la consistenza del patrimonio sociale in epoca antecedente e successiva al verificarsi del supposto evento lesivo e in misura tale, al contempo, da tener conto pure degli eventuali vantaggi conseguiti dalla società per effetto dell’assunto fatto lesivo;
- se infine, ad opinare per la natura precontrattuale della responsabilità della banca, il risarcimento andasse circoscritto al cosiddetto interesse negativo.
Il dictum dei giudici di legittimità si è concentrato sui temi-giustamente ritenuti assorbenti rispetto alle altre questioni- della legittimazione del curatore e del carattere abusivo o meno del finanziamento in rapporto alle condizioni economico-patrimoniali della società.
Sul primo punto, la Corte ha osservato che “in sede di delibazione della concreta fattispecie - che involge propriamente non già l’ipotesi dell’indebito mantenimento della linea di credito dapprima concessa bensì l’ipotesi dell’abusiva concessione ab origine del finanziamento- il giudice a quo ha, appunto, circoscritto il pregiudizio in tal guisa rilevante alla menomazione cagionata al patrimonio della società (…). In tal guisa il profilo della legittimazione del curatore del fallimento, quanto meno nella specie, non si prospetta in termini problematici. Invero, il curatore fallimentare è innegabilmente legittimato ad azionare la responsabilità che si correla al danno patrimoniale sofferto dall’imprenditore finanziato, in quanto (il curatore) gestore ex art. 31 l.fall. del patrimonio del fallito e dunque abilitato ad azionare ex artt. 42 e 43 l.fall. un diritto soggettivo già radicato nel patrimonio dell’imprenditore finanziato poi fallito”.
Quanto all’aspetto dell’abusivita’ dell’erogazione creditizia, la Cassazione ribadisce che essa “è qualificabile come “abusiva”, qualora effettuata, con dolo o colpa, ad un’impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi; in tale evenienza l’erogazione del credito integra un illecito del soggetto finanziatore, per esser questi venuto meno ai suoi doveri primari di prudente gestione, ed obbliga il medesimo soggetto al risarcimento del danno, ove ne discenda un aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività di impresa (cfr. Cass. (ord.). 30.6.2021, n. 18610). Propriamente, “concessione abusiva di credito” “designa l’agire del finanziatore che conceda, o continui a concedere, incautamente credito in favore dell’imprenditore che versi in istato d’insolvenza o comunque di crisi conclamata” (così in motivazione Cass. (ord.) n. 18610/2021). Beninteso, “quel che rileva è unicamente l’insussistenza di fondate prospettive, in base a ragionevolezza e ad una valutazione ex ante, di superamento [della] crisi” (così ulteriormente in motivazione Cass. (ord.) n. 18610/2021)”.
Con riguardo infine alla corretta valutazione delle condizioni economico-patrimoniali della società sovvenuta (e alla verifica dell’assunto del tribunale secondo cui “già al momento della stipula del contratto di apertura di credito le condizioni patrimoniali della società [lasciavano] prevedere l’esito infausto dell’operazione”), i giudici di legittimità hanno affermato quanto segue.
“Per un verso, non hanno valenza decisiva, siccome di significato del tutto neutro ovvero del tutto generico rispetto alla consistenza del patrimonio netto ed alla sua prospettiva evolutiva correlata, in vista del superamento dell’eventuale stato di crisi, all’erogazione creditizia de qua agitur, la modesta consistenza del capitale sociale, la “«debolezza» dell’assetto economico della società”, l’applicazione di interessi passivi atti a generare un indebitamento rilevante, l’ “aspecifico” rilievo delle perdite di cui ai bilanci, l’assunta inadeguatezza della garanzia ipotecaria accordata in relazione “alle caratteristiche concrete dell’operazione immobiliare finanziata”.
Per altro verso, riveste una certa qual plausibilità il rilievo della ricorrente – ben vero, al di là dell’assunto per cui alla data dell’erogazione creditizia la società non versava in stato di dissesto – secondo cui la specifica veste giuridica, sub specie di apertura di credito, dell’erogazione finanziaria comportava che “più l’apertura di credito veniva utilizzata, più la società finanziata aumentava il proprio patrimonio immobiliare”. Ossia che all’incremento della voce “debiti verso banche”, di cui al passivo dello stato patrimoniale, era inevitabilmente destinato a correlarsi l’incremento della corrispondente voce delle “immobilizzazioni materiali” di cui all’attivo dello stato patrimoniale. In questo quadro, quindi, non può che opinarsi, in conclusione, nel senso che l’impugnata pronuncia, in primo luogo in ordine al profilo “oggettivo” della condotta asseritamente “abusiva”, manifesta una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico-giuridico che ha condotto il tribunale alla formazione del proprio convincimento”.